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Programma della seconda sezione del Seminario |
Julio Monteiro Martins : È per me un piacere molto speciale presentare il mio vecchio amico e grande musicista Alberto Chicayban. Alberto ed io ci conosciamo da quando avevo quindici anni e lui diciotto, e in quella Niterói dell'inizio degli anni Settanta, nel periodo più brutale della dittatura militare, eravamo una coppia di amici solitari, con gusti molto particolari allora, a leggere gli autori che cominciavano ad arrivare da noi, Julio Cortázar e Jorge Luis Borges, Kurt Vonnegut e Juan Rulfo, e le nostre discussioni e riflessioni, spesso in una piazzetta di fronte alla spiaggia de Icaraí, sotto un castagno abitato da due pipistrelli che gironzolavano sulle nostre teste, avevano come colonna sonora "Adios Nonino", di Astor Piazzola, Charlie Parker, John Coltrane, Vinícius de Moraes, Janis Joplin, Chico Buarque e Billy Holliday. Molti anni più tardi, abbiamo perso le tracce l'uno dell'altro, e quando ci siamo “riscoperti” vivevamo già tutte e due in Italia, dove avevamo emigrato senza che uno sapesse dell'altro, una sorta di miracolo del destino, una trama con una tale sofisticata cospirazione del caso che non si può nemmeno scrivere in un romanzo perché sarebbe cattiva letteratura, anche se è ottima vita reale. Alberto non è soltanto un grande musicista, interprete e compositore, ma anche un intellettuale raffinato, un uomo di una cultura enciclopedica, un poeta che scrive versi indimenticabili per le sue canzoni, in Portoghese come in Italiano, e come un vero uomo del Rinascimento, Alberto Chicayban è anche uno scienziato di grande valore, che ha portato in Italia per la prima volta, e qui ha ulteriormente sviluppato, le tecniche di utilizzo della musica, o meglio, della memoria affettiva della musica, come efficace terapia per i malati di menti e per gli anziani con Alzheimer. Queste sue ricerche gli hanno aperto le porte delle più importanti istituzioni legate alla psichiatria nel Friuli e più recentemente dell'Università di Genova, dove avrà un incarico. Quindi, è con molto orgoglio che vi presento mio fratello di cuore e di vita Alberto Chicayban.
Mi decisi per l'esilio prima del Natale del 1992. Gli incontri di fine anno in famiglia erano stati particolarmente lunghi e i riti propiziatori rafforzati. Nella notte di capodanno in maniera discreta gettai fiori bianchi in mare. Per fortuna ci resta ancora una traccia di paganesimo e ossessività meticcia. Alla vigilia della partenza non sono riuscito a dormire. Non c'era traccia di stanchezza nel corpo ma soltanto una calma determinazione da guerriero di altri tempi che attendeva l'inizio del combattimento già fissato in antecedenza. Prima dell'alba mi sono offerto il sigaro degli avvenimenti importanti anche se non sono mai stato un fumatore. L'ho gustato mentre passeggiavo sulla spiaggia deserta. È stato un presagio delle battaglie lontane e solitarie. L'architettura incerta del bagaglio è parte della condizione dell'immigrato. È forse una proiezione dell'identità provvisoria del portatore. Il campo semantico dell'esilio appartiene allo stesso tempo all'area dell'abbandono, se consideriamo la partenza e alle incertezze, se pensiamo alla destinazione. È impossibile avere un'idea chiara di cosa mettere nella valigia per la ricostruzione di sè nell'esilio. Figurarsi. Non è facile nemmeno stilare un semplici elenco razionale di quelle poche cose essenziali da portarsi appresso quando la prospettiva di un rientro è vaga e l'ignoranza della realtà del paese ospitante pressoché totale. Non ho mai avuto grosse valigie e nemmeno possiedo la conoscenza segreta delle piegature particolari dei vestiti per salvare spazio all'interno del bagaglio. Ho scelto di portare alcune camicie a manica lunga regalatemi dalle mie sorelle e le ho anche pregate di piegarle per me. Dopo ho notato sopra il cotone dei capi tracce umide di piccole gocce. Sarà stato un trucco per rendere più facile la piegatura, ho pensato. I vestiti si possono acquistare ovunque ma le camicie regalate da mani premurose garantiscono un'invisibile eleganza interna fondamentale nelle circostanze difficili dell'esilio. Non potevano mancare due maglioni fatti da mia madre. Senza perfette conoscenze geografiche dell'Adriatico ha intuito le mie future sofferenze causate dal gelido vento triestino. L'archetipo della madre è associato al tepore della protezione e al cibo. Infatti ho trovato vicino alla valigia i miei dolci preferiti chiusi in un fazzoletto azzurro. Sono stati liberati prima della fine del viaggio perché i dolci in cattività diventano tristi. L'avevo imparato da piccolo. Piegata insieme ai pullover c'era una maglia arancione intrisa del profumo della donna che avevo follemente desiderato. L'ultima notte l'avevo pregata di indossare il suo regalo di addio per me al posto del pigiama. Ho dovuto insistere. Ad un certo tipo di donna gli slanci poetici suonano come stupidaggini che rovinano i vestiti o come smancerie che nascondono falsità. Sono le donne che ci fanno innamorare. Pazienza. Ho messo due giacche di colore chiaro e quattro pantaloni più o meno decenti in fondo al bagaglio. Uno di questi per fortuna macchiato solo lievemente. I pantaloni sono un'eredità barbara. La cultura occidentale li ha sottomessi a cose come l'orlo e anche all'inutile e fastidiosa stiratura. I miei pantaloni però sembrano essere ancora in contatto con la barbarie perché spesso si stropicciano e si macchiano. Non si sono mai adeguati alla moda neoliberale che richiede pantaloni sempre pronti ad essere calati. I pantaloni erano una volta la più povera metafora dell'integrità in Occidente. Con la diffusione dei jeans la metafora è diventata la libertà spicciola e poi è transitata in direzione dell'arroganza della divisa. Adesso i pantaloni rappresentano alcuni paradossi della civiltà occidentale. Per esempio, indossiamo pantaloni militari e pretendiamo di essere identificati come pacifisti. Strappiamo le brache e vogliamo offrire un'immagine di personale e originale raffinatezza. Le mutande sono state sistemate ai lati della valigia per proteggere le cose più vulnerabili del bagaglio. C'era bisogno di rispettare la loro vocazione. I calzini li ho annodati per evitare il divorzio dei pezzi dispersi ovunque. Le magliette della salute sono state avvolte intorno agli oggetti fragili a fare la guardia, evitando così i colpi nel trasporto. La biancheria è anonima come la fanteria ma è meglio non risparmiare sul numero delle unità quando la guerra è lunga. Fra i pantaloni e le maglie ho incastrato i libri. Il Grande Sertão , Ficciones , El Aleph e Rubayyat . Guimarães Rosa, Jorge Luis Borges e Omar Khayyam. Gli atlanti della scoperta dei miei mondi interiori sarebbero serviti ora alla scoperta dei nuovi sentieri dell'esilio. Per non perdere la ternura jamás ho pensato di aggiungere Montale ma sarebbe stato un insulto al poeta portarlo dal Brasile all'Italia travestito da portoghese. Avrei imparato l'italiano per leggerlo un giorno in maniera decorosa. Ho messo anche l'indispensabile manuale di Casella e Mortari La Tecnica dell'Orchestra Contemporanea tradotto in spagnolo. Lo avevo rilegato con una copertina rossa ed era pieno di appunti del tempo degli studi di composizione. Una di queste note scritte a matita diceva: alla Musica non serve rimanere alla dissonanza o alla consonanza ma avvicinarsi e allontanarsi in maniera sinusoidale dagli estremi tramite la creazione dell'attesa d'arrivo e la puntuale fuga della prospettiva da una definizione facile. Non sapevo allora di andare verso un paese di musicisti governato da sordi ma l'appunto è stato utile alla mia ricostruzione nel contesto italiano. Strani oggetti possono popolare il bagaglio dell'immigrato. Sassolini, rametti, foglie o pezzetti di carta immacolata accuratamente conservati. Queste cianfrusaglie vengono spesso associate a ricordi da proteggere dall'oblio o rappresentano gli affetti lasciati alla partenza. All'interno della valigia ci possono anche essere cose apparentemente inutili gettate lì per sola intuizione. A distanza di anni quelli oggetti portati senza una motivazione precisa ci svelano una possibile prospettiva simbolica su come interpretare il distacco dal paese d'origine e l'attaccamento al nuovo. Lo scrittore Julio Monteiro Martins prima della partenza per l'esilio in Italia è andato in spiaggia per salutare il Brasile un'ultima volta. Una bambina sconosciuta gli si è avvicinata e in maniera del tutto imprevedibile gli ha regalato un frammento di conchiglia. La tenerezza del ricordo ha suggerito al mio amico la trasformazione del regalo della bambina in una sorta di talismano e l'oggetto è finito in un angolo della valigia. Anni dopo Monteiro Martins ha raccontato la storia del dono dell'ultimo giorno in Brasile ad uno scrittore africano immigrato in Italia come