3° giorno - mercoledì 20 luglio h. 10,30 Julio Monteiro Martins: Oggi, ultimo giorno del nostro seminario, è diviso in de parti: nella prima abbiamo l'intervento di Raffaele Taddeo, una sorta di patriarca della letteratura migrante con la sua associazione a Milano, La Tenda, ha lottato per questa nuova letteratura e noi gli siamo molto grati. Ma è soprattutto un professore, uno studioso di questo fenomeno e vi trasmetterà queste sue conoscenze. Inoltre abbiamo Pap Kouma, scrittore di origine africana che vive in Italia ed è anche lui un pioniere, perché è stato l'autore del primo romanzo importante di questa letteratura, dal titolo "Io venditore di elefanti", pubblicato quattordici anni fa. È un onore e un regalo avervi qui con noi. Nella seconda parte avremo il Ceis di Lucca, un'organizzazione che lavora soprattutto con le situazioni marginalizzate, ci proporrà un video con le testimonianze di personaggi legati all'immigrazione, di grande valore umano e di grande spessore legate alla nuova realtà multiculturale nel panorama italiano. Bene, ora passo la parola a Raffaele Taddeo. Raffaele Taddeo: Vorrei cominciare con due parole per accreditarmi. Ho cominciato a lavorare sulla letteratura della migrazione nel '94-'95, avendo costituito l'associazione La Tenda, come diceva Julio, che si interessa essenzialmente di alfabetizzazione. Io insegno italiano e storia quindi mi sono dedicato in maniera abbastanza profonda a conoscere questa letteratura. Dette queste poche cose, farò un panoramica di cosa è avvenuto dall'inizio fino ad ora, tentando di cogliere i momenti di passaggio significativi. Partiamo da una premessa, se ci fosse stato Chiellino si sarebbe subito creato un conflitto ma non c'è, quindi… parte la premessa: definizione di letteratura della migrazione. Intanto devo dire che come Tenda abbiamo chiamato questo fatto come narrativa nascente, e continuiamo a chiamarla così… di cosa si tratta per letteratura della migrazione in Italia? Il prof. Gnisci nel testo "Creolizzare l'Europa" dice che "si tratta della letteratura scritta in italiano da parte dei recenti immigrati nel nostro paese". È una definizione semplice perché lascia fuori molti problemi. Un primo problema che pone il prof. Van Volsen è quello in cui pone in forse che possano essere accomunati sullo stesso piano e considerati parte dello stesso fenomeno immigrati giunti in Italia per necessità rispetto ad altri arrivati per altri motivi. Un docente universitario straniero o un ambasciatore, il diplomato egiziano che cosa hanno in comune con il laureato senegalese che arrivato in Italia fa il "magutt" o il "vu cumprà"? Probabilmente nulla. È corretto, nel momento che sia il primo che il secondo producono testi in italiano, inserirli in una stessa categoria? Un altro problema che è stato messo in luce è che nel concorso Eks&Tra del 2003 si introduceva fra le norme di accettazione di testi che essi fossero di stranieri provenienti dal Sud del mondo. In questo modo si escluderebbe dalla letteratura della migrazione scrittrici come Jarmila Ockayova e Helene Paraskeva. Il problema potrebbe ampliarsi se andiamo a toccare i temi, ma senza spingersi oltre possiamo accettare la definizione di Gnisci. Il momento di passaggio significativo e di avvio d questa letteratura in Italia si ha con la morte di Masslo a Villa Literno in Campania nel 1989. Da quel fatto storico specifico nascono tutta una serie di iniziative che cominciano a dedicarsi al problema del fenomeno degli stranieri in Italia e ci sarà anche la prima manifestazione degli stranieri in Italia che tentano di affermare i propri diritti e ci sarà anche la legge Martelli del '90 che regolarizza centinaia di migliaia di stranieri. Gli economisti dicono però che l'arrivo degli stranieri in Italia che è iniziato a metà degli anni 70 proprio quando è finita l'emigrazione italiana, che gli immigrati in Italia hanno una funzione di ordine sociale abbastanza precisa, e cioè: a metà degli anni 70 il capitalismo decide di arrivare al decentramento produttivo, cioè non riesce a rendere la forza che hanno raggiunto i sindacati grazie allo statuto dei lavoratori - degli anni 70 - e in Italia si hanno poche grandi aziende e molte micro-aziende. Allora le grandi aziende cominciano a dividersi: a Torino agli inizi degli anni 60 e 70 c'erano 350.000 operai, mentre a metà degli anni 80 sono sì e no 100.000 mentre il resto è distribuito parte in Italia e parte nel resto del mondo. Le piccole aziende, di 20, 30 operai, cominciano ad utilizzare gli stranieri al nero, non pagando i contributi come strumento di lavoro. In questo modo riescono a rispondere al progetto di resistere alla concorrenza e continuare l'esportazione dei prodotti. È in questo momento che si ha la crescita degli stranieri e si ha il processo di inizio della letteratura della migrazione, e i libri fondamentali, come già diceva Julio sono essenzialmente "Io venditore di elefanti" e "Immigrato". Gnisci non cita Kouma e associa a "Immigrato" un libro di Ben Jallun, ma quest'ultimo non scrive in italiano. Nel '91 arrivano altri libri, di Moussa Ba, di Bouchane - "Chiamatemi Ali" - , è il momento in cui però i testi sono scritti a quattro mani, cioè c' è lo straniero che detta le sue storie a un giornalista italiano che struttura e organizza il testo da pubblicare. L'operazione viene fatta per diversi obiettivi, il primo dei quali è per il fatto che la questione stranieri ormai comincia ad essere importante in Italia e i giornalisti fiutano l'aria, sentono odore di possibilità di mercificazione del fenomeno e quindi stampano i libri perché l'editori può ricavarci qualcosa. Ma i giornalisti possono anche dare un'informazione più capillare che i giornali non riescono a dare, anzi i giornali rischiano di dare disinformazioni perchè creano stereotipi. Allora i giornalisti come contromisura cominciano a pubblicare questi testi degli stranieri per dare più informazione, e gli stranieri hanno tutto l'interesse di farsi conoscere, di affermare che sono persone, visto che c'è anche il problema dei permessi di soggiorno, in tutti questi primi testi è pressante l'ansia, l'angoscia quando il permesso di soggiorno non esiste - e dopo quindici anni il problema c'è ancora e lo abbiamo visto ieri con il testo di Jadelin, si pensava che fosse scomparso ma invece è ancora presente nella letteratura! C'è qualcosa di letterario in questi primi testi? Tutta la critica ufficiale se ne è disinteressata, i giornalisti hanno detto semplicemente che sono documenti di vita, liquidando ogni possibile valore di letterarietà di questi testi. Mi soffermo un po' su questo. Già Gnisci, nel libro citato, comincia a dire che questa potrebbe essere una letteratura nascente. Io ritengo che la letterarietà di un testo si può vedere attraverso l'obiettivo che gli autori si pongono, e da come nasce. Io prenderei a esempio il testo di Bochane. Il libro è la traduzione dall'arabo di un diario, di quello che Mohamed ha la necessità di scrivere. I diari in sé sono fatti letterari in nuce. "Chiamatemi Alì" non si poneva all'origine l'obiettivo di far conoscere alcunché della vita dello straniero. Esso è solo lo strumento attraverso cui Mohamed ricerca la propria tranquillità di vita in una terra inospitale, attraverso cui riflette sulla sue esperienze, esso diventa una modalità attraverso cui cerca di mantenere la sua purezza e il suo attaccamento alla religione. Alla fine emerge un libro fortemente etico. Il libro di Mohamed appare così un testo di pura letterarietà, quanto poi riuscito, è un argomento su cui le considerazioni possono essere diverse. I giornalisti hanno ignorato un'analisi di questo tipo. Va associato a questo tipo altri libri, come "Il vento nei capelli" di Salva Salem, o "Princesa" che in qualche modo è importante perché De André ne ha ripreso una parte, l'intelaiatura e ne ha fatto una canzone. Questo libro ha una premesa linguistica significativa. Fernanda è una transessuale brasiliana che, finita in carcere per tentato omicidio, conosce nella reclusione un pastore sardo ergastolano analfabeta a cui racconta la sua storia, che viene riportata da questi agli incarcerati politici dove Maurizio Jannelli, appartenente alle BR, ne cura una possibile pubblicazione. È una trasposizione linguistica e proprio per questo vicino ai testi scritti a quattro mani. Anche questo testo va visto come il tentativo di liberarsi dalle distorsioni a cui si è sottoposti nel carcere, sia raccontando che scrivendo, e questo sia per Fernanda che per Jannelli, che nello scrivere della solitudine ed emarginazione di Fernanda trasporterà parte della