2° giorno- martedì 19 luglio h.10,30 Julio Monteiro Martins: Buongiorno e benvenuti al secondo giorno dei nostri incontri. Stamani abbiamo prima l'intervento del prof. Carmine Chiellino dell'Università di Augsburg in Germania, poeta in lingua tedesca e massimo conoscitore della poesia della migrazione in Germania, soprattutto di poeti di origine italiana. Ma scrive anche sulla letteratura della migrazione in Italia e potrà illustrarci un parallelo tra queste due realtà. Abbiamo anche Melita Richter, poetessa che abbiamo pubblicato anche sulla rivista Sagarana di maggio. Lei è qui in questa doppia veste di autrice e di studiosa della migrazione. Infine abbiamo Vesna Stanic …. Grazie, passo la parola a Carmine Chiellino. Carmine Chiellino: Io ho fatto un tentativo di giungere alla definizione di cosa potrebbe essere la letteratura interculturale, e faccio esattamente quello che ha detto Julio, cioè metto a disposizione la mia esperienza di ricercatore all'interno della letteratura interculturale e la mia esperienza di scrittore di letteratura interculturale. Leggo la prima parte di questa cosa che ho scritto dove spiego quello che faccio, partendo da questa parola, letteratura e migrazione, una parola che a me non piace, però è lì, e bisogna fare i conti con questa parola. "Emigrazione, immigrazione ed esilio sono stati da sempre, ed ognuno per sé, fonte di creatività letteraria. Ogni essere umano, che si sposta o che è costretto a spostarsi da uno spazio, da una storia, da una società, da una lingua a un'altra, si ricostruisce un contesto sociale per ridare dignità alla sua esistenza o per attuare il suo progetto di vita. Quest'operazione di intensa creatività esistenziale sfocia a volte nella scrittura. Per il Novecento europeo emigrazione, immigrazione ed esilio vanno annoverati tra gli impulsi che hanno concorso in modo decisivo al rinnovamento delle letterature nazionali perché ne hanno smorzato l'autoreferenzialità entro cui esse hanno rischiato di perdersi." Beh, questa è la tesi. Per poter fare questo lavoro presenterò quattro sfere d'incontro tra letteratura e migrazione. La prima sfera d'incontro tra emigrazione ed esilio è la letteratura monolingue, cioè la letteratura nazionale, perché l'interazione ha luogo solo all'interno della letteratura del paese in cui nasce l'emigrazione. Ma si concretizza in opere sparse, non c'è un filone, e raramente nella continuità tematica di un autore - non c'è un autore che tratta l'emigrazione, ci sono sempre delle opere in cui l'emigrazione compare. La seconda tra letteratura emigrazione/esilio è di per sé bilingue perché avviene all'interno del paese di immigrazione ed è promossa da autori che continuano a scrivere nella propria lingua madre e da autori che decidono di scrivere nella lingua della società in cui vogliono realizzare il loro progetto di vita. Questo è bilinguismo: nasce una letteratura che viene scritta nella lingua del paese ed in tutte le altre lingue che vengono scritte, quindi è un bilinguismo pluri, non è un bilinguismo due. La terza sfera tra immigrazione e letteratura si caratterizza per un ritorno al monolinguismo anche se ha luogo all'interno di un contesto d'immigrazione. Cioè io mi riferisco a quegli autori che vengono chiamati di seconda, terza generazione che ritornano al monolinguismo, tanto per intenderci possiamo citare Don DeLillo, John Fante, anche Mario Puzo, sempre per fare riferimento agli italo-americani. La quarta sfera d'interazione è piuttosto un flusso di ritorno, abbiamo questo flusso che ritorna sulle letterature nazionali che contribuisce a rinnovare le letterature nazionali di partenza. Io parto da queste quattro sfere per giungere poi ad una definizione. Pertanto si va da una prima sfera di interazione non ancora esplorata, cioè l'italianistica in Italia ha sempre formulato la tesi che l'alta letteratura italiana non abbia trattato l'emigrazione, tanto è vero che c'è uno scandalo nella ricerca scientifica: Asor Rosa ha fatto una storia della letteratura nazionale in dodicimila pagine, in cui c'è tutto, ma manca il binomio letteratura-migrazione. È un tabù che si ripercuote anche nella ricerca scientifica. La seconda e la terza sfera invece sono ricchissime di icone della letteratura mondiale contemporanea, per giungere ad una quarta sfera che stenta ad essere accreditata dalle filologie nazionali. Vediamo brevemente cosa è successo e perché bisogna fare attenzione. Si pensa ingenuamente che parlare di emigrazione e di immigrazione sia esteticamente la stessa cosa, no?, cioè si pensa che sia possibile scrivere un romanzo partendo dalle cause per arrivare all'integrazione, o almeno questo è il modello ipotizzato. Allora, io parto invece da questa divisione: al di là dell'autoreferenzialità che caratterizza la ricerca scientifica all'interno delle filologie nazionali, il ritardo con cui la filologia italiana sta scoprendo l'interazione tra emigrazione e letteratura è dovuto al fatto che la filologia italiana non ha ancora accolto la diversità fondante che separa l'emigrazione dall'immigrazione. E da qui nasce