lui. Gli occhi dell'africano sono diventati improvvisamente lucidi: - “Anch'io ho avuto in regalo una conchiglia a forma di chiocciola prima di lasciare la mia terra”! Il pezzetto solitario della conchiglia di Monteiro Martins potrebbe simboleggiare la disponibilità a integrare la propria identità nella nuova situazione di vita, la parte mancante del guscio. Un percorso dunque segnato dalla ricettività. La conchiglia a chiocciola dello scrittore africano potrebbe rappresentare la disposizione a mantenere un nucleo protetto e immutabile, l'interno invisibile della chiocciola come la radice dell'evolversi attivo dell'identità nel paese d'adozione. I gusci vuoti delle due conchiglie sarebbero connessi all'immagine della morte se pensiamo agli animali che una volta hanno abitato l'interno degli involucri. I rivestimenti però possono essere anche associati al proseguimento dell'esistenza di una parte di quelle forme di vita ad un piano di spiritualità sublime che riguarda l'arte e i sogni degli uomini. Mancavano ormai poche ore alla partenza. La mia valigia è stata chiusa dopo l'aggiunta di un piccolo strumento musicale a forma di conchiglia. Soltanto adesso me ne sono ricordato! Sarà stata una coincidenza. Proseguirei adesso il mio intervento sondando un altro terreno che sempre ha a che vedere con l’emigrazione. Quello che vi devo raccontare riguarda l'influenza fondamentale di un aspetto della personalità musicale italiana sulla nascita della potente musicalità brasiliana che oggi conosciamo. Dunque vi chiedo un po' di pazienza perché ci sarà bisogno di un viaggio a ritroso nel tempo. Mi farò aiutare dagli strumenti e dalla voce. La musica cantata e suonata in Brasile prima dell'arrivo dei colonizzatori portoghesi rimane un fitto mistero. Sono rimasti cinque spartiti poco precisi trascritti nel libro Histoire d'un voyage fait en la terre du Bresil di Jean de Lery pubblicato in Francia nel 1578. Oltre la grafia musicale di canti della tribù tupinambá Lery ci ha lasciato alcune informazioni e commenti sulla musicalità dei tupinambá, gli abitanti originali del luogo detto Guanabara , la Rio de Janeiro dei portoghesi: Le cerimonie (dei nativi) sono durate due ore. Durante questo lasso di tempo il mezzo migliaio di uomini (davanti a me) non ha cessato di ballare e cantare con tanta qualità melodica che soltanto chi ha ascoltato potrà credere. L'impressione che mi ha causato l'armonia di quel coro e soprattutto il ritornello ripetuto dopo ogni verso: Heu, heuau, heuraura, heu, heura, ouêh.
(interpretazione di una delle musiche tupinambá trascritte da Lery)
È qualcosa che non mi dimenticherò mai e quando lo ricordo il cuore pulsa come se lo ascoltasse ancora. Il missionario calvinista Jean de Lery ha insistito in coprire la nudità delle femmine. Inutile: si denudavano minuti dopo. Lery ha minacciato i tupinambá con la vendetta del temibile dio d'Europa. Niente: ridevano. L'allievo di Calvino ha blaterato contro la barbara abitudine di mangiarsi il nemico. Una perdita di tempo: si sono banchettati davanti a lui con arti e viscere degli avversari catturati. Jean de Lery alla fine ha dovuto riconoscere che vivevano in modo armonioso, retto e puro al contrario degli europei. Era quello il messaggio trasmesso dalla musica tupinambá al cuore del missionario convertito. Non era una forma d'Arte ma la potenza della Vita tradotta in linguaggio musicale senza veli d'arroganza. I tupinambá non avevano la pretesa né il bisogno di costruire con i suoni e linguaggio un qualcosa di parallelo all'esistenza per rifugiarsi. Erano uomini interi.Dopo il XVI secolo in verità non abbiamo realizzato grandi sforzi per capire il significato della musica e dei canti dei popoli amerindi perché eravamo occupati in programmare il loro sterminio. Dal 1900 fino al 1990 sono scomparse nel nulla 87 etnie. È dunque naturale pensare alla nascita della canzone brasiliana con la lingua portoghese come succede alla quasi totalità degli studiosi brasiliani e stranieri. Con lo sviluppo della colonizzazione europea nel Brasile aiutata dalla schiavitù sorge dunque la prima forma musicale brasiliana meticcia: la modinha . È risibile cercare una data di fondazione e un mitico creatore per la modinha come hanno fatto tanti studiosi perché sarebbe lo stesso che cercare di scoprire la precisa data d'inizio della tarantella , del jazz o del flamenco e i loro geniali inventori. Il vero stile musicale è il risultato del lavoro anonimo di migliaia di anonimi musicisti e matura tramite un processo relativamente lento. La modinha viene alla luce poco prima della metà XVIII secolo. L'arrivo dello stile musicale forse coincide con la creazione di una complessa identità meticcia brasiliana. L'interazione di diverse etnie sotto una impedance di forti contrasti ha originato i nostri modi d'essere brasiliani. Accanto alla modinha di modi galanti creata per l'ascolto è nato il lundu , una forma musicale ballabile piena di secondi sensi e talento umoristico. Lundu e modinha hanno convissuto in maniera democratica per le strade nei tempi del Brasile coloniale e poi guadagnato l'accoglienza dell'élite colonizzatrice confusi sotto lo stesso nome modinhas . Ambedue avevano un'influenza europea ma erano uniti nel gusto ritmico e melodico afro brasiliano. Non costituivano soltanto un genere duale e meticcio ma rappresentavano anche una maniera particolare di suonare e cantare che accomunava i musicisti brasiliani del periodo. Forse ci accomuna ancora.
(interpretazione di modinha e lundu risalenti al XVIII secolo con l'accompagnamento della “viola de corda de arame”)
Ci sono documenti che attestano l'esistenza del genere di nome modinha e una forma d'interpretazione a lui associata già nel 1787 come prodotto brasiliano d'esportazione nel Portogallo. William Beckford, scrittore e viaggiatore inglese, nel suo Diario ha registrato in data 14 Giugno 1787 il seguente: In una finestra, sopra la fontana lucente di “Sua Reverendissima”, abbiamo avvistato due belle sorelle, dame di compagnia della Regina, che ci facevano segni per invitarci alle loro stanze piene di nipoti e cugini. (Loro erano riuniti) attorno a due giovani, le quali accompagnate dai loro maestri di canto, cantavano le modinhas brasiliane. Quelli che non hanno mai ascoltato questo originale genere di musica ignorano e rimarranno nell'ignoranza delle più affascinanti melodie mai esistenti. Lo scrittore inglese aveva ascoltato le modinhas all'interno del palazzo della Regina del Portogallo “Dona Maria I”. Diversi storici già nel 1775 parlavano delle canzoni suonate da un brasiliano nei palazzi dell'aristocrazia portoghese in diverse città del paese. Questo brasiliano di nome Domingos Caldas Barbosa suonava una detta viola de corda de arame (viola a corde di fil di ferro) e cantava modinhas e lundus . Era forse lui l'origine delle “affascinanti melodie” ascoltate da Beckford nel 1787. Domingos Caldas Barbosa utilizzava la parola modinha per indicare le canzoni che componeva per distinguerli del termine generico moda che veniva impiegato nel Portogallo di quei tempi come sinonimo di canti, romanze o arie cortigiane. Il musicista forse per dimostrare modestia nei confronti dei colleghi portoghesi preferiva il diminutivo modinhas per le sue modas . Il nostro Domingos Caldas Barbosa era un mulatto. Nato a Rio de Janeiro attorno il 1740 da padre portoghese e madre nera schiava d'Angola, Barbosa è stato educato dai gesuiti e mandato a Coimbra per completare gli studi. A Lisbona è diventato famoso anche come improvvisatore di versi cantati e accompagnati con la viola de corda de arame . Sono rimaste le parole delle modinhas del Barbosa nel libro “Viola de Lereno” firmato con il pseudonimo arcadico da lui adottato. Le musiche, fatta eccezione ad una sola trascritta in solfa, sono andate perse. Le modinhas e lundus provocarono accese polemiche nel Portogallo di quei tempi. Sono pervenute fino ai nostri giorni due critiche alla penetrazione delle modinhas brasiliane nei salotti dell'aristocrazia del XVIII secolo. La prima è diretta al Caldas Barbosa ed è stata scritta da un erudito (forse giudice) di Lisbona, il dottor Antonio Ribeiro dos Santos: Oggigiorno si ascoltano soltanto le cantiche amorose e di sospiri, di flirt raffinati pieni di melenso. Questi canti fanno addormentare i piccoli, sono insegnati ai bambini e fatti cantare ai ragazzi. È quello che hanno in bocca le dame e le donzelle. Quali grandi massime, modestia, temperanza e virtù imparano nelle canzoni! Questa piaga è oggi generalizzata dopo che il Caldas ha cominciato a scrivere i suoi romanzi e versi per le donne. Non conosco niente di più deleterio all'educazione privata e pubblica di questo trovatore di Venere e Cupido: il gioco d'azzardo dell'amore, la tenerezza brasiliana, e, in generale, il morbido e pigro comportamento americano, è il materiale con il quale costruisce il carattere