propria esperienza di clandestino. La scrittura diventa una forte componente di liberazione interiore. È significativo l'elemento della scrittura come salvezza. Princesa da una parte ha un bisogno impellente di raccontare cosa le è successo. Jannelli dall'altra parte non riesce a liberarsi della sua esperienza. Nella banca dati Basili Princesa non esiste , così come non esiste il testo "La tana della jena" di Itab Hassan, un terrorista palestinese che fece un attentato a Roma nel 1985. Anche Itab non si pone in prima istanza un problema di letterarietà. Egli ha bisogno da una parte di giustificare il suo gesto terroristico nato dalla strage di Chatila, ma anche dall'altra, di superare le distorsioni mentali proprie di ogni prigionia. Abbiamo poi una seconda fase della letteratura della migrazione. Ormai gli stranieri non vogliono più presentarsi agli italiani ma vogliono dire il perché sono partiti e raccontare le cose della loro patria, e vengono fuori testi come "Lontano da Bagdad", "Volevo diventare bianca", "Lontano da Mogadiscio". Due testi pubblicati in questi anni si discostano da questa nascente tendenza: "La memoria di A" di Saidou Moussa Ba e Alessandro Micheletti e il libro di Melliti "I bambini delle rose". "La memoria di A" tratta essenzialmente sul problema del razzismo in Italia e Germania. Dopo la metà degli anni '90, incomincia quello che il prof. Gnisci ha definito "fase carsica". È la fase in cui sembra non esserci più alcun interesse anche da parte delle piccole case editrici della produzione di testi in italiano di stranieri che vivono in Italia. Però due elementi emergono con una certa importanza: 1) Si sviluppa una attenzione sempre più marcata da parte di Università straniere, di docenti di italianistica al fenomeno italiano. Sono Università USA, ma anche inglesi. È un parallelismo dell'attenzione che nelle Università straniere si pone per la cosiddetta letteratura dei migrant writers, letteratura cioè di coloro che sono stati costretti a migrare. Non voglio aprire qui la parentesi, ma vi è una grande differenza fra il fenomeno italiano e quello ascritto ai migrant writers. Io associo il fenomeno a quello che avvenne nell'antica Roma. Virgilio non era romano, era della provincia romana, Terenzio era uno spagnolo, cioè ad un certo momento quando nel centro dell'impero la letteratura comincia a perdere il suo mordente, la periferia dell'impero comincia a venire fuori. E ora succede in Francia e in Inghilterra. 2) Avvio del concorso Eks&Tra. È un concorso nato a Sant'Arcangelo di Romagna con la sinergia di forze come quella del comune di Rimini e della regione Emilia. È un'iniziativa della associazione fondata da Roberta Sangiorgi. Il concorso Eks&Tra a mio parere è di grande importanza. Fa scoprire, crescere e sviluppare gran parte degli scrittori della letteratura della migrazione che poi si affacceranno sulla scena negli anni seguenti. Molte critiche si possono fare al concorso, alla sua struttura - si accettano tutti testi di stranieri anche scritti in lingua purchè accompagnati dalla traduzione, e li si pubblica, quelli più significativi - certamente però ha avuto il merito di dar voce e fiato, di sostenere, dare speranza a talenti che forse sarebbero rimasti nascosti, sconosciuti o non sarebbero neppure nati. Dal concorso Eks&Tra sono passati scrittori come Lamri, Kossi, Wakkas, Gezim, Gangbo, solo per citarne alcuni. Verso la fine degli anni '90 si hanno alcune iniziative significative sul piano editoriale di rete. La prima è la nascita della rivista Sagarana che prevede all'interno la sezione "Ibridazioni" dedicata proprio a testi della letteratura della migrazione. Legati alla rivista e connessi al problema della letteratura della migrazione sono i seminari che si tengono ogni anno nel mese di Luglio. Successivamente l'Università La Sapienza di Roma, ad opera del prof. Gnisci diede luogo alla rivista Kuma. La nascita di questa rivista fu una contromossa rispetto alle difficoltà che si ebbero nel tentare di creare una casa editrice e/o un movimento letterario degli scrittori della letteratura della migrazione con un proprio manifesto. La presenza di Kuma sulla scena editoriale è significativa per gli aspetti di approfondimento scientifico che solo una rivista connessa ad una Università può avere. Nel '98 viene finalmente approvata la legge Del Turco-Napolitano, che è una legge strutturale sul fenomeno degli stranieri. È a seguito di questa legge io direi, che si muove l'editoria. Il primo testo che trascina è il testo "La straniera" di Junis Tawfik edito dalla Bompiani, casa editrice significativa, e ha successo. E proprio dagli inizi del nuovo millennio abbiamo la pubblicazione di "Fiamme in Paradiso" edito dal Saggiatore, di "Rometta e Giulieo" di "Va e non torna", e poi ancora di "Imbarazzismi" (cito quest'ultimo perchè ha avuto un successo editoriale straordinario; con tutta probabilità ne sono state vendute almeno 20.000 copie che per un libro in Italia è tantissimo) e di "Neila". La casa editrice Besa di Nardò sta dando sempre maggiore attenzione a questa letteratura pubblicando testi di Ron Kubati, di Julio Monteiro Martins, di Gezim, di Spanjolli. Nonostante questa maggiore attenzione - lo dicevamo ieri, concordo con quello che dicea Julio che chi legge la letteratura della migrazione è un addetto al lavoro - sono specialmente le piccole case editrici ad offrirsi per la edizione di opere degli stranieri che scrivono in italiano. Il pubblico ancora non conosce, né è invogliato o spinto a leggere questi testi. C'è poca pubblicità, è una pubblicità fatta da porta a porta, da associazione ad associazione. Il lettore italiano è spinto da case editrici, da librerie a leggere di scrittori migranti stranieri di altri paesi le cui opere sono tradotte piuttosto che al fenomeno italiano. Non è un caso che "I bambini delle rose" ha avuto maggiore successo in Germania che non in Italia. Le cause di questo fatto sono imputabili alla supponenza della cultura italiana a cui partecipano quasi tutte le agenzie culturali e che è espressione di un male atavico. La grandezza letteraria conquistata nel Rinascimento ha pesato e pesa, per cui difficilmente la letteratura italiana si lascia contaminare, a costo anche di errori madornali di valutazioni così come accadde per Svevo. La cultura italiana preferisce un rapporto dialettico con altre culture letterarie, piuttosto che accettare un processo di contaminazione. Non sono d'accordo con Chiellino che diceva che le due cose devono restare parallele, perché c'è il rischio che restino nella loro staticità, occorre un momento di dialettica e di sintesi di produzione che mette insieme. Le letterature nazionali non possono essere più letterature nazionali, e se confiniamo la letteratura degli stranieri in letteratura interculturale, non senza il tentativo di creare una dialettica tra i due elementi, si rischia di non arrivare ad alcune sintesi. Dal 2000 in poi vediamo che la qualità del prodotto è molto più elevata. Siamo di fronte ad opere elevate sul piano della lingua e su quello della organizzazione strutturale. Non siamo più di fronte ad opere da considerare resoconti di vita, ormai è visibile il lavorio letterario di costruzione dei personaggi, di invenzione narrativa. Si sta assistendo, però, ad una accondiscendenza a modi e forme della narrativa occidentale. Sembrerebbe cioè che si abbia paura a forzare la mano su sperimentazione linguistica e o strutturale. Continua l'assoluta disconoscenza del mondo accademico. Da una parte si stanno moltiplicando le tesi di laurea sul fenomeno ( le tesi di cui fa menzione la banca dati Basili è solo una piccola minoranza); dall'altra non esiste ancora uno studio scientifico attento e complessivo sul fenomeno, condotto e pubblicato dal mondo accademico. Vi è qualche opera giornalistica, articoli su riviste, ma uno studio complessivo manca ancora nonostante che, io penso, materiale ve ne sia a iosa. Incomincia a venir fuori nei testi prodotti in questi ultimi anni una relazione fra paese d'origine e tipologia delle opera. Negli autori di origine africana, specialmente subsahariana, il tema del ritorno, o in senso più lato storie con tematiche appartenenti a quell'area geografica, unito a quello della esaltazione della oralità, è uno delle caratteristiche principali della loro opera. Mi riferisco a testi come quelle di Kossi, di Gabriella Ghermandi, di Ubax Cristina Ali Farah. Lo stesso Gangbo nel suo libro "Verso la notte Bakonga", se da una parte si innesta nell'alveo della irrequietudine giovanile occidentale e italiana, (tematiche simili a quelle trattate