quest'ultimo tentativo, maldestro, ideologico, di usare questa parola, migrazione, eliminando i prefissi dove c'è la responsabilità del paese di partenza e di arrivo. Se io tolgo e- libero il paese di partenza dalla sua responsabilità. Se io tolgo im- libero il paese di arrivo dalla sua responsabilità. Creo un soggetto migrante come se fosse un satellite intorno alla terra, che gira per tutta la vita, in quanto non è partito da nessuna parte e non arriverà mai da nessuna parte. Quindi il concetto di migranza è un'operazione ideologica per eliminare la responsabilità del paese di partenza e del paese di arrivo, che riprende un altro modello all'interno della lingua italiana, di trasformare l'emigrante non in immigrato e emigrato, ma di tenerlo sempre come emigrante, cioè di eliminare questi due concetti e di dire, di questo non se ne deve occupare né lo stato di partenza né quello di arrivo. Interessante la trasformazione in participio presente uno stato permanente! Per emigrazione vanno intese le conflittualità subite o il progetto ideato che portano all'emigrazione. Per immigrazione vanno intese la ricostruzione di un contesto sociale e la realizzazione del progetto di vita all'interno di uno spazio, di una storia, di una società e di una lingua diversa da quella di appartenenza. Se noi separiamo questi due mondi vediamo che c'è spazio per una letteratura di emigrazione e per una di immigrazione. Chi ci ha provato tra i grandi scrittori della letteratura italiana? Ci ha provato il Verga con I Malavoglia, ma solo in un capitolo, l'11. Ci ha provato Luigi Capuana, due volte, una volta ci è riuscito, una volta un fiasco solenne. Ci ha provato con Le novelle Pirandello e Corrado Alvaro; e ancora nel dopoguerra scrittori come Saverio Strati con una certa continuità, tematizzando l'emigrazione dalla Calabria, poi Ignazio Silone con un libro in cui non ci crede nessuno, Il segreto di Luca - e poi vedremo perché - e Pier Paolo Pasolini. Verga, nel capitolo 11 dei Malavoglia fa incontrare 'Ntoni con la madre, la Longa, e in un colloquio, la Longa gli dice, tu devi rimanere, te ne puoi andare solo dopo la mia morte. 'Ntoni accetta questo patto della madre, solo che la madre, come tutte le madri, è molto generosa, e in poco tempo non fa attenzione, si siede, prende la peste e muore. Questo modello narrativo, per la filologia italiana da secoli, non ha senso, cioè la Longa è una stupida che si siede perché si siede, mentre invece la Longa vuole dare la libertà al figlio di realizzare il suo progetto di vita altrove, si siede quand'era vietato, prende la peste e muore. Muore all'interno dello stesso capitolo, è questa la cosa interessante, nel capitolo 11 viene ricostruito il conflitto tra la Longa e il figlio 'Ntoni e trovata la soluzione. Però abbiamo anche dei personaggi all'interno della letteratura italiana che si oppongono all'emigrazione, per esempio nel Marchese di Roccaverdina abbiamo una costruzione interessante, c'è un contadino che si chiama Santi Dimaura che va dal marchese che gli vuole comprare l'ultimo pezzo di terra che è rimasto. Il marchese glielo compra e lui si impicca, perché non voleva emigrare come avevano fatto gli altri contadini. La stessa resistenza viene trattata nel Segreto di Luca. A Luca hanno fatto il passaporto, perché Luca era in conflitto, poiché era innamorato di una donna che invece dev'essere sposata dal più ricco del paese. Il problema era mandare in emigrazione Luca per evitare la conflittualità. Gli fanno il passaporto e lui preferisce l'ergastolo per rimanere vicino alla donna amata, mentre invece il marito va in Brasile e fallisce. Quindi c'è anche questa vendetta spicciola di chi rimane che fa fallire il responsabile... allora c'è chi va via e chi resiste, chi resta anche a rischio della vita pagando così fortemente. In Saverio Strati ovviamente si parla sempre di chi va via a mani vuote, Pasolini invece crea un libro, Il sogno di una cosa, del 62, dove fa emigrare un gruppo di nord-italiani veneti che non riescono ad emigrare, e ritornano. È una favola sull'impossibilità di raggiungere il diverso, cioè non si riesce a scappare dalla propria cultura. Chi invece ha trattato l'emigrazione e l'immigrazione insieme, non c'è riuscito. C'è un romanzo di Francesco Perri, del 1926, Emigranti, che li fa partire da un paese calabrese, li manda in America, il romanzo arriva in America e non sa come andare avanti, e quindi ci mette dentro tutti i clichés sugli americani, persino la discussione sulla sifilide. Ma si perde non perché non conosce l'America, si perde perché la lingua italiana, autoreferenziale, non riesce ad esprimere il diverso e cade nel cliché, nel luogo comune. Chi ha intuito il pericolo che la lingua nazionale può permettere l'espressione del diverso, è Pirandello e Corrado Alvaro. Alvaro ci aveva provato, raccontando la vita degli americani in America, ma anche lui è finito nella storia di un'americana frustrata che si innamora di un italiano emigrato. Però poi hanno capito che se io non riesco a raccontare il diverso con la lingua nazionale fuori, allora