dei suoi versi. (Questi versi) respirano l'aria di Paios e de Cítara e incantano con filtri velenosi la fantasie dei giovani e il cuore delle dame. L'altra critica è venuta niente di meno della penna del celebre poeta Bocage sotto forma di sonetto ad un altro brasiliano suonatore di modinhas . Il titolo: DEDICATO AD UN CELEBRE MULATTO JOAQUIM MANUEL BARBOSA, GRANDE SUONATORE DI VIOLA E IMPROVVISATORE DI MODINHAS Questo caprone che vai in giro a urlare, Che si è succhiato in Brasile tanta bastonata Vile suonatore della vile chitarra, Un cane al quale la corda non disturba: O Terra che vile mostro hai prodotto Laddove la Natura schiaccia i nasi Uno che il niente armonico spinge, Uno di colore incerto che fa guerra alla pazienza, Uno che esce del muso della cagna madre, Uno che le idiote applaudono più della mirra, Uno senza libertà nell'origine.Quello che persevera ancora di più quando lo rifiutano Merita di prendere una filosofica punzecchiatura Un cornuto (!), un se ne vada (!), un via (!), un basta (!). È strano sentire un erudito del periodo come Ribeiro dos Santos criticare le “cantiche amorose fatte di sospiri, di flirt raffinati” composte da un “trovatore di Venere e Cupido”. Questi erano valori fondamentali per la lirica amorosa del XVIII secolo e sottoscritti dalla totalità dei poeti del periodo, religiosi inclusi. La poesia cortigiana era galante in maniera chiara e nessuno si penserebbe di criticarla per questo pregio. Poi i versi contenuti nel volume Viola de Lereno del Caldas Barbosa sono quasi sempre poco diretti rispetto ai flirt e gli amori in corte. A volte la poesia dell'improvvisatore de modinhas toccava il sublime. Inoltre Caldas Barbosa era stato accolto in una Arcadia di poeti a Lisbona e da arcade si comportava! Il problema di sicuro era un altro: la musica e la maniera di farla. Era l'interpretazione delle modinhas a trasmettere la tenerezza brasiliana, il morbido e pigro comportamento americano . Dalla sua parte il grande Bocage non ha avuto niente da dire riguardo il potere sovversivo della modinha sulla gioventù portoghese. Era lui Bocage la personificazione della gioventù corrotta, una leggenda vivente del mal costume e delle abitudini goliardiche, lo scostumato seduttore e produttore di versi osceni. Il punto della critica è la condizione mulatta di Joaquim Manuel Barbosa, un figlio della schiavitù come Caldas Barbosa. Uno qualsiasi venuto dal Brasile, paese della gente meticcia dai nasi schiacciati , viene richiesto alla corte ed è capace di trascinare in maniera irresistibile le donne tramite una musicalità sensuale e potente. È stata quell'immagine a provocare l'ira del poeta perché forse l'avrebbe sognata per se stesso. Nel ‘800 le modinhas hanno attratto i massimi esponenti del romanticismo brasiliano. Gonçalves Dias, Fagundes Varela, Àlvares de Azevedo e tanti altri famosi poeti si sono avvicinati allo stile musicale per godersi il prestigio di farsi ascoltare in musica apprezzata e riverita. Si sono dunque impossessati dalla modinha e i loro nomi ricordati come gli unici autori delle canzoni. Quando pensiamo ad una modinha del ‘800 come O Gondoleiro do Amor ci viene in mente il nome del grande poeta romantico brasiliano Castro Alves! Quasi nessuno ricorderà Salvador Fábregas, l'autore della tenera e intelligente musica. I musicisti si potevano affittare per le occasioni giuste e portarli sotto il braccio per qualunque necessità perché erano gente qualunque. I poeti, al contrario, si presentavano come i figli di un'aristocrazia galante che guardava verso la raffinatezza della madre Europa.
(interpretazione di “O Gondoleiro do Amor, di Castro Alves e Fábregas, come esempio di modinha del XIX secolo in via d'italianizzazione)
(…) La tua voce è cavatina dei palazzi di Sorrento Quando la spiaggia bacia l'onda, quando l'onda bacia il vento. Come nelle notti d'Italia ama un (suo) canto il pescatore Beve l'armonia nei tuoi canti il Gondoliere dell'Amore.
Nel ‘800 e addirittura ancora nel ‘900 la modinha viene accusata di essere italianizzata! Giornalisti ignoranti improvvisati in musicologi, i soliti critici da strapazzo o gli intellettuali incapaci di distinguere un Do maggiore di un La minore, si alzavano (e ancora lo fanno) per accusare la modinha di una perdita d'autenticità. Non i poeti ma i solerti musicisti avrebbero portato l'influenza italica alla nostra pura brasilianità! Le proteste riguardo l'italianizzazione della modinha coincidono – guarda caso – con l'inizio dell'immigrazione italiana in Brasile. Si poteva quasi sentire l'eco della voce accusatoria dell'erudito portoghese dottor Antonio Ribeiro dos Santos associata al lamento del poeta Bocage questa volta contro l'arrivo dei sovversivi italici! Le compagnie liriche d'Italia comunque arrivavano una dopo l'altra nel Rio de Janeiro dalla metà Ottocento all'inizio del Novecento ed erano un successo popolare. Esistevano addirittura le tifoserie organizzate per le cantanti italiane e la gente si pestava all'ingresso dei teatri per fare rispettare le sue dive ai seguaci della rivale! È stato naturale per i musicisti brasiliani formati in un ambiente musicale pieno di sincretismi l'acquisizione della disposizione italiana a ricercare melodia ed armonia. La musica italiana più che le forme ci ha offerto un modello che insegnava a non conformarci alla costruzione musicale spicciola e cercare di arrivare al brivido! L'abitudine di ricercare sempre di più negli elementi della composizione tipica del carattere musicale colto italiano fu incorporata alla musicalità afro brasiliana. La disposizione interpretativa morbida e flessibile caratteristica della tradizione meticcia ha guadagnato l'aiuto della raffinatezza compositiva. Un enorme poeta ricercatore del ‘900 come Manuel Bandeira ha fatto questione assoluta di scrivere i versi delle modinhas di Jaime Ovale e lo ha presentato al mondo come un genio dell'invenzione musicale. Lo era.
(interpretazione di “Modinha”, scritta da Manuel Bandeira e Jaime Ovale, come esempio della modinha italianizzata)
L'influenza italiana ha reso la modinha in grado di lasciare il salotto borghese verso la sala di concerto! Il Brasile e la sua musica meticcia avevano guadagnato un altro bel colore e un altro diverso atteggiamento da aggiungere all'arcobaleno locale. Senza la modinha italianizzata la Musica Brasiliana da Villa Lobos a Jobim non sarebbe stata la stessa potenza! Non siamo diventati italiani ma li abbiamo mangiati amichevolmente! Grazie.
A mio avviso l'emigrazione di chiunque, lo sradicamento di un individuo dalla terra dove è nato è sempre motivata da cause politiche, non ci sono dietro all'emigrazione cause che non siano alla fine politiche, pochissime volte un emigrato arriva da qualche parte mosso da una voglia di cambiamento esistenziale, di nuovi stimoli, ma arriva perché nella sua società non c'è spazio per l'espressione della sua identità, non c'è pace, non c'è rispetto umano. Là dove l'Occidente ci ha messo lo zampino ha sempre provocato un grande casino che ha generato fame, dittature, persecuzioni, torture, mancanza di occupazione. Per esempio in Sudamerica dal '58 al '73 tutti i paesi sono caduti sotto dittature, la brasiliana per esempio è durata dal '64 fino all'85. Io e Julio abbiamo vissuto tutta la nostra gioventù sotto dittatura militare e tutto era coordinato da un'operazione creata dalla CIA di nome “ Operazione Condor ”. Queste cose sono ormai storia. L'amministrazione Clinton ha chiesto pubbliche scuse all'America Latina, però i giornali qui in Italia hanno appena dato due trafiletti. Alla fine sotto questa marea di immigrati che si muovono in tutte le direzioni c'è sempre il sopruso, la violenza, la tortura, la mancanza di opportunità di lavoro. Per questo penso all'esilio, io sono un esiliato! Un auto esiliato!
Ed è un esilio anche più crudele dell'esilio della dittatura perché quello ha il sigillo del potere, cioè questi sono nemici ufficiali del potere, mentre a noi non è stato concesso nemmeno questo sigillo ufficiale, cioè ci è stato detto se volete andare andate per conto vostro e non sarete riconosciuti come esiliati, ma come poveri diavoli in cerca di lavoro e di sopravvivenza economica. Aggiungerei anche una cosa: è vero che la dittatura militare in Brasile ufficialmente è finita nell'85, però il governo democratico che è venuto dopo è stato più deludente e distruttivo della dittatura! È per questo che siamo esiliati. Abbiamo passato tutta la gioventù cercando di costruire il riscatto del momento politico della fine della dittatura e quando questo momento è arrivato, è arrivato per mettere al potere la peggiore canaglia possibile del paese, rimasto lì per 20 anni! Quindi la sensazione che ho è che la nostra unica vita ci è stata predata e sottratta da un paese che non può essere chiamato madre né padre, ma è piuttosto un figlio delinquente, molto amato però delinquente.