da De Carlo) dall'altra inserisce un risvolto narrativo ove la cultura, le tradizioni africane riemergono prepotentemente. Fanno la loro apparizione in maniera forte autori del mondo albanese. Non ancora c'è una presenza, da quello che conosco io di autori dell'area dell'est europeo, salvo, da una parte la Ockayova, per altro scrittrice affermata e pubblicata da Baldini & Castoldi, e poi la Soloviova. Anche qui una certa affinità tematica strutturale esiste. La Soloviova si è quasi specializzata nelle tematiche del ricordo, della memoria ma anche anche Spanijolli con il suo testo di saga familiare "Cronaca di una vita in silenzio"e Ron Kubati con "Va e non torna" esprimono tematiche simili. Poi ci sono gli scrittori di origine sudamericana che hanno molta similarità. Si prenda ad esempio Caldas Brito e Julio Monteiro Martins. Quelle che loro scrivono sono ministorie, racconti fatti di poche azioni; in Julio anche di una solo azione. Pur quando le storie sono complesse per intreccio, come in Garcia, c'è una predilezione per le descrizioni che spesso diventano insistenti. Uno dei pericoli in cui incappa più frequentemente lo scrittore straniero immigrato è quello di sentire quasi il dovere di trattare temi che riguardano l'immigrazione o di scrivere per voler convincere qualcuno su qualcosa. Finalizza cioè il suo scritto ad una tesi, ad un obiettivo comunicativo. È un pericolo perchè la letteratura, quando è tale, quando è arte, è libera, riguarda essenzialmente la vita con le sue problematiche. Quando vuole dimostrare qualcosa rischia di diventare celebrale e di perdere della caratteristica della vita. Molta produzione della letteratura della migrazione è finalizzata. Anzi ritengo che uno degli aspetti, a mio parere negativi, del concorso Eks&Tra sia dovuto proprio alla tematizzazione del concorso che imbriglia e spesso mortifica la creatività degli scrittori. La tematizzazione fa comporre bei racconti, ma spesso questi autori, poi, esauritasi la vena tematica, l'urgenza della comunicazione dovuta alle condizioni particolari di vita, terminano anche la loro produzione letteraria. Purtroppo sta avvenendo che anche i cosiddetti autori della "seconda generazione", definizione ripudiata da Igiaba Scego, ma penso anche da Gangbo, stanno ritornando alla riproposizione di queste tematiche. Avere dei contenuti da comunicare. Avere delle cose da dire non è tutto e non produce letteratura. Quello che si deve dire ha bisogno di essere in-formato, (inserito in una forma) cioè di acquistare una forma. Questa si determina in due modi: la lingua e la struttura narrativa. Non pochi hanno ritenuto che fosse impossibile che gli scrittori di origine straniera potessero produrre opere significative e di elevato valore letterario proprio perchè l'acquisizione della lingua non è un fatto immediato ed è forse necessario che diventi lingua materna perchè essa sia talmente interiorizzata da poter assumere ritmi e forme significative sul piano letterario. È la tesi che anni fa sosteneva il giornalista Pivetta, ma che anche Gnisci ha sostenuto nei suoi scritti. Manzoni faceva presente la difficoltà degli scrittori italiani nel 1800 proprio perchè spesso essi non possedevano la lingua come lingua materna, ma come lingua acquisita attraverso lo studio. La condizione dello scrittore migrante è in fondo la condizione dello stesso Manzoni che aveva come lingua materna il francese, parlato dalla madre Giulia Beccaria, e il milanese parlato dal padre. Immediatamente è da notare che Manzoni ha scritto un ottimo romanzo in lingua italiana, un vero capolavoro, una vera opera artistica. Penso che si possa anche incominciare ad affermare che si può scrivere un capolavoro letterario anche senza la conoscenza della lingua come lingua materna, si può scrivere un grande romanzo pur conoscendo la lingua in cui ci si esprime come lingua appresa. La tesi di coloro che ritengono impossibile una produzione letteraria di elevata qualità senza possedere una lingua come lingua materna, è smentita proprio dalla Storia della letteratura (Manzoni, Svevo, per citare artisti italiani, ma poi Kundera, Nabokov, ecc). Ora, continuando sempre su questo elemento, ritenere che un autore straniero possa scrivere dei testi letterari elevati è possibile, però c'è qualcosa che impedisce all'autore straniero di maturarsi. Chiellino ieri diceva che è necessario che l'autore straniero veda il suo testo stampato perché solo in questo modo si oggettivizza il suo prodotto e può porsi a confronto. Pap Kouma: È quello che dico anch'io! Raffaele Taddeo: Appunto. Ora, c'è un grosso problema. Nel momento in cui l'autore straniero viene stampato, passa attraverso un processo di editing enorme, straziante. Vi propongo come esempio una pagina del testo "Fiamme in Paradiso", così come è stato scritto da Malek Smari, e il testo editato e che è servito per la stampa. Le differenze sono notevoli. Da una parte il ritmo è più pacato, dall'altra è più nervoso, scattante. Se fosse stato pubblicato il primo testo con tutta probabilità non avrebbe avuto quel consenso che vi è stato sul romanzo e avrebbe ricevuto parecchie critiche. Ma forse questo avrebbe aiutato Malek a studiare con maggiore intensità la lingua italiana a fare sintesi più significative fra il suo ritmo, il linguaggio che ha acquisito e la sua capacità produttiva. L'editing quindi rischia di rovinare del tutto questa possibilità di maturazione dello scrittore. C'è qualcosa che però sta avvenendo sul piano della sperimentazione con maggiore insistenza e significatività. Essa è data, a mio parere, essenzialmente dalle strutture narrative in cui il tentativo di innovazione riguarda spesso essenzialmente la funzione e la collocazione del narratore. Ci sono parecchi scritti di autori della migrazione che manifestano un desiderio di costruire qualcosa di nuovo. Le strutture narrative hanno visto nel secolo scorso lo spostamento del narratore da elemento esterno al fatto narrato, a elemento interno ad esso fino quasi ad essere un personaggio nascosto. Altro modo di essere del narratore, ma è forse quello più tradizionale, è il narratore interno al personaggio (le autobiografie). L'800 vide nello spostamento del narratore all'interno della vicenda come una rivoluzione narrativa. Si pensi a Flaubert, Zola, Verga. Il 900 ha accentuato l'attenzione sull'io, col monologo interiore, con la funzione del tempo e del tempo interiore. Ebbene è su questi elementi che si stanno giocando molte sperimentazioni dei testi della narrativa dei migranti, quasi che, lasciato ad altri momenti la possibilità di esprimersi con modalità linguistiche innovative, si stia proponendo l'offerta di originalità con queste modalità narrativa diverse. Già il testo di Saidou presentava un narratore che era una persona morta che racconta le vicende del fratello alla ricerca di lui; possibile visione del narratore derivata da una cultura animistica? Poi anche Wakkas, come in "Io marocchino con due K", proponeva un testo ricorsivo con un possibile inizio di lettura del racconto in momenti diversi da quello iniziale. È diviso in tre capitoli il racconto, e è possibile cominciare a leggerlo all'inizio di ogni 3 capitoli e ci si trova sempre punto e a capo. Ma è con gli ultimi romanzi e cioè quello del nuovo millennio che si hanno significative esperienze in tal senso. Mi riferisco al testo di Gangbo "Rometta e Giulieo", in cui il narratore ad un certo momento deve diventare personaggio che pone alcuni problemi di narratore-personaggio, narratore-autore, eccetera. È anche innovativo l'organizzazione della saga familiare operata da Spanjolli che fissa il tempo in cui si svolge la vicenda, e cioè la commemorazione di un morto, in un unico momento mentre fa scorrere il tempo del ricordo dei vari personaggi, così che attraverso di essi si ha il percorso della vita di un'intera famiglia che dura oltre un secolo attraverso momenti storici di cambiamenti radicali. Vi è cioè una doppia funzione del tempo, fermo quello del mondo narrato, scorrevole quello del ricordo. Ma è anche innovativa, sul piano strutturale, l'impostazione narrativa operata da Julio Monteiro Martins con quel minimo di azioni, a volte monoazioni, che danno il senso della immagine fotografica. Lo aveva già notato Gnisci nella postfazione a "Racconti italiani", ma la tendenza è più marcata nella successiva raccolta di racconti. Poi Julio sperimenta, in "madrelingua", anche l'interruzione del romanzo, cioè la costruzione di un non romanzo ove è il narratore a decidere questo fatto e a porre il lettore nella difficoltà di capire che cosa sta avvenendo. Le connotazione