devo raccontare il diverso con la lingua nazionale qui e costruisco delle novelle che raccontino il diverso: ad esempio "Nell'albergo è morto un tale" di Pirandello, il ritorno di chi vuole morire in patria. Pirandello lo fa morire subito, lo fa morire povero e lo fa morire nella camera 13, numero fortunato!quelli che tornano Pirandello li fa morire tremendamente, in corsia, da tutte le parti, perché secondo lui il ritorno è impossibile. Però Pirandello nella novella Lontano del 1902, aveva tematizzato l'arrivo di un marinaio norvegese che si era ammalato, era sbarcato in Sicilia e aveva sposato Venerina che, una volta raggiunta la maternità, di questo marinaio non gliene fregava più niente. E questo Pirandello lo dice molto elegante, dice "ma come si chiama tuo marito?" chiede una vicina. "Si chiama Lars, si chiama Larso, chiamatelo come volete", cioè non gliene interessava più niente. Però Pirandello ha trattato l'arrivo della diversità nel consueto, e quindi riesce a mettere su il modello che riprende poi ne "La donna di Boston" (1929) dove riprende Corrado Alvaro. I due scrittori creano questo modello: chi arriva dev'essere funzionale a chi è presente, è un modello narrativo, non politico: cioè Lars diventa Larso, il bruciato, quello che fa il suo servizio e poi se ne deve andare, quindi funzionale a Venerina, la donna del posto, bruttina, che non voleva sposare nessuno, però il diverso la sposa, la fa diventare madre, però Larso poi perde il suo ruolo. Ne "la donna di Boston" abbiamo la moglie di Saverio, che è stato giustiziato sulla sedia elettrica e lei viene trovare la mamma di Saverio, in Calabria. Le giovani donne vogliono veder la diversità, entrano in casa e le dissacrano la diversità, mettendole all'aria tutto. Alla fine viene strumentalizzata, le tagliano i capelli e viene accoppiata con una figura che forse voi non conoscete, con la monaca. Nella cultura meridionale le lesbiche venivano spinte ad essere delle monache. Quindi la letteratura nazionale ha trattato l'emigrazione secondo il modello dell'emigrazione, della conflittualità e secondo il modello dell'arrivo del diverso, creando anche delle tecniche narrative nuove. Poi nella letteratura nazionale si è insediato un cliché, un topos, la figura dell'emigrato che ritorna e che è perdente, ritorna nei romanzi e nei modelli più strani. In Cesare Pavese, ne La luna e i falò c'è questo che ritorna con un'idea stranissima di comprare tutti i cavalli dei piemontesi, perché lui in America aveva scoperto la pompa della benzina, e quindi voleva essere il primo a industrializzare il Piemonte con il trattore, poi naturalmente fallisce. Anche in romanzi come il Metello di Pratolini, sappiamo che il crumiro Olindo torna dal Belgio e fa fallire tutti i piani degli scioperi. Anche in Cesare de Marchi, La crociera, parla di uno zio che è tornato dall'America e ha messo su una fabbrica di pasta in Liguria, però fallisce. Questo era il rapporto tra emigrazione e letterature nazionali. Adesso vi racconto il rapporto tra immigrazione e letteratura interculturale. Qui il gioco è facilissimo perché abbiamo le icone della letteratura interculturale che sarebbe la letteratura mondiale che non c'è mai stata. Leggo una frase per chiarire: "Con la fine del colonialismo britannico, francese, portoghese, spagnolo, olandese e russo, i relativi flussi immigratori hanno accelerato la trasformazione dell'Europa da continente di emigrazione a continente di immigrazione, nel senso che alle tradizionali migrazioni interne al continente si sono aggiunte immigrazioni da altri continenti. Queste ultime hanno conferito all'Europa uno spessore di interculturalità visibilmente più denso. Non va sottovalutato il fatto che l'Europa stessa si trova sulla via di un processo di integrazione che porterà ad un'identità interculturale dei suoi cittadini." Tutti conoscono Joseph Conrad, che arriva nella lingua inglese scrivendo un primo romanzo, una prima novella. Cito poi Nabokov che va dal russo all'inglese, poi Beckett che penzola tra l'inglese e il francese. Poi c'è il caso del russo Tschingis Aitmatow, del francese Albert Memmi, dello spagnolo Jorge Semprun che scrive in francese, Hector Bianciotti figio di piemontesi in Argentina che scrive in francese, Naipaul che scrive in inglese, Milan Kundera che dal ceco scrive in francese, Salman Rushdie. In questi paesi la letteratura multiculturale purtroppo viene tematizzata come postcoloniale. Per la letteratura interculturale in lingua italiana e tedesca in cui l'interazione sta avvenendo adesso, ricorderei Giorgio Pressburger, Fleur Jaeggy e i qui presenti che, provenienti da tantissime altre lingue, scrivono in lingua italiana. Tra gli autori in lingua tedesca cito Cyrus Atabay, Franco Biondi, Gino Chiellino, Zehra Cirak, Dante Andrea Franzetti, Adel Karasholi, Libuse Moníková, Emine Sevgi Özdamar, Ota Philip, Yüksel Pazarkaya, Said, Rafik Schami, Yoko Tawada, Galsan Tschinag, Natascha Wodin. Ora provo a definire cos'è la letteratura interculturale sperando anche di dare un aiuto ai miei colleghi che scrivono in Italia