Ieri mi è venuta in mente una cosa. È sempre stato per gli studiosi della letteratura e per gli storici inglesi e internazionali un grande mistero la personalità di William Shakespeare. Stranissimo, un uomo venuto dal nulla, di radici incerte, un plebeo tutto sommato, che conosceva tutte le lingue europee, tutta la filosofia e la scienza dell'epoca, che conosceva il mestiere del marinaio e le leggende italiane. Come mai? Lo stesso nome è strano, in inglese non esiste, nella storia dell'Inghilterra più remota non hanno mai trovato Shakespeare. Un professore siciliano ha scritto un libro, dopo anni di ricerche, sulla storia di un certo Michele che parte dalla Sicilia e cerca rifugio a Venezia, era un uomo molto colto, aveva lasciato, scritto in dialetto messinese, una commedia di nome “ Tanto fumo per nulla ” . A Venezia viene perseguitato un'altra volta, perché era protestante, va a Parigi, da Parigi va in Inghilterra a trovare un parente lontano della madre che aveva il cognome di Scrollalanza. Entra nel paese al posto di un ragazzo morto che era figlio di questo parente lontano della madre, che faceva l'oste. Lui ha adottato il nome del ragazzo morto, William, e ha tradotto in inglese il cognome siciliano della madre Scrollalanza ed è venuto fuori Shakespeare. Ha cominciato a scrivere cose basate sulla sua esperienza di marinaio, perché è stato marinaio per molti anni e parlava un sacco di lingue e aveva già scritto tanto per teatro in Italia, sempre scappando dalle persecuzioni religiose. Questo uomo si è esiliato in Inghilterra, ha usato l'inglese in una maniera magistrale per scrivere forse le più belle poesie di tutti i tempi dell'Inghilterra e ha costruito un enorme patrimonio drammaturgico che fin oggi per noi rimane un esempio. Era un esiliato, di persecuzioni politiche e religiose in territorio italiano. Qui in Italia questa notizia non è stata trattata alla sua portata, il Times invece in maniera seria ha dedicato un'intera pagina. William Shakespeare per me è la metafora perfetta dell'esilio, si è ricostruito un'identità nuova in un'altra lingua e l'ha saputa padroneggiare come nessuno ha mai fatto.
Volevo fare una battuta sul fatto che l'amministrazione Clinton ha chiesto scusa al Sudamerica. A me pare che l'amministrazione Bush ha smentito ufficialmente.
Sia i democratici che i repubblicani hanno sempre cospirato contro le democrazie, rovesciato governi democratici, nella stessa maniera per noi rimane una finzione la differenza tra democratici e repubblicani. Sono loro a provocare i grandi casini che alla fine generano l'immigrazione, non solo in Sudamerica, ma ovunque.
Non bisogna dimenticare che l'inizio e la scalata militare nel Vietnam sono state decise da due presidenti statunitensi del partito democratico, Kennedy e Johnson e che precedentemente su Nagasaki e Hiroshima un altro del partito democratico, Truman, ha sganciato le due uniche bombe atomiche fino ad oggi esplose. Questa è la storia del partito democratico statunitense. Julio Monteiro Martins : In questa seconda parte della mattina, ho l'onore e il piacere di ricevere la professoressa Anna Frabetti. È stata la curatrice del libro “ L'italiano lingua della migrazione ” , che sono gli atti del convegno sulla letteratura italiana della migrazione, poi vi spiegherà meglio, non solo verso l'Italia, ma anche dall'Italia verso l'estero realizzato a Nantes in Francia nel 2005. La professoressa Frabetti insegna e fa la ricercatrice in Francia, quindi è una profonda conoscitrice non solo di questa letteratura in Italia, ma anche della realtà francese, e ci da questa rara e preziosa possibilità di avere un metro di paragone tra queste realtà. Mi ha colpito, quando mi hanno gentilmente inviato questo libro, la serietà dei saggi presenti e i criteri di selezione dei partecipanti, è stato un convegno di grande qualità e io ci tenevo ad avere la professoressa qua fra noi. Ora le passo la parola.
Buongiorno a tutti, metto subito le mani avanti, non sono una profonda conoscitrice di questa realtà letteraria, diciamo che sono arrivata a occuparmi di queste cose dalla Francia, quindi avendo vicino un contesto che è quello della francofonia che permetteva effettivamente dei legami con la letteratura della migrazione. Una sola parola sugli atti del convegno. Il convegno si intitolava appunto “ L'italiano lingua della migrazione ”, quindi c'erano interventi che riguardavano la letteratura della migrazione in Italia, la letteratura della migrazione italiana verso altri paesi, Quebec in particolare, e poi c'erano articoli che riguardavano la diffusione dell'italiano in diversi luoghi, dall'Europa all'Africa. Allora, innanzitutto ringrazio Julio Monteiro Martins dell'invito. Spero di non annoiarvi troppo, sono un po' intimorita dopo l'intervento di Alberto. Quello che cercherò di fare è il punto della situazione sull'approccio critico a questo tipo di letteratura, dicendovi quello che a mio avviso è o sarebbe importante prendendo a prestito anche frammenti di testi di autori e facendo brevemente un parallelo con la situazione francese a proposito dell'uso della lingua e della scelta della lingua. Per questo mi aveva molto colpito, mentre preparavo questo intervento una citazione di uno scrittore francese contemporaneo, poco noto in Italia, Valère Novarina, lui scrive: La lingua non è il tuo strumento, il tuo arnese, ma la tua materia, la materia stessa di cui sei fatto; i trattamenti che le fai subire, li infliggi a te stesso e, cambiando lingua, cambi te stesso. Perché sei fatto di parole. Non di nervi né di sangue. Sei stato fatto dalla lingua, con la lingua. La mia posizione qui è quasi paradossale, nel senso che io ho seguito la nascita della letteratura migrante italiana da lontano, perché vivo e lavoro in Francia da molti anni, pur essendo molto spesso in Italia, quindi in quella situazione di “ponte” sospeso tra i due paesi, che mi dà spesso la sensazione di essere in entrambi o in nessuno dei due. Perciò il mio approccio critico a questa letteratura parte da una personale condizione di migrazione, di transito, di erranza. Riprendo per cominciare una cosa che è stata detto proprio ieri da Julio in apertura dei lavori a proposito dell'amore per l'esotico nell'approccio di certa critica. Youssef Wakkas ha scritto, in relazione a questo sulla rivista Kuma nel 2001 parole lucide e dure nei confronti dell'approccio della critica italiana alla scrittura della migrazione, che definisce “ex letteratura”, letteratura extra: “ Questa letteratura non sembra un movimento legittimo dal momento che essa si muove e si comporta alla stregua di una figura clandestina, indefinibile e inesplicabile. Il merito di questo comportamento va anche ai critici, perché, fin dall'inizio l'hanno trattato come una novità esotica, che desta semplicemente fascino, il fascino e la curiosità di un locale etnico.” Se questo approccio “esotico” o “etnico” ha sicuramente dei rappresentanti, credo però che ci siano oggi anche molti critici che si interessano a questa letteratura anche, ma non solo, a partire da un'esperienza personale di espatrio o di contatto con movimenti analoghi, sorti in precedenza in altri paesi europei e non. Si potrebbe fare l'esempio di molti studiosi italiani trapiantati in America, come Graziella Parati. O anche di italianisti non italiani, come Robert Dombroski che in un suo articolo nel 1998 richiamava alla necessità per l'italianistica di uscire da un approccio prevalentemente storico-filologico. C'era, nelle parole di Wakkas, il monito a non trasformare la lettura di queste opere – il rischio c'è stato e c'è anche per le letterature postcoloniali – in oggetti esotici di moda. Accettare la scrittura dell'Altro in quanto tale, senza volerla assimilare ai propri esclusivi criteri, senza restare immobili sulla propria piattaforma di valori. Meglio il rischio del fraintendimento, insito in ogni azione interpretativa come in ogni incontro, che questa sorta di accettazione egocentrica, monolinguistica, univoca. Per quanto mi riguarda, ho cominciato a leggere e ad interpretare questi autori anche grazie all'osservazione di un'altra realtà a me più vicina, quella della francofonia. Mi occupo da molto tempo di letteratura italiana contemporanea e, sia detto tra parentesi, io sono convinta che oggi una prospettiva comparativa sia essenziale a chiunque si occupi di letteratura contemporanea, che