culturali, sociopolitiche fanno da contorno a questa che sembra un pura e semplice idea narrativa. È questo il campo in cui maggiore è l'aspetto innovativo. Un cenno alla poesia. Fin dall'origine vi è stata una produzione significativa di poesia. La produzione di poesia è da una parte più semplice, perchè più illusoria, dall'altra più difficile, perchè necessita di una grande padronanza della lingua nelle sue modalità e musicalità, nella possibilità di trasformazione in metafore significative. La pubblicazione dei volumetti "I cittadini della poesia" ad opera della poetessa Mia Lecomte ha fatto scoprire e conoscere un mondo sotterraneo, spesso nascosto e inconsueto. Vi sono poeti di qualità che producono significativamente, altri si limitano a poche raccolte distribuite presso associazioni o piccoli comuni e poco commercializzati. La poesia nel suo linguaggio è più tradizionalista della prosa; non solo, essa, come afferma il critico Bachtin, è più conformisticamente adeguata alla lingua delle classi dominanti perchè la sua lingua è quella codificata e nei suoi aspetti più elevati. Noi possiamo aspettarci sperimentazioni di forme poetiche, ma il linguaggio è quello più conformato a quello dei ceti più elevati. Se questo è vero, come io credo, da una parte è comprensibile la fioritura della produzione poetica, dall'altra è indice e spia della inconscia volontà di "integrazione" da parte di questi intellettuali stranieri che comprendono come la loro sopravvivenza intellettuale non può che passare attraverso forme di integrazione, sola modalità che forse garantisce il possibile dialogo con il ceto culturale italiano. Nella produzione della letteratura della migrazione in fondo c'è questa contraddizione fra desiderio di mantenimento e consolidamento della propria autonomia culturale e necessità di integrazione, che mi sembra si stia traducendo in atteggiamento dialettico interno e che può produrre qualcosa di significativamente elevato. Non mi soffermo molto sull'analisi delle opere poetiche, di quelle conosciute attraverso la pubblicazione curata da Mia Lecomte, certamente non si può ignorare quanto sta producendo Gezim Hajdari che sul piano della qualità e della ricerca poetica mi sembra la personalità più significativa. Ecco, io avrei finito…forse mi sono dilungato troppo… (Applausi) Julio Monteiro Martins: Bene, grazie, ora passo la parola a Pap Kouma. Pap Kouma: Buongiorno a tutti. Certamente ora parlerò di El Ghibli, e purtroppo parlerò anche di "Io venditore di elefanti" perché è un po' la mia persecuzione. Parlerò anche di un brano di un libro che sto per pubblicare. Raffaele ha parlato ora del racconto breve dicendo che i romanzi non ci sono, ma io sto per pubblicare è un romanzo. Come sono arrivato alla scrittura? Beh, per caso, come sono arrivato per caso in Italia, come ho imparato l'italiano per caso. Io vent'anni fa ero di passaggio in Italia, me ne stavo andando, ma sono rimasto e sono ancora qui. Per cui ho dovuto imparare l'italiano. A metà degli anni '80, quando sono arrivato qui, parlavo perfettamente il francese, che sto dimenticando soprattutto a scrivere, avevo imparato lo spagnolo che sto dimenticando perché in Senegal nella scuola secondaria lo spagnolo era obbligatorio come terza lingua - il francese era la prima, l'inglese la seconda - e poi si poteva scegliere come lingue facoltative o l'italiano o l'arabo o il cinese o il russo. Quindi per comunicare mischiavo il francese e lo spagnolo, come faccio quando vado in America, perché per capire cosa dice la tele, più o meno vado sui canali ispanici, perché io non parlo molo bene l'inglese, figuriamoci l'americano. Quindi non capisco tutto ma uso lo spagnolo. In quel periodo avevo la necessità di capire, e anche se ero di passaggio, nel frattempo dovevo imparare la lingua, anche per i miei amici. Eravamo in pochi a quell'epoca, eravamo in Romagna e facevamo i venditori ambulanti che era l'unico lavoro che potevamo fare subito per sopravvivere, perché è un mestiere, ma io non potevo andare in una fabbrica e dire "Io so fare questo mestiere, cerco lavoro", è impensabile. Allora facevamo i venditori, eravamo in quattro, come racconto in "Io venditore di elefanti", dentro una macchina e c'erano sempre i poliziotti e i carabinieri che ci fermavano perché eravamo anche clandestini. Gli altri mi dicevano "parlaci tu" e io usavo il francese e lo spagnolo per farmi capire; a volte funzionava, altre volte erano arresti, fogli di via, carcere per qualche giorno. Funzionava così. Quel fatto dei miei amici che volevano che parlassi sempre io, mi spingeva avanti, quindi io sentivo un certo senso di responsabilità, e poi loro erano anche più piccoli di me ed io dovevo la parte del fratello maggiore che si cagava addosso, letteralmente, perché non sapevo cosa dire e che cosa ci aspettava. Lì è stata anche la spinta. Poi nel frattempo siamo scappati dall'Italia, siamo andati in Francia e lì non era che le cose andassero meglio per noi clandestini. Allora hanno deciso di tornare, i più giovani, in Italia. Io sono andato in una libreria, prima di seguirli, ho comprato, il libro "L'italien en 90 lessons en 90 jours". La sera, facevamo i nostri giri, andavamo a vendere fino alle due di notte, e poi loro andavano a letto e io aprivo il mio libro e imparavo l'italiano, perché prima di venire in Italia facevo l'insegnante in una scuola materna, quindi sapevo come imparare. Ogni notte imparavo a memoria una lezione, quindi dopo 90 lezioni e 90 giorni, finalmente riuscivo a capire cosa mi dicevano e riuscivo anche a comunicare, ma parlavo con l'accento francese. Cito spesso quest'esempio, quando c'era Platini, figlio d'italiani che parlava bene l'italiano, dopo qualche anno, qualche miliardo, parlava bene l'italiano con l'accento italiano. Io non sentivo quest'accento, ma parlavo come Platini. Gli altri, che non avevano studiato l'italiano, non sentivano quest'accento, e per loro io parlavo perfettamente l'italiano! Tutte le volte che succedeva qualcosa io dovevo mettermi davanti e comunicare con gli altri. Leggevo i giornali, soprattutto quando facevo il venditore in spiaggia, perché verso le quattro o le cinque del pomeriggio i turisti avevano finito di leggere il giornale e lo buttavano. Allora lo prendevo io, lo leggevo e le cose che non capivo il giorno dopo le chiedevo a un amico italiano, soprattutto ragazzi di Bologna, che erano lì e con cui avevo fatto amicizia. In particolare un giorno ho trovato per la prima volta la parola "Vuccumprà" sul Resto del Carlino, e ho chiesto cosa volesse dire - era il 1986 - e loro mi hanno detto "Vuccumprà siete voi", ma no, noi non siamo così… I miei testi sono nati così, dalla volontà di comunicare,"Io venditore di elefanti" all'inizio non aveva pretese letterarie. Devo solo correggere una cosa, perché "Io venditore di elefanti" e "L'immigrato" sono usciti la stessa settimana. Probabilmente il mio libro ha avuto più risonanza, e qui ritorna la questione della pubblicità, perché io sono andato da Costanzo, e lui faceva vedere questo libro eccetera. Dopo Costanzo - bisognerebbe conoscerlo! - ho cominciato a vendere, ma sono arrivati anche gli insegnanti, che hanno contribuito a diffondere il testo nelle scuole, ma prima della spinta mediatica. Ci sono stati anche i giornali che ne hanno parlato molto, rispetto a "L'immigrato". L'autore di quel libro rivendica il fatto che il suo è un romanzo che ha delle pretese letterarie. Il mio testo è stato scritto a quattro mani e non aveva questa pretesa. Il mio obiettivo era quello di alzarsi e comunicare, e di dire, ci siamo anche noi, perché c'è stato un periodo negli anni 90, anche quando hanno ucciso Masslo, in cui gli italiani hanno sempre interpretato i fatti nel bene o nel male. Noi eravamo spettatori, lì a guardare. Io non potevo mandare giù la cosa, mentre gli altri stavano bollando, stavano dicendo "voi siete", era questo. Quindi bisognava alzarsi e dire "noi siamo", e cominciare a raccontare. E cosa volevo dire in realtà? Denunciare il razzismo, dice Pivetta, la mancanza di accoglienza, in Italia, perché non c'erano centri di prima accoglienza, a Milano hanno fatto il primo centro di accoglienza, nel '90, dopo la legge Martelli, ma vicino a Linate, in mezzo ai campi, lontano dal centro abitato. Quindi Pivetta voleva partire da questo tendone per denunciare il razzismo italiano, dicendo che "noi italiani che abbiamo subito il razzismo, ora stiamo riproponendo questo stessi razzismo verso gli immigrati". Io non avevo questa necessità di denunciare, quindi abbiamo deciso che io avrei raccontato delle cose vissute per lasciare