per autointerpretarsi o per mettersi al riparo da quei modelli che vengono suggeriti per interpretarsi. Che cosa rende interculturale la letteratura di questi autori rapportata alla letteratura nazionale che viene scritta nella stessa lingua? Aldilà di quello che è percepibile a prima vista come può esser la diversità culturale delle metafore, dei personaggi, delle topografie e dei temi, in realtà l'operazione che li rende interculturali è l'interruzione del patto che lega scrittore e lettore all'interno delle letterature nazionali. Si tratta di un patto di lealtà alla propria appartenenza culturale, che consiste nel fatto che scrittore e lettore si riconoscono depositari di una lingua e di una memoria comune. La letteratura interculturale non rispetta questo patto. Le opere, ma non per forza tutte, degli autori interculturali hanno la tendenza a sostituire il lettore nazionale con il lettore a-nazionale e di accostargli un interlocutore, che sia in grado di seguire lo svolgersi dell'opera al di là della lingua in cui essa è scritta. Per lettore a-nazionale si intende ogni lettore in grado di leggere la lingua in cui è composta l'opera, per interlocutore si intende chi, oltre a leggere la lingua, riesce a seguire il racconto lì dove la lingua attinge alla memoria storico-culturale della lingua dei personaggi. L'interlocutore è colui che leggendo le opere degli autori di lingua inglese, francese, italiana o tedesca, riesce a seguire l'opera anche nel suo contesto storico-culturale indiano, tunisino, argentino, ceco, spagnolo, svizzero, brasiliano, italiano, iraniano, turco, ecc. per cui il lettore nazionale spesso si trova di fronte a un'opera di cui sente che gliene sfugge una dimensione altrettanto determinante come quella che riesce a cogliere attraverso la sua lingua madre. In tal senso il lettore nazionale scopre l'interculturalità lo confronta con dei limiti e gli richiede rispetto delle diversità all'interno della "sua" lingua. Questo è il modello per cui chi scrive critica letteraria su di voi non riuscirà mai a farla. Ora passo alla quarta sfera d'incontro, la dissoluzione dell'immigrazione e la continuità interculturale. A un certo punto le immigrazioni si dissolvono, e pensiamo alle immigrazioni classiche degli ugonotti in Germania o quelle degli italiani negli Stati Uniti. Se l'immigrazione si dissolve come fatto generazionale, essa di fatto viene ereditata da scrittori che ne fanno il tema della loro scrittura e/o che la trasformano in percezione narrativa. Cioè, l'immigrazione finisce però abbiamo una serie di scrittori che lo accettano come tema e come strategia di narrare. Si tratta di scrittori che nascono nella lingua nazionale del paese in cui sono immigrati i genitori, ma che da autori si contestualizzano nell'interculturalità. Per gli Stati Uniti è il caso di John Fante, Mario Puzo, Gay Talese o Don DeLillo. Per il Canada Antonio D'Alfonso, Antonino Mazza, Mary Melfi, Marco Micone o Nino Ricci. Per la Germania si tratta di una generazione che si è appena annunciata ma di una capacità artistica ed estetica spaventosa: Zsuzsa Bánk, Marica Bodrozic, Catalin Dorian Florescu, Therésa Mora, José Oliver, Aglaja Veterani, Feridun Zaimoglu. La diversità e l'autonomia dei loro soggetti e modelli estetici hanno come fonte comune l'innovazione creativa scaturita dall'interazione iniziale tra immigrazione e letteratura nazionale. Significa che in Italia si sta tentando sempre ideologicamente di mettere al centro della vostra letteratura una categoria razzista qual è la cosiddetta contaminazione. La contaminazione è razzista perché si pensa che all'inizio ci siano due purezze, cioè ci si può contaminare a partire da due modelli puri, ma se i modelli iniziali erano bastardi è ovvio che non ci si può contaminare! Questo è un tentativo ideologico per evitare di accettare l'interculturalità. L'ultimo punto è il flusso di ritorno. L'ultimo risultato dell'interazione tra immigrazione e letteratura è costituito da un riflusso innovativo a vantaggio della letteratura di appartenenza, che è ovviamente possibile quando alcuni degli autori immigrati decidono di scrivere nella lingua della loro appartenenza culturale, come nel caso di Costantino Kafavis che ha scritto in greco e di Giuseppe Ungaretti che ha scritto in italiano, entrambi nati ad Alessandria d'Egitto. È ormai un fatto condiviso che la poesia greca contemporanea e quella italiana dei primi del Novecento è stata rinnovata da questi due autori. A questo punto sarebbe interessante dedicare più attenzione ai flussi di ritorno proprio perché si ha la possibilità di indagare su opere di due autori eccezionali come Costantino Kafavis e Ungaretti, cui andrebbero aggiunte le teorie e attività riformiste del fondatore del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti, anche lui nato ad Alessandria d'Egitto, che non dimentichiamo che ha scritto il manifesto del rinnovamento della letteratura italiana l'ha pubblicato il francese Le Figaro. Di queste cose la filologia italiana non se ne vuole occupare, è ovvio! Vi faccio solo un esempio