non sia più pensabile, come forse lo era un tempo, dedicarsi esclusivamente ad una letteratura, senza tenere conto della mutazione dell'orizzonte culturale che si apre progressivamente alla “creolizzazione”, se vogliamo usare la terminologia di Gnisci lettore di Glissant. L'attenzione alle culture non europee, siano esse africane o latino americane o asiatiche, l'esperienza di autori e intellettuali sradicati dalle culture e dalle lingue d'origine, il postcolonialismo e la critica al postcolonialismo, rendono necessario un ripensamento non solo in termini di metodi critici, di approccio al testo, ma anche di confine geografico della letteratura. In questo senso va intesa la posizione di Dombroski – cito lui per rendergli omaggio, a qualche anno dalla sua scomparsa, ma potrei citare molti altri – nel senso che gli strumenti filologici del critico restano straordinariamente importanti nel dialogo con il testo letterario, ma vanno affiancati da una mobilità dello sguardo, da una capacità di apertura (in questo senso intendo la parola “dialogo”) che non è solo quella al contesto contingente dell'opera, ma ad una pluralità di fonti che nell'opera si intersecano. La nuova geografia letteraria rende necessario un approccio multiplo, poiché le opere che nascono dalla migrazione, che stanno all'incrocio dei sentieri – come dice un bel titolo di una raccolta di racconti di alcuni anni fa – sono oggetti quanto mai multipli, linguisticamente, culturalmente, filologicamente. Vorrei partire da questa prospettiva per riflettere su alcuni punti che considero importanti, anche in rapporto alla situazione francese di cui ho esperienza, pur senza essere una studiosa di francofonia. Il primo punto è la lingua, la scelta della lingua e il discorso sulla lingua, metalinguistico, che gli scrittori migranti in Italia stanno sviluppando negli anni. Ho appositamente evitato di parlare di autori “italofoni”, perché il termine mi rimanda a quello – quanto mai contrastato – di “francofoni”. La definizione di francofonia è troppo complessa, linguisticamente, storicamente, politicamente, per poterci soffermare a discutere qui del suo contenuto. Perché si tratta di francofonie, africana, caraibica, belga, quebecchese. Il mio discorso non può che essere lacunoso e sommario di conseguenza e me ne scuso, ma le lacune mi aiuteranno a non perdere di vista il centro del mio ragionamento. Per alcuni degli autori postcoloniali, quelli del sud del mondo, che hanno usato la lingua del colonizzatore, la scrittura è un luogo di scontro, di vendetta, di conflitto. Come il congolese Tchicaya u Tam'Si che affermava: «La lingua francese mi colonizza, io la colonizzo a mia volta, e questo dà un'altra lingua». O come Henri Lopès, quando diceva che occorre violentare la lingua, «farle dei bastardi.» Ciò che viene detto, i temi di cui l'autore parla si nutrono di questo scontro, nelle sue diverse esplicitazioni, che si sono susseguite nel tempo. In alcuni casi, l'autore può anche utilizzare la lingua in modo da rispondere alle attese dell'orizzonte francese, per convinzione, per una sorta di volontà ossequiosa della traduzione identitaria, per rispondere alle leggi del mercato. E questo non accade solo per chi usa la lingua coloniale: ha fatto discutere, ad esempio, Andreï Makine, l'autore russo del Testament français , che ha recentemente pubblicato un libro dal titolo inequivocabile : La Francia che ci dimentichiamo di amare , che grazie soprattutto al successo del suo libro ha ottenuto la nazionalità francese. In altri casi, l'autore si propone di deformare la lingua coloniale, di deturparla, di stravolgerla dal suo interno – come fa per esempio certa letteratura “beur” [Charles Larronde], cioè dell'immigrazione araba, di seconda e terza generazione, per esprimere il proprio odio nei confronti di quella lingua, per farne come ha detto qualcuno il proprio “bottino di guerra” o attraverso l'uso di costrutti e di forme grammaticali o lessicali provenienti dalla madrelingua – come fa Amadou Kourouma, l'autore di Soleils des indépendances o come hanno fatto, in modo ben diverso, alcuni autori caraibici, da Aimé Césaire fino a Glissant, Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant, che creolizzano il francese, dando vita ad una lingua nuova, che fonde registri diversi e lontani fra loro (dall'oralità ai termini aulici, al registro familiare), la lingua della creolizzazione . A volte, in tempi più recenti qualcuno ha scelto di rinunciare a scrivere solo in francese per ritrovare la propria madrelingua; qualcuno ha rinunciato a scrivere tout court, come Ousmane Sembène, che dopo avere pubblicato diversi romanzi decide di dedicarsi interamente al cinema, dichiarando di non voler più esprimersi in francese per evitare di arricchire la lingua dell'oppressore. In tutti questi casi – gli esempi sarebbero infiniti – le pagine scritte in francese o nelle lingue africane o non scritte, sono impregnate di un passato doloroso, tragico, e ad un tempo della volontà di farne un luogo di memoria, memoria linguistica, condivisa con il lettore, polifonica all'estremo. Tutto questo per dire che la nozione di scelta della lingua, nel contesto italiano, assume tratti profondamente diversi. Si tratta, per riprendere ancora le parole di Wakkas, di una lingua franca, non “neutra” – non riesco a capire la definizione data da Igiaba Scego, nella prefazione all'antologia Italiani per vocazione (2005) cosa significa “neutra”, quale lingua è “neutra”? – . Il panorama che comincia a trovare una sua fisionomia negli ultimi anni è estremamente variegato, proprio in termini di provenienze linguistiche e di immaginari lontani. E a me sembra un po' rischioso l'atteggiamento di quanti – autori e critici – parlano in questo senso della necessità di “vivificare” la lingua e la letteratura italiana contemporanea attraverso apporti provenienti da altre lingue. È una posizione pericolosa perché sottintende un'ermeneutica gerarchica, per così dire, un ragionare in termini di centro e periferia e in cui il centro rimane tale, mentre invece il cambiamento che è auspicabile presupporrebbe che tale rapporto venisse capovolto o lasciasse spazio alla plurivocità. Altrimenti si rischia, anche nel caso dell'Italia, di continuare a ragionare in termini di madrepatria e di colonie. È, se volete, una faccia più raffinata forse dell'interesse per l'esotico, che è il contrario del desiderio di approfondimento, quello che rischia di creare i “ghetti” di cui tanti autori migranti si lamentano. Ndjock Ngana ha scritto versi che parlano del disagio dell'apprendimento di una lingua del centro per chi viene dalle lingue delle “periferie”. Il suo discorso si può applicare a quel che cerco di dire: “Ti chiameranno persino vu' cumprà; tu non sai nemmeno parlare la loro lingua, più importante, più qualificante dei nostri wolof, hausa o basaà, dei nostri fang, swahili o lingala.” (Y. Ndjock Ngana, Nhindo/Nero, Roma, Anterem, 1994, p. 63).
Ora, a me sembra che proprio la specificità italiana, la presenza di un passato coloniale non comparabile a quello francese o di altre potenze europee, andrebbe utilizzata in senso costruttivo, in tutta la libertà che la mancanza di un peso memoriale come quello della colonizzazione può offrire. In che modo? Jarmila Ockayova propone – da scrittrice – una risposta, parlando anche del suo Occhio a Pinocchio : Si valuta spesso il grado di inserimento di un immigrato, usando vari criteri: la padronanza della lingua, l'occupazione, il possesso di una casa, la relazionalità aperta e mista o la chiusura nei nuovi ghetti per così dire etnici… Io vorrei rovesciare il concetto stesso dell'inserimento: domandarmi non quanto un immigrato sia inserito nel nuovo contesto sociale, ma quanto quel contesto sia inserito in lui – come la mano che s'infila nella veste del burattino e lo anima. […] E ancora, la stessa domanda posso applicarla alla lingua, al suo uso corrente, o al suo abuso, vale a dire uso fatto di troppi automatismi o troppe strumentalizzazioni.[…] reinventare l'italiano sì, ma non nel senso della lingua, bensì in senso antropologico. Reinventare, nel confronto con lo straniero, l'italiano persona, prima o assieme all'italiano lingua. […] Reinventare l'italiano utilizzando il flusso migratorio come lo strumento che costringe ad un ascolto più attento, più profondo, tanto dell'altro quanto di se stesso.