poi al lettore tutta la libertà di valutare. Ovviamente ho dovuto fare delle scelte, perché ho usato delle storie vere, ma anche storie non mie, perché dicevo, "ho il diritto di mettere in piazza le umiliazioni subite dai miei compagni dentro quella macchina rossa, che è anche un personaggi del libro? Sono umiliazioni, anche recenti, ed io non ho neanche chiesto il permesso? Questi personaggi, veri, alcuni sono ancora in Italia, altri sono scappati, in Germania, in Spagna o gli Stati Uniti. Ma io mi chiedevo, ho il diritto di parlare delle umiliazioni di queste persone? Toglievo delle cose, e quando Pivetta mi ridava il testo, io trovavo quelle cose che avevo tolto. Io le cancellavo e Pivetta le rimetteva, c'è stata anche questa sorta di dialettica nello scegliere le cose da pubblicare. "Io venditore di elefanti" ha venuto circa ottantamila copie, che è una cifra molto alta! Le altre cose sono già state dette da Taddeo, ma le riviste…ci sono state anche delle riviste cartacee importanti, Caffè, ma lì il problema era anche la diffusione e anche la qualità dei testi da pubblicare. Per avere accesso a Caffè bisognava fare molta fatica. La sua sede era a Roma, ma per averlo a Milano era molto difficile, quindi è stata un'esperienza, anche se esistono delle riviste cartacee che però hanno un tiratura molto limitata, che non incide molto sul fenomeno della letteratura di migrazione, o della minoranza, come l'ha definita il filosofo Deleuze, però per me non è importante la definizione di Gnisci o chi altro, per me l'importante è scrivere. Io prima ero un gran lettore, perché ora, lavorando in libreria i libri mi escono dalle orecchie! Per me la letteratura deve piacere, se io apro un libro e dopo venti pagine io ancora non mi ritrovo, lo metto da parte questo libro. Quindi per prima cosa un libro deve piacere, poi dopo ci sono gli altri aspetti. Per esempio un libro che tanti definiscono un capolavoro, Il profumo di Süskind, dopo trenta pagine l'ho messo da parte. Mi son sentito dire, devi andare avanti fino a pagina 50. No, io non arrivo a 50 pagine! Cent'anni di solitudine, che è un libro molto difficile, mi ha subito preso, quindi sono andato avanti, anche se poi ho dovuto saltare delle pagine, quelle descrizioni alla sudamericana che somiglia un po' al modo africano di descrivere, ma comunque ho trovato il piacere di leggere quel libro! Come l'altro libro che cito spesso, La leggenda del santo bevitore, un piccolo libro, ma le prime quindici righe con le ripetizioni mi danno il piacere di leggere. Il testo deve piacere, poi classificatelo come volete. Inoltre, prima di tornare alle riviste, si parlava di Gnisci, che è l'unico che si è occupato di questo fenomeno della letteratura della migrazione. Io però quello che rimprovero a Gnisci, e poi glielo dirò perché non è facile parlare con lui, è che lui non prende le distanze da quello che legge, va molto a simpatia, purtroppo. Se mi diventi antipatico sparo contro i tuoi testi, io questo ho notato. Ho fatto un viaggio in America con lui, dove abbiamo parlato anche di letteratura, però ho notato che lui non considera il testo, ma il personaggio, e questo secondo me rovina anche la qualità dell'analisi che Gnisci, senza nulla togliere al suo lavoro, fa dei testi che ha davanti. Se mi sente mi spara in fronte! Questo mi dispiace perché lo apprezzo tantissimo. Le riviste. El Ghibli, perché è nata questa rivista? Mi sono incontrato con Gnisci per fare una rivista insieme, cartacea, abbiamo iniziato a litigare, cose che capitano, sul nome, per mesi, e su come chiamare questa rivista. Quando è uscito il nome Ulisse, c'è stato un putiferio per settimane, con scambi di mail su Ulisse, sulla colonizzazione. Gnisci è uscito, ha creato la rivista Kuma, noi un anno dopo siamo riusciti a fare El Ghibli. Che cosa volevamo fare? Dare spazio a tutto coloro che scrivono. Ieri ho parlato molto di mercato perché quando parlo di scrittori, la mia anima di scrittore si mescola con quella di libraio, perché fare il libraio mi consente di vivere, ma non parlo solo di mercato, perché El Ghibli è una rivista fuori dal mercato, poiché noi ci autofinanziamo, diamo spazio non solo al migrante che scrive ma anche al giovane o meno scrittore autoctono che fa fatica a pubblicare il suo racconto. Noi l'abbiamo chiamata rivista della migrazione, però secondo me è sbagliato, perché si rivolge anche ai bambini che sono nati qui, figli di migranti, ma anche non bambini italiani che sono nati qui. È per dare visibilità a chi scrive. Per me la cosa più difficile per la rivista è il dover scegliere i testi, il dover fare quello che di solito rimproveriamo all'editore italiano, lo scartare i testi . Qui spezzo una lancia in favore degli editori italiani, perché noi ci troviamo davanti al fatto di dover scegliere non solo per la qualità del testo, ma anche per i contenuti. A volte abbiamo testi di qualità ma che per scelte nostre non possiamo pubblicare, ma secondo me anche l'editore italiano si trova nella stessa situazione. Io sto per pubblicare un altro romanzo, e mi sono trovato ad affrontare quello che diceva Taddeo prima, il problema dell'editing. L'italiano è diventata la mia quarta lingua, una lingua imparata praticamente per strada, non mi sono mai seduto davanti a un insegnante italiano per imparare una parola o qualsiasi termine dell'italiano perché quando sono arrivato in Italia purtroppo non esistevano scuole dove lo straniero clandestino potesse andare. Quindi ho delle difficoltà a scrivere in italiano perché tutte le volte che mi metto davanti al computer a scrivere salta fuori il mio retaggio linguistico del wolof, che è la lingua materna parlata dalla maggior parte della gente in Senegal, ma attenzione, quando dico wolof non dico il wolof corretto, ma quello corrente, parlato in città che ormai è diventato una lingua creolizzata. Quando si parla il wolof nella mia città c'è un 15% francese, un 10% inglese, ci sono delle parole in portoghese, ora poi con l'emigrazione del Senegal in Italia, ci sono anche tantissime parole in italiano. Non è più una lingua pura, è una lingua bastarda - espressione non bella - diciamo ibrida, ma comunque molto aperta. Dunque io ho queste difficoltà che, come dice Assia Djebbar, che è diventato membro dell'Accademia Francese in questi giorni, che parla arabo, è di origine berbera, ma ogni volta che si mette a scrivere saltano fuori tutti i rifiuti che poi deve togliere. Io quando scrivo non mi rendo conto che sto traducendo in francese, mi capita anche questo; delle sere mi metto a scrivere, mi rendo conto che sto traducendo dal francese e che quello che ho scritto è una traduzione in italiano. Quindi ci sono delle difficoltà perché per pubblicare c'è anche l'editing, che è un passaggio che io accetto non totalmente da parte della casa editrice. Il modo tradizionale di costruire una frase in italiano per me è difficile perché mi blocca la successione soggetto-verbo-complemento. Allora, quando scrivo, soprattutto un romanzo, scrivo tutto, poi metto il soggetto e la virgola, e mi sento dire no, devi girare la frase. Allora a volte giro la frase, altre volte no e cancello tutto. Diventa molto difficile per chi parla altre lingue costruire anche in maniera veloce - anche perché lo dicevo ieri, io per scrivere questo libro ci ho messo sei anni prima di vederlo stampato. Diventa anche una tortura! Questo passaggio lo fanno non tutti gli scrittori, ad esempio dall'Africa, perché Ben Jallun scrive in francese e ha imparato il francese in Marocco, sapeva bene il francese e lo insegnava prima di andare a Parigi a fare lo scrittore in francese. Lui non aveva questi problemi. Negli ultimi anni c'è uno scrittore della Costa d'Avorio, Amadou Kouruma, che dell'editing praticamente se n'è fregato. Ha scritto "Allah non è mica obbligato", e sapeva perfettamente il francese, ed ha scritto nel francese della Costa d'Avorio, che io riesco a leggere perché ho vissuto in Costa d'Avorio. Ci sono almeno 90 etnie e nessuno vuole parlare la lingua dell'altro e per comunicare devono usare il francese, ma non tutti sono andati a scuola, quindi si parla un francese che non è quello originale e non è neppure quello parlato in Senegal, perché in Senegal ti costringono a parlare bene il francese oppure a stare zitto. In Costa d'Avorio puoi parlare il francese come ti viene, quindi Kouruma usa questo francese per scrivere i suoi romanzi. Ma lo hanno accettato perchè prima Kouruma è stato uno scrittore affermato e poi si è potuto permettere di usare la lingua come gli pare. Il mio sogno è anche quello, di poter usare l'italiano come cavolo