di flusso di ritorno. La massima espressione della poesia italiana d'inizio Novecento è sotto i due versi di Ungaretti, "M'illumino / d'immenso". Ungaretti introduce qui la spazialità in una tradizione poetica in cui da sempre dominava la profondità storica, sia come modello estetico che come memoria culturale della lingua italiana. Mentre l'illuminarsi nella cultura e nella letteratura italiana avveniva attraverso la profondità del sapere, della fede, della filosofia, la poesia ungarettiana vi aggiunge l'atemporalità di uno spazio, che come il deserto rende totale l'illuminazione dell'io lirico. Io spero di aver contribuito a questo seminario, grazie a tutti. (Applausi) Julio Monteiro Martins: Bene, ora passo la parola a Melita Richter. Melita Richter: Grazie, credo che dopo questo excursus così approfondito e articolato nella letteratura interculturale, sarà molto difficile che io aggiunga qualcosa di nuovo, però forse sposterò lo sguardo su altri territori. Non pensavo di strutturare la mia esposizione su di un filo conduttore unico, ma prendere su spunto da alcuni interventi precedenti, per cui magari direi subito quello che mi viene dalla relazione di Chiellino. Penso che a quelle categorie che hai esaminato, in particolare l'ultima - il flusso di ritorno - di cui hai sottolineato la difficoltà dell'affermarsi come autori al ritorno, si potrebbe aggiungere la categoria della presenza contemporanea sia all'estero che all'interno del paese di origine. Mentre formulo questa nuova categoria penso ad autori come Slavenka Drakulic che scrive in italiano, in francese, ma anche in croato, serbo, e partecipa al dibattito culturale. Un altro esempio è Dževad Karahasan, scrittore bosniaco che è fuggito proprio quando non si poteva più stare a Sarajevo, ed è diventato uno scrittore affermato a Gratz. Ora vive a Gratz e partecipa al dibattito culturale del suo paese di origini. A me capita di essere presente nelle riviste sociologiche - non si tratta di narrativa - a Zagabria e Belgrado: non solo ci vogliono doppie energie perché scrivere, esser presenti qua e seguire quello che sta succedendo lì nel tuo paese, ma comporta il tenersi aggiornato non solo scrivendo ma anche nel leggere il cambiamento. Tutti noi sbagliamo, abbiamo usato contaminazioni, ibridismi, métissages, però credo che questi sbagli partano da una posizione di fondo di cui parla Lévinas per cui chi arriva, l'immigrato, non è solo l'altro che deve cambiare, ma c'è tutta la società che deve cambiare. Quindi è un cammino contemporaneo. È sbagliato chiamarlo in altri termini, ma io lo vedo fisicamente questo camminare insieme. Ho letto da qualche parte un'altra espressione che mi è piaciuta, "le lingue si impollinano", cioè c'è questo leggero vento che parte da una e che porta all'altra e che porta sempre qualcosa di nuovo, non il vecchio modificato, ma qualcosa che potrebbe essere una sintesi. Quando guardo la letteratura interculturale, e non solo quella - perché io lavoro a Trieste e ci vivo, una città di confine, una città che ha difficoltà ad esprimere le nuove accoglienze perché si basa ancora su questo stereotipo della Trieste cosmopolita, multietnica, basata sulla presenza di Joyce, di Svevo, ma questo è così a livello storico, mente i nuovi tentativi di scrittura non vengono presi granchè in considerazione. Io li considero molto perché secondo me sono già segno di una letteratura interculturale matura, in cui si esprime la voglia di partecipare nella società che è la voglia di condivisione, che poi sotto un altro punto di vista è la presa di responsabilità, per cui io partecipo al discorso pubblico, la mia parola esce fuori dal silenzio, però esce non perché vuole affermare il narcisismo di chi parla o scrive, ma perché vuole partecipare, contribuire a quella società, anche cambiandola, quindi ci prendiamo la responsabilità insieme. Noto molta partecipazione, molti più testi, la macchia si è allargata, oltre a Trieste c'è la presenza dell'oltre confine, c'è la minoranza italiana che scrive, ci sono le presenze altrove, negli altri continenti, dell'America, dell'Australia, nella voglia di partecipare, di contribuire. Vorrei anche aggiungere che questo tentativo che non fa parte della letteratura ma entra nella scrittura e io ho il pudore di chiamare lo considero molto importante perché facciamo le cose insieme, italiani e immigrati. Tutto questo progetto nasce all'interno di un coordinamento delle comunità e delle associazioni degli immigrati della provincia di Trieste, quindi non un'associazione monoculturale, ma un circolo di quelli che poi mettono a confronto e danno lo spazio di scambio di tante diversità, tutte sempre condivise con gli italiani. Come abbiamo già accennato ieri, di solito l'immigrazione ci vede un po' in questa nicchia della società in cui il maggior peso è dato alla sfera del lavoro, mentre la sfera della spiritualità, dei luoghi di culto, delle attività culturali, non è presa in considerazione da nessuno. Ma la necessità c'è; entrare, prendersi da soli questo spazio dove la voce partecipa al dibattito pubblico, è