Schopenhauer diceva che il limite dell'arte consiste nel fatto di non poter riprodurre un urlo. Trent'anni dopo la sua morte veniva smentito da Edward Munch, letteralmente, nel suo dipinto persino intitolato L'urlo . […] Forse più di chiunque altro un esule che scrive può a sua volta smentire quella massima di Schopenhauer. Non tanto per le sue testimonianze dirette […], il migrante può anche scrivere racconti o romanzi di pura fantasia ma comunque capaci di incidere profondamente sulla nostra percezione della realtà, non per l'appunto in quanto testimonianze di fatti e contingenze ma perché nella scrittura può fluire l'intensità di ciò che l'autore ha vissuto. L'intensità di chi ha attraversato confini e ponti, reali e metaforici, di chi ha sperimentato la Perdita e il Mutamento con la p e la m maiuscole, guadagnando a caro prezzo la consapevolezza di quanto possa essere prezioso ciò che si lascia, e poi ciò che si ricostruisce ricominciando daccapo. L'intensità: è ciò che a mio parere manca alle parole di oggi, alla lingua italiana di oggi. In generale, sullo scenario sociale, nei contesti civili spesso assai incivili, e nel mondo della cultura che insegue i venti e gli eventi. Io le vedo fluttuare ovunque, le parole, come tanti palloncini colorati e gonfi di nulla. Magari belli, o bellissimi, ma involucri vuoti. Che si sgonfiano non appena toccati da un qualche spillo – tipo la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, o tra ciò che si dice e ciò che si pensa o si è, o più semplicemente dallo spillo/vita stessa, oppure dallo spillo/parola, se spogliata di tutti gli opportunismi, le ipocrisie e le mistificazioni. Che è poi quello che, per tornare alla francofonia, scriveva in altro modo Assia Djebar, migrante algerina oggi accademica di Francia, quando diceva che scrivere dopo la tragedia dell'espatrio è come scrivere da sopravvissuti ad un movimento sismico che ha creato una frattura: la scrittura dell'espatrio coincide con la presa di coscienza di essere costantemente, testardamente, a cavallo di una frontiera. Scrivere esprime allora un dovere di memoria, un'esigenza di solidarietà, è fissare, sognare e mantenere un cielo della memoria. In questo stesso senso, mi sembra che occorrerebbe ridiscutere l'idea dell'artista “cittadino della poesia” o del mondo. È sicuramente vero nel senso dell'appartenenza ad un universo espressivo altro rispetto a quello della banalizzazione o standardizzazione della lingua quotidiana. Ma mentre lo dico penso appunto alle realtà delle letterature postcoloniali in lingua francese e al rapporto fra lingua del colonizzato strappata, cancellata dalla lingua del colonizzatore: in questo senso allora l'artista è cittadino della propria lingua prima di ogni altra cosa, anche nella scelta dell'abbandono della stessa. Per quanto riguarda la situazione italiana, la risposta verrà sulla lunga durata, come del resto anche la collocazione di questi autori all'interno della storia della letteratura italiana e non. Mi pare che sia importante riflettere sul perché della scelta dell'italiano, sulla specificità della scelta di questa lingua priva di passato, fra virgolette, per chi la scrive. Sul senso di questa scelta nel veicolare contenuti che appartengono ad immaginari lontanissimi spesso da quelli italiani. Se all'inizio la poca competenza linguistica rendeva necessario agli autori migranti che scrivono in italiano l'aiuto di un coautore, oggi siamo già molto lontani da quel momento, così come dallo “stereotipo del povero immigrato che vuole imitare Dante” – sono sempre parole di Youssef Wakkas – sia perché ci sono autori di “seconda generazione” sia perché anche autori che hanno scritto con l'aiuto di un coautore hanno oggi – penso all'ultimo libro di Pap Khouma – competenze sufficienti per intraprendere una loro strada personale, che vedremo poi dove li condurrà. Questa idea della lunga durata può sembrare scontata ma non lo è, occorre ricordarsi che parliamo di un movimento davvero agli albori. Anche per questo del resto queste forme di confronto fra autori e critici mi sembrano così importanti. Il tempo ci rivelerà se fra i nostri autori migranti c'è un nuovo Rushdie o un nuovo Foscolo o un nuovo Savigno, che non è quasi mai ricordato , ma che nasce in Grecia scrive un libro bellissimo sulla sua infanzia a Atene e poi arriva in Italia, si trasferisce in Francia etc… Per ora, mi pare che per molti degli autori che ho letto, il lavoro sulla lingua sia un tutt'uno con il discorso sulla lingua, che a sua volta diventa un discorso sulla propria identità, che è, come ricordava proprio qui un anno fa Kossi-Komla Ebri “un'identità multipla”. Che è poi quel che intendeva anche Amin Maalouf nel suo saggio tanto citato sull'identità, quando afferma che l'identità di una persona è un disegno su una pelle tesa e che La lingua ha la meravigliosa particolarità di essere ad un tempo fattore d'identità e strumento di comunicazione […] la lingua per vocazione rimane il perno dell'identità culturale e la diversità linguistica il perno di ogni diversità. In un saggio molto ricco di alcuni anni fa, Luciana Menna mostrava come molti dei racconti degli autori migranti in Italia fossero incentrati proprio sulla lingua, fossero anche metalinguistici, raccontassero cioè la difficoltà di dire in una lingua nuova, a partire dal dire il proprio nome, dal definire la propria identità nel nome stesso (S. Methnani, Chiamatemi Alì ). Oggi questo discorso può essere attualizzato e diventare una delle piste di lettura di molti di questi autori. Per essere più chiara, vorrei fare qualche breve esempio, citando autori molto diversi fra loro. Potrei parlare, se altri non l'avessero già fatto di madrelingua dello stesso Julio, ma credo che sarebbe più interessante che lui stesso lo facesse, ecco perché non l'ho citato tra gli autori… Gli esempi sono innumerevoli, ne ho scelti due molto diversi fra loro. Un esempio interessante è quello di Ron Kubati, albanese, rifugiato in Italia da molti anni, autore di Va e non torna , che nel suo libro, intitolato M , costruisce un metaracconto, la storia di uno scrittore in cerca di editore, in un paese straniero, accolto da uno strano gruppo di intellettuali e creature ai margini della città, che fanno capo al Prof. Andrea. C'è in questo libro il racconto della propria condizione di straniero alla conquista di uno spazio umano e di una visibilità letteraria, in cui possiamo facilmente riconoscere molte delle storie che gli autori migranti raccontano con declinazioni diverse. Nell'incipit del romanzo il protagonista dice che al risveglio guarda per prima cosa la finestra della stanza in cui si trova per poter capire dove si trova, in quale circostanza della sua vita, ma anche in quale luogo. Racconta il suo essere “di passaggio”, lo fa alternando registri diversi dell'italiano, dal linguaggio giovanile alla lingua familiare, costellando il racconto di una serie di neologismi come “jeansato”, “passamontagnare”, “concellino”. Che significato può avere questo tratto dell'invenzione linguistica, che mi pare mancasse o fosse meno evidente in Va e non torna? Potrebbe tradurre una nuova via alla ricerca di sè, della propria identità di autore – come questo metaromanzo sembra suggerire – quindi anche delle proprie nuove parole, che sono proprie perché appartengono ad una lingua conquistata e manipolata, diventata strumento con cui dire non la propria appartenenza a un universo, ma con cui dire e basta. Non è tanto importante capire se i neologismi di Kubati rinnovino un narrare appiattito su una lingua standard (ma è poi così vero? Ci sono diversi autori italiani che scrivono in un italiano che a me non sembra così piatto – penso all'ultimo romanzo di Ammaniti, penso al Culicchia di Il paese delle meraviglie o a Elena Ferrante – non sono molti, è vero, ma se penso alla Francia o ad altri paesi, il panorama non è più ricco) quanto capire che cosa significhino in quel testo e nel contesto da cui quel libro prende vita. Ritornando un attimo alla situazione francese apro una parentesi. C'è stato un pamphlet alcuni anni fa intitolato “ La littérature sans estomac ” scritto da uno studioso, Pierre Jourde, che è divertentissimo e che potrebbe avere una traduzione/attualizzazione in italiano su come di fatto esista un appiattimento del linguaggio legato a certe politiche editoriali. Il libro è uno smontaggio di testi letterari che finiscono per mostrare come di fatto alcuni autori, facciamo alcuni nomi: Marie Darrieussecq , Michel Houellebecq , Philippe Delerm, siano una sorta di costruzione a tavolino di case editrici legate a premi letterari. Il discorso si potrebbe riproporre in Italia. Tornando al discorso, un altro esempio è quello di Jadelin Mabiala Gangbo, che ha un ruolo davvero anomalo nell'ambito della scrittura della migrazione: è nato nel Congo Brazzaville, i suoi genitori parlavano lingala, ma la sua prima lingua è stata il francese. Arrivato in Italia a 6 anni, l'italiano ha preso ben presto il posto del francese. Tempo fa, mi è stata posta da un altro scrittore migrante, Fulvio Caccia – che ha lasciato Firenze e vissuto in Quebec e poi in Francia e scrive in francese – una domanda a proposito di Gangbo. La domanda, molto diretta e sentita, era: “Gangbo è un autore italiano o no?” Non ho saputo rispondere su due piedi, ma la risposta sta nel lavoro che Gangbo fa sulla lingua italiana. Nel momento in cui ha cominciato a scrivere, in Verso la notte Bakonga e poi in Rometta e Giulieo , è proprio il lavoro sulla lingua a parlare della sua ricerca di un'identità in parte nascosta nei ricordi lontani e rimossi dell'infanzia. Gangbo deforma l'italiano, lo contorce, lo manipola e questo è un modo per andare alla ricerca di sé, di quel non essere italiano. Non è il Congo, nella sua specificità, è l'Africa al singolare, la terra di un'appartenenza “africana”, reale e memoriale al tempo stesso. Difficilmente un autore ivoriano o senegalese o keniota potrebbe definirsi “africano”. La riappropriazione memoriale avviene anche attraverso l'invenzione, la costruzione di una lingua italiana in cui convergono suggestioni letterarie, forme del parlato, forme auliche, arcaiche, poetiche, gergo giovanile, regionalismi – e proposito di regionalismi e dialettismi, si potrebbe aprire una parentesi sull'uso di termini dialettali o forme regionali nell'italiano di alcuni autori migranti, come Tahar Lamri, ad esempio – . Nel caso di Gangbo non c'è stato bisogno di un apprendimento ex novo, di un'appropriazione progressiva dello strumento linguistico, come non c'era nemmeno – da un punto di vista immaginativo – una forma di monolinguismo, come non c'è per nessun autore contemporaneo, come sostiene Glissant. Il percorso di Gangbo è allora simile seppur speculare a quello di molti autori migranti che approdano in Italia. Il titolo del suo primo libro indica proprio questo: Verso la notte bakonga , perché i Bakongo sono la sua tribù originaria, la scrittura va verso questa origine, passando per zone incerte, grigie, in cui l'identità è dapprima solo genericamente africana. Rometta e Giulieo si apre con l'immagine del bastardo, la parola è in corsivo nel testo, dell'artista che è come un ibrido, un animale con più nature diverse. La lingua è il luogo della scoperta o del ritrovamento di sè. Il lavoro suo e di tanti autori “della migrazione” è – con questo concludo – quel che Rushdie ha descritto nel suo saggio Patrie immaginarie laddove dice:
“Il passato è una terra straniera” recitano le famose parole d' apertura del romanzo di L. P. Hartley, L'età incerta . […] Si potrebbe argomentare che il passato è una terra dalla quale tutti siamo emigrati, la cui perdita fa parte del nostro patrimonio comune di esseri umani. E questo mi sembra evidente; ma vorrei aggiungere che colui che scrive fuori dal proprio paese (e neanche nella propria lingua) forse esperisce tale perdita in modo più intenso. Ciò che rende tale esperienza più concreta è il fatto fisico della discontinuità, della sua presenza in un luogo diverso rispetto al suo passato, del suo essere “altrove”. Ciò gli potrebbe dar modo di parlare in modo appropriato e concreto di un argomento di significato e di richiamo universali.” . Grazie.