voglio! Noi che abbiamo imparato l'italiano traducendo nella testa dal francese, abbiamo un modo diverso di parlare l'italiano. Io non ho avuto un insegnante d'italiano, però purtroppo ho avuto moltissimi insegnanti d'italiano che, ogni volta che dicevo qualcosa, ti dicevano, no, in italiano corretto si dice in questo modo…poi, quando mi sono reso conto che si poteva dire anche a modo mio, ormai era troppo tardi. Io vorrei tornare indietro e usare l'italiano come viene parato dalla mia generazione della metà degli anni ottanta. Ci arriverò forse dopo aver pubblicato questo libro che si chiama "Nomo Dio e gli spiriti danzanti". Nomo Dio è il termine che noi invochiamo per chiamare Dio, perché Nomo è il più anziano di tutti. È un libro pieno di animismo, di riti. Vi leggo solo un brano in cui il personaggio principale è un immigrato che incontra il figlio per la prima volta, un tema già affrontato da molti. "Ospite, mangi il riso della mamma e bevi il tè della nonna da giorni. Quando vai a casa tua?". Mory è davanti alla porta della stanza e non lascia passare il padre. "Non sono un ospite. Sono Øg, tuo papà. Posso entrare nella tua stana, per favore?" Øg si avvicina al figlio e prova a prenderlo finalmente in braccio. Lui scappa dentro la stanza. "Tu non sei mio papà, sei un ospite. La nonna mi ha detto che ti chiami Dawuda". "va bene, sono Dawuda. Mory, vieni vicino a me". Sorride per attrarre il figlio, che ogni giorno è più inflessibile. "Dove dormi questa sera?". "dormo qua, Mory, con mia moglie Sagar". "No, Sagar è la mia mamma, io dormo con lei". "Senti Mory, tu non hai la moglie?", scherza il padre. Il bambino scivola fuori dalla stanza e risponde dal cortile. "Sì, ho una moglie, un'amica della mamma, e poi amo mia cugina Awa e la zia Nogaye, la sua mamma". Il padre lo segue e continua a scherzare. "Visto che hai tante donne, perché non vai a dormire con una di loro?". "Ci sono troppe zanzare da loro. Comunque tu non dormi nella nostra stanza". Per fortuna Mory si addormenta presto e così Øg lo può coccolare nel sonno. Conquistare il bimbo diviene il suo obiettivo più urgente. "Come lo devo prendere?", chiese a Sagar. "Arrangiati da solo, marito e padre fantasma. Te lo meriti un figlio così". Sagar non perdona a Øg la lunga assenza. La sera arriva a letto tardi, si mette in un angolo a buona notte. Non si fa neppure sfiorare dal marito. Di giorno non lo degna di uno sguardo. Non lo ama più. Sagar vorrebbe rifarsi una vita con il suo mante medico, ma lui è sposato e non vuole divorziare e lei non ha intenzione di diventare una seconda moglie. Øg non ce l'ha con Sagar. Lei lo ha aspettato troppi anni, senza essere obbligata. Tanta acqua è passata sotto i ponti. Lui ha conosciuto altre donne. Øg non insiste. Ma per il figlio Øg fa scattare "l'operazione fascino". Gli compra regali al mercato, rinuncia alle visite ai parenti, agli amici e rimane più tempo a casa. Ma, niente da fare, Mory è irremovibile. Una mattina, l figlio sta chiamando la gatta spaurita che non ha più abbandonato il cortile yaay Penda, per darle da mangiare. Øg si avvicina, anche se i gatti non gli piacciono. "Che ci fai in mezzo alle zanzare, Mory? Non ti pizzicano? Sono tremende queste zanzare, m…". "La nonna ha detto che non si dice merda", Mory si sposta senza guardare il padre. "Ho detto zanzare maledette. Come va con la gatta?". "È la mi gatta". "Come si chiama la tua gatta?". Il bambino spinge la gatta dietro all'albero del cortile. Il padre li segue come un cane. "Prima l'avevo chiamata Penda, come la mia nonna. La nonna non ha voluto. Allora l'ho chiamata Awa, come mia cugina. E mia cugina è contenta. Guarda, fa le fusa solo per me". "Non è pericolosa la tua gatta?", dice Øg. "No, no, ospite, ma tu non ci devi disturbare. Awa non ama gli intrusi, ma non è pericolosa". "Sì, ma stai attento, figlio mio". "Tu sai giocare a pallone? Io sono bravo. Tu sei un papà?". "Sì! Sono il tuo papà". "La nonna Penda ha detto che tu sei un toubab, perché ti lavi poco. Mio papà non è toubab, tu non sei il mio papà, sei solo un ospite, la nonna ha detto che sei un vagabondo. Non sei mai a casa con la mamma". "Io non sono solo un ospite, mi chiamo Øg, sono tuo papà". "Sei dottore? L'ha detto la nonna". Mory sembra conciliante, non si sposta quando il padre gli tocca e accarezza la testa. "Sono infermiere, è diverso". "allora andrai al n'depp?" "Perché?" "Sei infermiere e al n'depp curano i matti. La nonna mi ha vietato di andare al n'depp". "E tu non ci andare". "E io ci andrò. Ospite, ti piace la mia gatta? Neanche lei si lava, teme l'acqua, è una toubab". "Sì, mi piace molto la tua gatta", mente Øg. "La nonna dice che non ti piacciono i gatti. Mi hai portato dei regali da Parigi?" "Ho perso le mie valigie". "I papà quando vanno a Parigi portano i regali". "Non ero a Parigi, Mory". "L'ha detto la nonna". "Ti ho comprato tanti regali in città, vieni con me, papà ti fa una sorpresa. Ti porto sulle spalle". "So camminare ospite. Voglio i regali di Parigi, son più belli e gli altri bambini del quartiere non li hanno". Mory segue a distanza il padre nella stanza. Øg sparge i regali sul pavimento. "Sono belli anche questi, tesoro, guarda". "Non sono di Parigi. Perché la mamma ti chiama David, la nonna ti chiama Dawuda e tu chiami te stesso Øg?" "Tuo nonno, che non hai mai visto…" "Il nonno con le medaglie? La sua foto è appesa nella stanza della nonna". "Proprio lui, mio padre, ha conosciuto un soldato toubab durante la guerra in Germania". "Mia nonna ha detto che la guerra…" Øg si siede sul pavimento. Il figlio rimane in piedi. "Siediti con me. Ascolta, tesoro, mi hai fatto una domanda, lasciami rispondere", Øg è felice di chiacchierare con il figlio. "Allora, il soldato toubab era prigioniero dei tedeschi". "Chi sono i tedeschi?" "Ti spiego i tedeschi dopo. Il toubab, forse un nordico, prigioniero come il nonno, mio papà…" "Cosa vuol dire nordico?" "Tesoro , dopo ti spiego anche cos'è un nordico. Il toubab si chiamava Øg". "Øg!", fa Mory ridendo e correndo verso l'uscita. "Øg, sì. Mory, non andare via…Ascolta, nel campo di prigionia dei tedeschi faceva un gran freddo, gli africani non erano ben coperti. Questo Øg aveva regalato il suo cappotto al nonno, mio papà. Così, in ricordo di quel gesto, mio padre mi ha dato il suo nome". "Øg non è un bel nome, dice mia nonna. Non mi piace Øg". "Tesoro, chiamami papà. Guarda, ecco i tuoi regali". "Ospite, sai raccontare le filastrocche?", chiede Mory ritornando nella stanza vicino al padre. "Sì, sì!" "Quali?" "Aspetta un attimo. Allora…". "I papà non pensano, sanno le filastrocche, sanno tutto, sai. Ospite, conosci 'sekho fall…'? dimmi cosa segue. Vedi, vedi non lo sai neanche! Dai, ripeti con me: ' sekho fall Ghinar ki nenam. Dai, ripeti: Gallo Fall gallina con le sue uova, stavo rubando il lalo, il proprietario del campo mi ha sorpreso lì'. Ripeti con me: 'ho saltato, sono caduto nella siepe. Ho risaltato, sono caduto ancora nella siepe, sono in compagnia di M'Bery N'Daw, M'Bery, sorellina di Baye e Demba. Mi siedo vicino a te, a terra, così, e allunghiamo le gambe. Ricomincia tu, ospite. Non ti muovere, mi alzo e vado a chiamare Awa mia cugina e gli altri cugini. E non barare, ti controlliamo". (Applausi) Julio Monteiro Martins: Bene, ora iniziamo la seconda parte ed io vorrei leggervi il testo di presentazione preparato dal Cei in collaborazione col CeiScuola. Da un progetto del CeiScuola, l'Associazione Ce.I.S. Gruppo "Giovani e Comunità" ha realizzato nel 2003, all'interno di una sua comunità, un video dal titolo "Persone-videoritratti dal margine". Nel video sono raccolte tre testimonianze, tre vissuti di emarginazione e difficoltà personali e sociali. È un video dai contenuti e contorni forti che permette di "gettare uno sguardo" meno superficiale e stereotipato di quanto non facciamo di solito, su alcune condizioni di "diversa normalità". Oggi è l'attore Marco Vignolo Gargini a dare corpo e spessore umano, con la sua voce e la sua sensibilità, al racconto di due protagonisti. La testimonianza appena ascoltata è quella di Victor, un omosessuale colombiano costretto dalla necessità ad inventarsi ogni giorno la vita. La seconda sarà quella di Michela che racconta la sua giovane vita segnata fin dall'infanzia dal conflitto interiore e relazionale di un'identità negata. Le immagini proiettate, tratte dal video originale, sono quelle di Victor e Michela. * ° * ° * Note sull'attore Marco Vignolo Gargini è nato a Lucca il 4 luglio 1964. Laureato in Filosofia (indirizzo estetico) presso l'Università degli Studi di Pisa (relatore Prof. Aldo G. Gargani, correlatore