il vero passo della cittadinanza. Io distinguo la cittadinanza normativa, quella che è necessaria per un riconoscimento della dignità della persona, quella con cui puoi votare, avere accesso come tutti gli altri a tutte le istituzioni e alla vita pubblica, però insisto sull'altra che consiste nel rendere la parola pubblica, nell'uscire dal silenzio, dall'invisibilità e partecipare anche con la parola scritta. Non divido tanto la parola orale da quella scritta, le vedo un tutt'uno, anche se poi in realtà quelli che scrivono sono molto pochi, ma la parola di chi prende parte ai dibattiti pubblici è sempre più presente. Possiamo inoltre estendere la questione al cinema, si diffondono a macchia d'olio festival cinematografici, incontri con i registi, film a tema, di genere, festival di donne registe che provengono da ogni paese, e tutto questo contribuisce a diffondere il messaggio della presenza dell'altro in questa società. La scrittura, la letteratura interculturale fa parte di questo cambiamento della società e il cambiamento è essenziale. Si potrebbero comunque fare delle distinzioni importanti storiche per quanto riguarda l'immigrazione. Ad esempio in Germania,negli anni 50 e 60, quando arrivavano immigrati si formavano le comunità etniche - presenti anche in altri paesi industrializzati dell'Europa nello stesso periodo - mentre le nuove società, le nuove immigrazioni, come la Spagna, l'Italia, la Grecia, che profilano un modello mediterraneo di immigrazione, presentano una società plurima, con voci non più legate alle varie comunità, ma un vasto ventaglio di presenze di tutto il mondo, non più legate a uno spazio territoriale preciso. Da notare inoltre la sempre più massiccia presenza delle donne, ed io ne sono molto contenta! Ecco, questo per me è un passo verso la cittadinanza, una ricerca della responsabilità e della condivisione, e forse anche per questo non ci viene data tanto facilmente ma ce la prendiamo da soli, però credo che la vera cittadinanza è quella, se poi voto è un altro discorso, ma io posso dire che la cittadinanza l'ho acquisita in quei tempi quando sono venuta, automaticamente, ma è un problema primario per gli immigrati. Quello che posso dire riguardo la presenza degli autori di provenienza balcanica, è che non ci sono molte voci, ma ci sono diversi stadi della loro presenza e della loro cultura nel dibattito che ho portato avanti e che poi esce su Sagarana, e non ho messo insieme autori solo dell'area balcanica, ma quelli che appartengono all'area più vasta del centro est europeo, e quindi una scrittrice polacca, una croata, qui presente, Vesna Stanic, una studiosa serba e uno scrittore poeta serbo-rumeno. Un discorso con loro quindi, che provengono da esperienze culturali simili, ma che si affermano in modo molto diverso, per me è stato molto stimolante vedere come rispondono a certe domande sull'uso della lingua. Abbiamo delle persone come Vesna che quando incontro parliamo un linguaggio misto, ma questa è la lingua della comunicazione, non è la lingua dello status. Lei pensa, scrive, pensa subito in italiano. C'è Barbara Serdakowsky, che visto il suo percorso di vita che si è svolto in vari ambienti culturali in varie parti del mondo, usa le lingue in modo paritario; può scrivere in italiano perché vive qua, ma se dovesse vivere altrove scriverebbe in altre lingue, ha scritto in inglese quando ha vissuto in Canada, in francese quando ha vissuto in Francia,in Marocco, conosce la sua lingua polacca che però è un po' più mutilata perché non l'ha mai vissuta. È molto interessante l'intreccio bi o plurilingue perché è la conferma che le culture non sono mai una cosa statica, la cultura ha il suo dinamismo, ma il vero dinamismo delle culture sono le persone che si spostano, che vivono, acquisiscono le nuove identità. Sarebbe assurdo pensare che uno che è nato in quel luogo, e ha cominciato a scrivere, debba essere condannato a scrivere in quella lingua, perché può scrivere in altre, se ne ha voglia, capacità, necessità - perché non è che si possa sempre scegliere. Naturalmente poi uno fa un bilancio nella propria vita, cioè cosa si perde, cosa si acquisisce, perché ogni spostamento non è una cosa da poco, non c'è solo il progetto della partenza o il progetto del futuro e le speranze. Si vede che per ogni obiettivo raggiunto c'è però qualcosa che si paga e questi bilanciamenti a volte ci portano fuori dal nostro asse di identità, perché non è più quel paese a cui io appartengo la mia asse di identità, ma c'è qualcos'altro. Posso leggere qualcosa? Prima Julio mi ha presentato come poetessa, ma per me è l'ultima cosa! Prima sono sociologa, e gli scritti poi che ho composto nel momento difficile del distacco dalla sociologia, che come voi sapete cerca l'oggettività, l'io non esiste, è una materia scientifica da cui uno si distanzia e la analizza, e la scrittura per me è un riappropriarsi del soggetto. Come per gli africani, succede anche a noi balcani che ti affibbiano una sfera, quasi uno stigma, che devi scrivere sui Balcani. Che cosa ci veniva richiesto? Non avevamo