Julio Monteiro Martins : Innanzittutto volevo ringraziare Anna Frabetti, è stato molto illuminante il suo intervento, da molti punti di vista. Volevo fare due brevi riflessioni e conoscere il suo parere a proposito. La prima è legata a un commento che leggo spesso e che è stato anche menzionato da Anna e cioè se e quando apparirà un Salman Rushdie italiano…Quello su cui vorrei riflettere, e qui entro nella questione della cosiddetta specificità italiana, è il fatto che un Rushdie ha alle spalle una storia anche coloniale, post coloniale, molto diversa da quella italiana e scrive in una lingua che ha un'industria linguistica/culturale/letteraria molto potente che indirizza i suoi autori e li costruisce in un certo senso, li trasforma, in un modo che è impensabile in Italia. Nel mio ultimo viaggio a Frankfurt ho potuto notare una grande differenza tra la letteratura migrante in Italia e nel resto dell'Europa, quella che posso chiamare la specificità italiana. Infatti in nessuno di questi paesi, Francia, Inghilterra, Germania c'è un tale ventaglio di nazionalità. Per esempio, in Germania ci sono prevalentemente gli scrittori turchi o balcanici, o curdi, così come in Francia c'è la presenza forte dei magrebini e in Inghilterra quella dei pakistanesi o degli indiani dell'India. In Italia invece abbiamo una sorta di Nazioni Unite della letteratura, abbiamo tutti i continenti rappresentati e questo è un fenomeno che non esiste altrove. Possiamo parlare, prendete con le pinze l'espressione, di letteratura mondiale, e è qui in Italia, sebbene si tratti di un paese conservatore e per certi versi succube della tradizione manzoniana, che si sta concretizzando una sorta di globalizzazione culturale, che è appunto la letteratura mondiale. A questo proposito vi racconto una cosa divertente, c'è questa espressione “da dove meno uno se l'aspetta…”, da dove meno uno se l'aspetta viene una letteratura di questo genere. Allora, in Brasile c'era un umorista negli anni '30, '40, il Barão de Itararé che diceva in modo molto solenne: “ da dove meno uno se l'aspetta, da lì non viene proprio niente!”. L'altro commento che vorrei fare è sulla questione della cosiddetta letteratura fatta a tavolino, di cui anche la Frabetti accenna nella sua relazione. Purtroppo anche nell'area della letteratura della migrazione comincia, soprattutto l'ambiente editoriale delle case editrici più grandi, a cercare di modellare, imporre cose di questo genere. Invece credo che sia un rischio molto severo e perché? Perché la forza di questa letteratura è proprio il suo spessore, che viene anche dall'esperienza traumatica che molti di questi autori hanno vissuto.
Marina Sorina : A questo proposito volevo raccontarvi la mia esperienza personale. Nel mio caso è successo che la casa editrice cercava qualcuno che scrivesse un libro su un certo tema, sulle donne dell'Est in Italia. Mi hanno contattata e per mostrare come scrivevo gli ho mandato un mio racconto e loro mi hanno risposto che era piaciuto tantissimo, che in redazione tutti erano entusiasti, ma mi hanno pregato anche di scrivere in un modo più semplice, più elementare, il mio italiano era troppo ricercato e vi dico che ho scritto alla metà delle mie possibilità. Mi hanno spiegato che volevano vendere il libro anche nei supermercati e doveva quindi essere comprensibile e chiaro per tutti, anche per la casalinga. Tra le altre cose mi hanno detto che si vedeva che il mio italiano era stato imparato all'Università, io non ho detto niente, ma in verità il primo approccio con la lingua l'ho avuto lavorando in un ufficio, l'Università è venuta dopo. Dunque ho scritto il libro, cercando il più possibile di abbassare il livello di complessità del mio italiano. Poi c'è stata l' editor della casa editrice che correggendo il testo, me lo ha mutilato di un sacco di parti e mi sono venuti contestati un sacco di termini, minimizzando, dicendo che ero io che non conoscevo tutte le sfumature dell'italiano. Quindi anche la prepotenza di riservarsi il ruolo di decisori ultimi. Alla fine mi è venuta pure la tentazione di disconoscerlo.
Alberto Chicayban : L'intervento di Anna Frabetti è stato un intervento ricchissimo, complimenti. Mi sono venute delle idee che vorrei condividere con voi. Lascio perdere gli aspetti associati all'identità di questi autori provenienti da paesi stranieri che utilizzano l'italiano come mezzo espressivo. Mi metto nella condizione del linguista, dello specialista in linguistica generale, cioè faccio il chirurgo impietoso e cerco di esaminare l'italiano come identità linguistica. In primo luogo, arriviamo alla conclusione palese che non c'è un italiano, c'è una galassia linguistica espressiva italica. In questa galassia abbiamo scrittori come Camilleri e come Claudio Magris che sembrano venuti da paesi diversi. Abbiamo poeti, come per esempio il grandissimo poeta triestino Cerboli, che le antologie italiane continuano a citare, ma che gli intellettuali non conoscono, che ha scritto in un linguaggio basato in prevalenza sul triestino patocco poesie di grandissimo respiro, che convivono per esempio con poeti come Montale che sembrano stranieri (paragonati a Cerboli). Se c'è un italiano, lo possiamo localizzare nella norma colta per utilizzare un espressione di Atkinson. Quale norma colta? Quella della Repubblica , del Corriere della Sera o della TV? Quella di Libero ? Della Padania ? Oppure di Internazionale ?Torniamo all'idea di questa galassia italiana che riunisce una quantità ragguardevole di identità nazionali, quella friulana, siciliana, sarda….In più, ormai da due decenni si è aggiunto come contributo a questa già enorme varietà di espressioni linguistiche, anche l'apporto originale di questi scrittori cosiddetti migranti. Non si tratta in verità di un arricchimento, perché la lingua italiana non ne ha bisogno, semmai ha bisogno di trasmissione onesta a livello scolastico e a livello sociale. Ai ragazzi viene insegnato un italiano artificiale, quello della stampa e dei giornali e le espressioni più popolari, ma anche le più reali, vengono addirittura bandite. Noi ci inseriamo in una galassia molto complessa che però insiste nel voler riconoscere un italiano, che è una finzione, originato da un fiorentino imposto come lingua nazionale di una nazionalità fragilissima. Noi non siamo né migliori, né peggiori, siamo solo altre stelle nella galassia.