Dott. Leonardo Amoroso). Lavora in ambito teatrale, in veste d'attore e regista, a partire dal 1986 con molte rappresentazioni di vario genere: teatro di prosa; spettacoli multimediali; opere radiofoniche; letture in pubblico. Ha tradotto Rimbaud, Shakespeare, Wilde, è autore di romanzi (tra cui Bela Lugosi è morto!, Fazi editore, Roma e Il sorriso di Atlantide, Prospettiva editrice, Civitavecchia), saggi e articoli. Nel 2003 è stato inserito nella Storia della letteratura italiana contemporanea (Edizioni Helicon), a cura del prof. Neuro Bonifazi dell'Università di Urbino e con prefazione del prof. Giorgio Luti dell'Università di Firenze. * ° * ° * Persone - Videoritratti dal Margine VICTOR Devo dire tutto? Mi sono messo alle due della notte a chattare, e ho conosciuto un colombiano, gli ho spiegato la mia situazione e lui mi ha detto "Io ti aiuto per cinque giorni". Questo alle due della notte; alle sette del mattino, eravamo verso Roma per prendere l'aereo per la Colombia, da Roma in Colombia. Mi porta da un prete, e sono scappato, e ho conosciuto un'altra colombiana. A Roma c'è tanta prostituzione colombiana. Tanta. E lei mi diceva: "Perché non vai a prostituirti?" E io: "No, no, no, no, no!". "Guarda, c'è una mia amica travestita, trans, qualcosa, lei ti presta delle parrucche". E io "No. Come donna... non lo faccio". Alla fine, le ho detto di no. Ma non avevo lavoro, sono dovuto andare via da questa casa, perché il favore lo dovevo pagare, e sai … in quale maniera! (Ride) Con il sesso! Ormai in questa vita tutto si paga così. Ho cominciato a pagare un affitto. Lavoravo come assistente di un muratore, ma guadagnavo pochissimo. Il lavoro era finito. E già pagavo un affitto a Roma! Ci dormivano sei stranieri in una stanza piccolissima. Allora i soldi erano finiti. Un giorno prima di pagare la giornata sono scappato da quella casa perché non avevo dieci euro per pagare la giornata, e ho chiesto aiuto a un prete. Gli ho raccontato tutta la verità. Dopo tanti preti, tanti preti, tanti prèti che dicevano: "No, no, no, no, no, no". Ho bussato a una porta e lui subito mi ha detto di sì. E dormivo in chiesa a terra sui cartoni, e ho cominciato ad uscire la sera, verso le undici della sera, a prostituirmi. Ma la prima volta che sono andato, dieci minuti dopo ero a casa! (Ride) Non ho avuto il coraggio! La seconda sera ho fatto uno, due, e sono tornato, e piangevo. Piangevo... La terza sera dicevo: " Con la dignità non si vive". E ho cominciato a farlo. Già sapevo cosa dire... non parlavo molto italiano. Neanche adesso, ma... Già sapevo come fermare una macchina, sapevo tutto. E ho cominciato a lavorare in quello! Uno può arrivare a fare quasi un milione in una sola giornata. Perché ci sono dei servizi. Per fare ogni cosa c'è un costo. Ho cominciato a lavorare con le donne, da Mc Donald's. Mc Donald's è il punto dove si trovano i ragazzi, solo per farlo con le donne. Le donne arrivano nelle loro macchine, fanno una mossa, allora uno capisce tutto: uno si avvicina alla macchina, e va via. Ma quello non era un lavoro… con le donne si guadagna pochissimo, pochissimo pochissimo. E mi hanno detto di lavorare con gli uomini! Ho cominciato, e.cazzo! Si guadagnava un sacco di soldi! Tutti sposati! Tutti, tutti i miei clienti erano sposati: con figli, avvocati, impresari, preti anche: i preti erano quelli che cercavano di più. Non è un mondo sacro. Ho rispetto dei preti che mi hanno aiutato tantissimo: quello a Roma, questo qua... Che non mi piacciono le persone che piangono, neanche i bimbi (ride). Un altro. . . comincia a piangere e io scappo. Scappo so... e scappo per una ragione: perché sono molto crudele quando parlo in quel senso. "Oh, ma perché piangi? Quello non si fa..." Dìvento molto duro: dev'essere perché io non lo faccio. È l'orgoglio latinoamericano! MICHELA Mi sono accorta della mia sessualità, posso dire della mia sessualità?, che c'era qualcosa che non andava. .. che andava storto, perché, essendo nata insieme con un'altra persona, ossia con mio fratello, e siamo cresciuti insieme... Sì, gemello. Abbiamo… abbiamo avuto la stessa educazione, abbiamo vissuto gli stessi problemi. Guardando lui che gli piaceva giocare con le macchine, oppure con il pallone, e… era sempre senza scarpe, senza maglietta, a correre, e io invece no: mi piaceva stare a casa, aiutare mia sorella a pulire la casa, ero brava a scuola. Prendevo buoni voti, e lui invece no. E mi piaceva giocare con la bambola, e mi piaceva stare in mezzo alle bambine, e lì c'era qualcosa che non andava bene. Vedendo mio fratello prendere una strada e io invece un'altra, mi è venuto un punto interrogativo: ho detto: "Ma... chi è sbagliato? Io, o lui?" È difficile, davvero, una bimba di nove anni si accorge di queste cose di sessualità (?), ma non era la sessualità che mi veniva in mente, capito? Io pensavo che c'era qualcosa che non andava bene, ma non nel campo della sessualità, capito? Perché non è che pensavo di fare sesso, non è che mio fratello a nove anni andava con le bimbe e io invece volevo andare con i bimbi. No, niente di quella cosa lì. C'era qualcosa che non mi piaceva: mi piaceva di più stare con la bimba che abitava accanto a casa mia, e mio fratello con il suo fratello. E quindi lì è scattato qualcosa… c'era qualcosa che non andava. In Brasile subito, qualsiasi cosa che succeda, uno dev'essere portato da un dottore. E andiamo da un dottore. Arrivando lì, la mia mamma ha spiegato più o meno la situazione, e lui la prima.. . non ho mai sentito quella cosa, la prima cosa che gli è venuta in mente: "Facciamo un controllo ormonale". E...e lì, non penso, ora non mi ricordo bene, non è venuto qualcosa che poteva distinguere sì o no, perché un bimbo di nove anni non si sa bene cos'è, capito? Non c'è quella funzione ormonale, come quando un uomo è grande, oppure un ragazzo, voglio dire: quella cosa lì. Poi, mi hanno portata da una psicologa, è stata la prima volta che sono andata da una psicologa, e ci vado anche oggi. E questa psicologa mi ha detto: "Sei un omosessuale". Ho detto: "Ecco, va bene: cos'è un omosessuale?" " Omosessuale...è una persona che è attratta dal suo stesso sesso, è così, così, e così…" "Via, ho detto, va bene." Sono uscita da questo suo studio, ho detto: " Sono omosessuale". Però, ancora bimbo, confrontandomi con altri bambini, ho detto: "Ma... non sono omosessuale. Voglio qualcosa di più: se uno è omosessuale e si deve mettere i vestiti da donna, hai capito? Se sono bene vestito da uomo, sono attratto solamente dal mio stesso sesso". E io non ero ancora attratta da nessun altro sesso: ero attratta magari da me stessa, nel senso che mi volevo vestire da donna, volevo sentirmi quella cosa lì. E sono andata un'altra volta da questa psicologa. E lei mi ha detto: "No, non sei un omosessuale, sei un travestito: ti piace travestirti da donna". Ho detto: "Va bene, ora sono un travestito. Non sono più un omosessuale, un gay: sono un travestito". E tutto questo con i miei genitori… Fin quando non erano vivi. È difficile parlare di questo argomento, è la prima volta che mi confronto così! (Ride ) A undici anni ho iniziato a prendere.. .ho preso la mia prima pasticca di ormoni, di nascosto dalla mia mamma. Era… anticonc.. .come si dice? Anticoncezionale? Di mia sorella, si perché un'amica, una persona che conosco, trans, mi aveva detto che quella lì aiutava a.diventare più bella come donna. Come uno poteva andare in farmacia a comprare quella cosa lì io l'ho fregata a mia sorella. Quello, mi ricordo benissimo. Ho conosciuto altri, fra virgolette, travestiti, e mi è venuta quella cosa di…mi dicevo che ero troppo femminile, perché a loro, va bene, gli piaceva vestissi da donna, però io. . .a loro non piaceva fare niente a casa, pulire la casa, il loro problema era di vestirsi bene e andare in giro per attirare l'attenzione. E attirare l'attenzione non mi piace perché ero e sono ancora una persona timida. E sono andata, a quindici anni, da un'altra psicologa, che mi ha seguita fino quando ne avevo diciassette, diciotto. E dopo tante sedute, lei mi ha detto: "Senti, tu non sei un travestito, tu sei un transessuale". Ho detto: "Ma...sono stato un uomo, poi sono stato un omosessuale, poi sono stato un travestito, ora sono un transessuale". E...mi sono venuto dei problemi psicologici in quel senso lì. Non lo so cosa sono: addirittura ho pensato che ero un mostro, ossia una persona che nasce, in mezzo a tanta gente, una persona che nasce magari senza un braccio, senza una gamba: io pensavo quella cosa lì. No. Non è una scelta culturale, una scelta spirituale, che magari tu nasci in una famiglia cristiana, no? e poi col percorso della vita arrivi a una certa età che tu vuoi diventare evangelico, capito? O magari abito a Rio De Janeiro in Brasile però arriva una certa età e mi voglio trasferire a San Paolo: non è quella cosa, capito? Voglio dire. È.. .