tanto il rischio della folclorizzazione, delle fiabe, questo mondo mitico, ma bisognava approfondire, scrivere sul conflitto, sulla guerra, sugli stupri. Molti hanno fatto importanti opere su questi temi, ma poi è molto difficile uscirne fuori perché c'è sempre poi la richiesta di ripercorrere quel filone e quel tuo modo di analizzare. Io non ho avuto difficoltà perché ho sempre scritto anche di altre cose, però ho cercato anche altre sfere tematiche, non sempre legate ai Balcani. E qui è entrata sicuramente la tematica dell'immigrazione, dell'emigrazione, dell'interculturalità. In uno di questi saggi di questo tipo, in cui lo sfondo è però l'esperienza personale, io immagino il mio incontro con Eva Hoffman, autrice di quel bellissimo libro Lost in Translation, tradotto in italiano, "Come si dice", e che parla della sua emigrazione dalla Polonia socialista, lei bambina di famiglia ebraica e buona promessa del piano. Racconta il suo ingresso nella società nordamericana, ed io non riuscivo a liberarmi nel pensare alla sua esperienza. Lo trovavo così simile alla mia anche se i suoi erano altri tempi e altri luoghi, che il mio testo è una conversazione con Eva. Io ho preso le sue frasi, ho immaginato una passeggiata a Budapest, un'area esterna a tutte e due però insieme comune, simbolica sia per l'appartenenza austrungarica, sia per me nel momento in cui scrivevo perché le nostre donne serbe e croate non riuscivano, avevano ostacoli nel trovarsi nelle città per tenere i loro convegni e allora Budapest è diventata un luogo di incontro per loro. La Polonia è il centro dell'universo. Non ho (avuto) nessuna possibilità di convincere questi adolescenti di Vancouver che la Polonia è il centro dell'universo e non un pezzo di terra grigia abitata da fantasmi. E' a me invece che toccherà imparare a vivere con la diplopia. Fino a questo momento la Polonia nella mia testa ha occupato un'area che coincideva con le dimensioni della realtà e tutti gli altri posti del globo li ho misurati in base alla loro distanza da quel paese. Rammento dalla tua scrittura che i tuoi compagni di classe, gli insegnanti, ti avevano chiesto come era vivere nel tuo paese, come era il comunismo. Racconta come successe quella prima volta. Il signor Jones (il professore) - un volto sensibile e gentile e i capelli a spazzola che sembrano di crine di cavallo (…) si rivolge a me e mi chiede di spiegare com'è il comunismo nella realtà. Nella realtà? Beh, non l'ho mai incrociato per strada… E comunque se devo dire la verità, in quel paese c'è vita, acqua, colore, e perfino la felicità. Sì, perfino la felicità. La gente vive la sua vita. Come fare a spiegarlo? Capisco che nella mente dei miei compagni di classe un paese comunista sia percepito come regno degli inferi in cui cittadini spettrali si trascinano sotto il giogo dell'oppressione. La semplice parola comunismo sembra farli rabbrividire, come un film dell'orrore, come qualcosa di sconosciuto e demonico. Forse che lì la gente non si trascina sotto il giogo dell'oppressione? Non c'è libertà laggiù! E invece sì che c'è, dico con veemenza per la frustrazione. Forse più che qui. La politica è una cosa, ma a che serve la libertà se tanto ci si comporta da conformisti e non si piange e non si ride quando si ha voglia? Il mio sfogo è accolto da occhiate di incomprensione più che di ostilità. Che razza di strane idee ha questa alunna straniera! Ah, sapessi quante volte è successo a me! Quelle occhiate le conosco bene, la pretesa di parlare e scrivere esattamente quanto loro si aspettano di sentirtelo dire. Quel buttar fango su un mondo di cui loro non vollero saper niente - lì, nel nuovo mondo per la distanza e per un dilagante maccartismo ormai sotterraneo, qui per il contrasto di due ideologie che si fronteggiavano da vicino. Qualsiasi cosa uscisse al di fuori dalla visione stereotipata della Jugoslavia, la vita stessa di cui io potevo testimoniare, per loro era ideologia. E noi affetti da diplopia a vivere con due centri spiazzati che rifiutano a convergere in un unica biografia, il vissuto che non si ricompone, non può ricomporsi. Noi che viviamo come se avessimo incorporato sotto la pelle un trasformatore per cambiare voltaggio e herz, come direbbe la mia ex concittadina Dubravka nello descrivere la commensurabile esperienza dell'esilio, probabilmente più vicina alla tua esperienza di vita che al mio spostarsi da Zagabria a Trieste. Lo sai che ne pensa lei, la Ugresic, dell'esilio? Che l'esilio è la storia delle cose che ci lasciamo alle spalle , un compra e vendi di asciugacapelli, piccole radio di quattro soldi, pentolini per il caffé… Che l'esilio significa cambiare voltaggio e herz, una vita con il trasformatore, altrimenti ci bruceremmo. Che l'esilio è la storia dei nostri appartamenti presi in affitto temporaneamente, delle prime mattinate solitarie, durante le quali stendiamo la piantina della città, vi cerchiamo il nome della nostra via, disegniamo un cerchietto a matita. Queste piccole cose, salde circostanze, i timbri nel passaporto, si accumulano e a un tratto si trasformano