Volevo dire una cosa sull'interrogativo che poneva Julio: italiano/letteratura mondiale. L'italiano è arato da secoli dalle letterature dialettali, io penso che sia questa la sua grande ricchezza. Ne ha citati alcuni Alberto prima, ma c'è Carolo Porta, anche lo stesso Goldoni scriveva in dialetto veneto. Io per esempio penso in dialetto romanesco e faccio la traduzione simultanea in italiano. È quella straordinaria ricchezza linguistica che secondo me favorisce, accetta con grande tranquillità gli apporti che vengono dai cinesi, dai tailandesi etc e fanno dell'italiano questa grande speranza, occasione di una letteratura mondiale.
Giusto, è il riconoscimento di una molteplicità linguistica che esisteva prima e che è stata poi castrata da una struttura politica imposta.
A me aveva fatto abbastanza ridere la dichiarazione di uno scrittore contemporaneo, che aveva detto che l'atteggiamento da avere nei confronti degli autori della migrazione è un atteggiamento di indulgenza, diamogli una sorta di ben venuto, no? Perdoniamogli gli errori! Ma, non so come dire, non si tratta di un invito a cena! A me è sembrata una affermazione talmente squalificante nei confronti degli autori come lui, e non è il caso citarlo, non facciamogli pubblicità gratuita. Se posso dire una cosa anche banale rispetto delle case editrici, ci sono sicuramente due fronti su cui ragionare. Da un lato c'è appunto la lingua e ci sono degli autori in Italia che la usano, la vivificano, c'è una tradizione dialettale etc.. e questa è una cosa. L'idea del convegno che ho organizzato era: l'italiano lingua della migrazione, in diversi sensi, il movimento non è unilaterale, l'idea è proprio: cerchiamo di trovare un anello di congiunzione tra ciò che abbiamo fatto andando noi e tra ciò che fanno coloro che vengono, il nostro elemento comune è l'italiano. Questa è una cosa e sono d'accordo con quello che molto intelligentemente dice Alberto. Poi parliamo delle politiche editoriali e allora occorre ragionare in un altro modo, nel senso che c'è uno stato delle cose che va accettato per quello che è, ci sono delle case editrici che hanno delle grandissime tirature, hanno un budget per la pubblicità e devono avere degli utili, ci sono dei premi letterari etc…All'autore la scelta in qualche modo. Mi pare, ma io lo dico da lettrice ovviamente, che ci siano delle scelte necessarie, vale a dire c'è chi rientra in una politica editoriale che ha una certa spendibilità sul mercato, l'autore riconoscibile, quello al quale si può mettere l'etichetta dell'esotico…Poi c'è la possibilità di fare altro, come, non lo so, ma sicuramente con molta difficoltà. Ne parlavamo stamattina, per alcuni degli autori che citavo c'è una sorta di operazione simile anche in Francia, vale a dire ci sono alcuni autori che si presentano in un certo modo, che si adattano a un certo tipo di attesa del pubblico e dei mercati, che vengono presi in questa macchina editoriale che va dalla pubblicità nei manifesti delle metropolitane, al premio letterario x e y, e che rientrano consapevoli o no in questo tipo di modello. Spesso però nel giro di poco tempo sono lasciati a margine, perché si tratta di dargli il cambio con qualcuno più nuovo, più attuale che può fornire un nuovo tipo di modello. Ci sono poi altri autori. Ecco, secondo me il discorso della durata significa proprio questo, è chiaro che c'è l'esigenza di essere pubblicati per essere letti e per arrivare a un pubblico più vasto, c'è d'altro lato però una sorta di constatazione dolorosa. Ci sono dei meccanismi editoriali che funzionano in un certo modo, si può scegliere di rientrarci oppure no, io voglio essere ottimista e pensare che nel tempo le cose si modificheranno, ma ci vuole molto tempo. Le case editrici più piccole per esempio fanno un lavoro straordinario, il problema qual è? La distribuzione e gli anni del berlusconismo hanno peggiorato la situazione e questo lo costatiamo andando in una qualsiasi libreria. Io non sono sicura che un autore come Gezim Hajdari, che nonostante il premio Montale ha una visibilità ridotta per la sua grandezza, sarà meno studiato, ricordato, letto del poeta x che ha vinto il premio y e che va a parlare in tutti gli show televisivi possibili, è davvero questione di una scelta a priori, del fatto di potersi situare su un periodo breve o su una durata più lunga. Questo senza nulla togliere alle difficoltà della sopravvivenza della motivazione del lavoro di chi scrive, ma forse qualche piccola strada alternativa c'è. L'autore che ho citato all'inizio Valère Novarina è un autore si conosciuto, ma che ha una visibilità minima rispetto ai tanti come Michel Houellebecq . Sì, ma cosa rimane di questi? Chi lo legge Houellebecq ? È stato un fenomeno, e non dei peggiori devo dire, ha fatto un boom straordinario nel 2000, oggi se ne parla, lo si legge ancora? Io non sono così tanto sicura.
Julio Monteiro Martins : Sicuramente c'è questa prospettiva della lunga durata, il problema è che la nostra vita biologica è di breve scadenza! Quindi, forse dobbiamo rassegnarci solo a immaginare cosa sarà la ricezione della nostra opera perché non la potremo vedere di persona.
Anna Frabetti : È stato così per tanti grandissimi. C'era quel saggio che andava tanto di moda qualche anno fa di Hans R. Jauss “ Perché la storia della letteratura? “. È lui che parla di orizzonte d'attesa. E che cos'è? È tutto ciò che il pubblico si aspetta da un autore. Allora, dice lui, ci sono autori e citava Flaubert come esempio di qualcuno che non si era adeguato all'orizzonte d'attesa. Ci sono autori che nel momento in cui pubblicano corrispondono perfettamente all'orizzonte d'attesa, contemporanei di Flaubert, che nel momento in cui scrivono sono considerati come le personalità letterarie più eminenti del momento e invece è Flaubert che viene riscoperto un secolo dopo.
Julio Monteiro Martins : Però il dramma di questo fatto non è solo a livello personale dell'autore, che deve avere questa immensa capacità di rinuncia, ma è un dramma di tutta la collettività perché quando la critica, la stampa, promuovono un prodotto contraffatto, una letteratura consolatoria, che cosa succede? Occupa tutto lo spazio e impedisce che un'altra letteratura, che è prodotta nello stesso periodo, che sarebbe di grande importanza nell'autocritica di quella società non sia visibile e conosciuta. La letteratura della migrazione, forse a causa dello sguardo vergine, propone una visione estremamente originale e ricca per i lettori italiani. Per esempio, io nel mio libro “ madrelingua ” propongo una visione del berlusconismo che non ho mai letto fatta da un autore italiano.
Anna Frabetti : È molto giusto quello che dice Julio, ma mi pare che spesso la storia letteraria ci ha mostrato che effettivamente si tratta di processi estremamente lunghi e a proposito dell' approdo in Italia di questa nuova letteratura si tratta di un fatto inusuale perché il mondo italiano era legato ad una monocultura. È una questione di maturazione, di trasformazione delle attese e di ricezione da parte dei lettori.
T. F. Brhan : Ammettiamo che uno scienziato africano scriva un testo scientifico, non credo che a lui venga chiesto se quello che sta scrivendo appartenga alla sua cultura o appartenga alla cultura del paese ospitante. Semplicemente si andrà a verificare se le sue ricerche tendono al vero o al falso. La definizione di scrittore della migrazione mi sta stretta, capisco che sia una necessità di classificazione, una sorta di classificazione della specie che serve per creare dei confini, perché guai, se qualcuno dovesse scappare, magari arriverebbe alla letteratura! Mi sta stretto anche il fatto che proprio per essere all'interno di questa classificazione, si crea, da parte dei lettori come delle case editrici, quella che prima la Frabetti chiamava un orizzonte d'attesa. È pur vero però che se non vuoi far parte di questa letteratura con tutte le sue etichette (anche quelle di provenienza, ad un dibattito a Lucca su un mio libro mi hanno presentato come lucchese di origine eritrea!) ti vengono preclusi un bel po' di spazi e di occasioni.
Julio Monteiro Martins : Un' osservazione sulla complessità del tema delle etichette. Quando si dice uno scrittore egiziano o angolano, c'è un problema propriamente didattico, cioè bisogna distinguere quelli che vivono nell'Egitto o nell'Angola e scrivono nella propria lingua madre, da quelli venuti in Italia e che scrivono in italiano. Quindi, quando si pensa alle etichette bisogna anche considerare che c'è una funzione didattica…io, per esempio, non sono più uno scrittore brasiliano, non scrivo più in portoghese, non vivo più in Brasile! Allora bisogna dare un altro nome. Se c'è qualcosa che lontanamente assomiglia ad una patria per me, posso dire che quella sia la letteratura! Né il Brasile, né il portoghese come diceva Fernando Pessoa, ma è la letteratura il “paese” dove ho sempre vissuto, anche quando cambio paese!
Anna Frabetti : Le etichette esistono da sempre. Effettivamente su un panorama un po' disorientato come quello italiano l'etichetta può starci all'inizio, il rischio è che poi diventi una sorta di marchio come dice Brhan, se lo scrittore del Benin non fa lo scrittore del Benin non corrisponde più all'orizzonte d'attesa e non va più bene.
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