è... È più profonda. È una cosa che non capisco bene. Io mi capisco: se lo chiedi a me, mi capisco cosa sono, capito? Sono donna dentro: cuore, testa, i miei atteggiamenti, i miei sentimenti, anche i difetti delle donne: la cellulite, la gordura (il grasso localizzato), la.. .itlessione idrica? Ritenzione idrica, ossia, anche quella cosa lì, capito, che non è mica piacevole. Non sembro essere quello che sono: dico sempre, ora faccio una battuta: fin quando non mi chiedono documenti, no? oppure non devo calare le mie mutandine, sono donna, capito com'è? Se dovevo comprare qualcosa con la carta di credito oppure con il mio assegno in Brasile, no? lì mi veniva un po? di disagio perché loro non capivano bene: "Ma questa carta di credito è sua o di suo marito?". "No, è mia" "Ma… ma come mai? Ma…" E ho detto "No, senti: questa carta di credito è mia". E dovevo spiegare la situazione. Però le persone quando capivano cosa succedeva in quel momento non è che mi prendevano in giro: non accettavano quel fatto. "Ma come mai? Bella, una donna è nata così?" Io dicevo: "Senti, pur essendo…mi ha fregato: la natura con me ha fatto un piccolo scherzo". Capito? Julio Monteiro Martins: Abbiamo ancora un po' di tempo per il dibattito, per qualunque tipo di intervento. Magari posso iniziare io stesso. Vorrei fare una domanda a Raffaele Taddeo riguardo a questo momento attuale della letteratura cosiddetta della migrazione in Italia negli ultimi cinque, dieci anni. Volevo chiedergli se lui ha notato, se è vero che c'è uno spostamento dai testi autobiografici in cui il narratore si confonde con l'autore stesso, alla creazione di personaggi esterni, diversi dall'autore. Raffaele Taddeo: Sì. Se nella prima fase il fattore autobiografico era dominante, io direi già con alcuni testi come I bambini delle rose di Melliti, ma anche il primo testo di Melliti stesso, e tutti gli altri testi, non possono più essere considerati autobiografici, ormai siamo di fronte alla costruzione di veri romanzi con personaggi creati, inventati, in una dimensione di reale letteratura, in cui l'autobiografia ormai è messa in secondo piano, direi a partire dal '94-'95, ecco. Questo non vuol dire che i testi non abbiano anche elementi di autobiografia, però non è l'aspetto dominante. Julio Monteiro Martins: Ci sono altre domande? Faccio una domanda a Pap Kouma sul suo nuovo romanzo. Ho notato che c'è la tematica del ritorno in patria, che è quasi un tabù. Pap Kouma: È il ritorno. È un romanzo che comincia all'aeroporto e finisce all'aeroporto. È un romanzo che comincia con un aereo che atterra in una città africana immaginata e finisce con un aereo che riparte per l'Europa, quindi parla di ritorno, non solo quello, ma ci sono questi personaggi persi che tornano a casa e sono persi dentro quello che loro stessi definiscono la propria realtà. È il ritorno. Lì c'è quel figlio che non lo conosce e lo chiama ospite. In un'altra versione lo chiamava straniero, però mi sono ricordato che, non so se in tutta l'Africa, ma in Senegal nella mia lingua non esiste la parola "straniero", esiste la parola ospite. L'ho cambiato di recente. Raffaele Taddeo: Direi che tutta la produzione di Khossi essenzialmente affronta il tema del ritorno. Julio Monteiro Martins: Secondo lei oggi si può oggigiorno guardare a questa letteratura tenendo conto delle origini. È un possibile taglio epistemologico? Raffaele Taddeo: Beh, c'è il rischio di ricadere nella distinzione che ha fatto Chiellino ieri, il rischio di diventare interlocutori. Faccio l'interlocutore perché capisco quella data cultura e quindi colloco l'autore nella cultura da cui proviene. A mio parere, lo scrittore straniero che arriva in Italia, subisce tutta una serie di trasformazioni che sono prima di tutto personali, biologiche, nel senso che pone a confronto la sua vita con le sue certezze con quelle che si trova davanti, e inevitabilmente ci sono dei cambiamenti. Inevitabilmente pone a confronto la sua cultura originaria con la cultura presente, ed è inevitabile che faccia delle sintesi. È chiarissimo che poi si possano individuare degli elementi originari, provenienti dalla propria cultura, ma comincia a essere dominante una commistione delle culture che porta a qualcosa di totalmente diverso. Io non credo che si possa mantenere una purezza della cultura di provenienza, l'autore straniero inevitabilmente farà delle combinazioni e dei cambiamenti con la cultura del paese ospitante diciamo. Angela D'Ottavio (spettatrice): Io volevo sapere da Pap Kouma, che prima ha parlato del fatto che usa l'italiano come lingua della comunicazione, come considera l'italiano come lingua letteraria, perché prima ha parlato del piacere di scrivere, se c'è stato un cambiamento… Pap Kouma: Sì, prima c'era la necessità di comunicare, poi dopo per scrivere è diventato una cosa diversa. Tra "Io venditore di elefanti" scritto a quattro mani e questo nuovo sono passati 14 anni e questo vuol dire che prendo molto in considerazione il fatto che per scrivere un libro ci vuole una lingua diversa da quella della sopravvivenza. Ho dovuto imparare la lingua in un altro modo, non solo leggendo, leggo molto, ma anche confrontandomi perché in tutti questi anni ho scritto molto, soprattutto articoli giornalistici, perché dal '91 al '94 ho tenuto una rubrica su "Linus" dove scrivevo di satira e questo è stata una palestra. Poi mi sono messo anche a seguire la cronaca, il problema degli immigrati, frequentavo le redazioni, soprattutto de L'Unità, ma non solo e lì ho imparato scrivendo. All'inizio c'era chi mi diceva, scrivi in francese e poi qualcuno traduce in italiano, ma io non ho voluto, io sono qui e voglio comunicare in italiano con gli italiani, quindi scrivo in italiano anche se ci sono dei francesismi che rimarranno anche se non esagerati sono anche belli! E poi, anche gli italiani usano i francesismi, oppure gli anglicismi o come cavolo si chiamano - anche esagerando, perché certi termini sono molto più belli in italiano, oppure usando dei termini che gli inglesi hanno preso dal latino e li hanno resi anglosassoni. Sono molto cosciente che c'è una differenza tra la lingua letteraria e la lingua di sopravvivenza. Raffaele Taddeo: C'è un dato importante. La maggior parte degli scrittori stranieri sono stati intellettuali anche nel loro paese. Pap forse è un'eccezione, non so se lui era scrittore prima, perché era molto giovane. Ma la maggior parte aveva già delle velleità da scrittore prima e poi è arrivato in Italia e ha approfondito questa vocazione. Pap Kouma: Io ho letto pochi classici italiani, per dire. Leggo molto in italiano ma pochi classici, perché forse ciò è legato a un'esperienza scolastica precedente, dato che nella scuola francese che ho frequentato ero costretto a leggere i classici, una volta arrivato qui ho snobbato un po' i classici italiani. Ho letto i contemporanei, quelli di ultima generazione, Benni, Baricco, anche se non mi piacciono tutti, perché scrivono…Taddeo prima ha detto che noi scriviamo per comunicare qualcosa, è vero, ma a volte scrivere anche senza comunicare nulla è noioso. Io ho dovuto abbandonare Baricco perché fa esercizi di stile e dimostra quanto è bravo a scrivere, ma dopo un po'… Raffaele Taddeo: La letteratura in sé è disinteressata, non è legata a ideologia, non ha finalità di addestramento, ma deve partire dal piacere di scrivere… Pap Kouma: Sì. Io mi sono avvicinato ma ascoltando, andando incontro alla gente. Le persone che vivono ascoltando. Mi sono reso conto che quando vai in mezzo ai toubab, come chiamiamo i bianchi nell'Africa occidentale, c'è una cosa. Voi ci fate delle domande, sempre le stesse, e noi all'inizio raccontiamo, ma poi alla fine diventa noioso! Non c'è un vero dialogo e io alla fine ho adottato il metodo contrario, ascoltare. Questo è un approccio dinamico, per questo non ho letto i classici. Ne approfitto per invitare Jadelin Gangbo a scrivere su El Ghibli. Ti aspettiamo Jadelin, abbiamo bisogno di te, dei tuoi scritti!! Ti devo dire che sei molto apprezzato e molto citato, quindi sei il benvenuto! Julio M.M: Amici, io vi ringrazio e vi invito a luglio del 2006 quando faremo, spero, il nostro VI Seminario! Grazie ancora. (Applausi) Gli
atti del Seminario sono a cura della dott.ssa Sara Favilla (e-mail: sara.favilla@tin.it)
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