in linee illeggibili. Soltanto allora descrivono con precisione l'incommensurabile esperienza dell'esilio. Sì, l'esilio è come un incubo. Di colpo nella realtà, proprio come in sogno, ci appaiono alcune facce che avevamo dimenticato, che forse non avevamo mai incontrato, ma ci sembra di conoscerle da sempre, ci appaiono alcuni spazi che di sicuro vediamo per la prima volta, ma ci sembra di esserci già stati…" Per gli emigrati spesso è così. Il tempo fa il suo, anche noi cambiamo, i nostri assi portanti svaniscono. Credo che lo spiazzamento sia proprio questo; sono stata deportata dal mio personale centro dell'universo e quel mondo è stato allontanato dal mio centro. Non è più un solido asse cui ancorare la mia immaginazione, che comincia ad oscillare e io le ruoto intorno incespicando. In questo oscillare, sbiadiscono anche i nostri spazi e i nostri tempi. I paesaggi nei quali incespicano le vite di immigranti diventano altri, ma rappresentano sempre anche la scoperta, sono segni della nuova nascita. Ecco, questo modo di dialogare con una che ha vissuto quest'esperienza dello smottamento dell'identità, mi è stato così vicino che ho deciso di andare avanti, per cui continuerò questi dialoghi, o con lei o con altri, però c'è qualcosa che distingue noi che apparteniamo all'area dell'ex Jugoslavia e che sicuramente è diverso da quella frattura che sente ogni immigrato, quella frattura del luogo e del tempo, del prima e dopo. Ecco, a me questa frattura del prima e dopo non è avvenuta quando mi sono spostata a Trieste - e dico spostata più che immigrata perché trovo una vicinanza tra le due città - quindi non mi è successo quando sono realmente venuta in Italia, ma quando è successo che è mancato il mio paese, per cui il mio prima e dopo è legato all'esperienza della perdita del non solo punto di riferimento, ma del paese, un paese che non identifico con il regime di quel paese ma con un'ampia, vasta e complessa area culturale alla quale io tutt'ora appartengo. Parlo di radici nel senso di quello che ti ha formato, come potenzialità, che vengono cancellate d'improvviso. Per questo molti miei scritti che ho composto all'inizio erano semplicemente - naturalmente lo vedo ora - la voglia di trasmettere queste voci dall'interno, per cui io traducevo moltissimo, traducevo gli autori in italiano e la loro posizione in quel momento che non veniva presa in considerazione dai mass media durante la guerra. Io riprendo le loro voci perché ritengo che sia importante che anche un cittadino italiano, che viene bombardato dai mass media, dalla televisione, dalle stragi che trasmettono i telegiornali, possa avere la consapevolezza che non è solo il mondo che è sconvolto, ma che è sconvolto il pensiero libero all'interno di quei paesi. I miei primi scritti infatti risentivano di quello che uno sente forse quando va a vivere altrove, di rendere conto, di dire, siamo diversi da come ci descrivono, non siamo tutti così unificati come ci vorrebbero presentare, e per era importante fare questo tipo di lavoro, anche per loro, per far andare la loro voce oltre i confini nazionali. Questo è il passaggio dalla sociologia a un'altra presa di posizione ma sempre legata all'area da cui provengo, come dicevo prima. E così sono nati anche altri libri che ho curato, di traduzioni da voci dell'interno, pensavo che fosse naturale fare questo tipo di lavoro, perché è triste dirlo ma la cultura dei Balcani, soprattutto dell'ex Jugoslavia, la conoscete grazie alla guerra. Se non ci fosse stato il conflitto penso che gli occhi puntati su chi scrive sarebbero molti meno. Scusate se vi ho parlato molto di me, ma era forse necessario per capire da dove provengo anche se il mio ambito non è proprio quello letterario, tornando agli autori, vorrei citare Bozidar Stanisic' che ha partecipato di uno dei Seminari ed è stato pubblicato dalla Sagarana, ed è uno scrittore che vive vicino a me in Friuli, molto bravo, scrive sulla sua esperienza a Sarajevo che segna la sua scrittura ma riporta tutta la complessità della società e lo raccomando a tutti, ed è anche un poeta che porta in sé quella narrazione bosniaca, la nostra cifra, una narrazione lunga, articolata, lenta… poi c'è Vesna Stanic' che ha scritto il romanzo autobiografico - L'isola di pietra - secondo me molto importante, ma che è molto particolare perché scrive in italiano, vive qua, ma quello che ha scritto fa luce sugli anni 50 a Zagabria, quindi quello che ha scritto parla dell'esperienza della sua famiglia, è una sua lettura di quel periodo storico di cui si sapeva e si sa ben poco, dato che il regime era molto forte e addirittura gli intellettuali venivano messi a tacere nel carcere di Goliotoc o Isola Calva. Quello di Vesna è sì un testo autobiografico, ma è anche universale perché è una ribellione, lo sdegno di una persona a cui viene tolto il padre e quest'assenza non è solo il lutto che Vesna elabora, ma è anche un'assenza ingiustificata. Inoltre credo che non ci sia nessun'altra donna che ha scritto di quel periodo. Però non c'entra l'Italia, lei avrebbe potuto scriverlo anche in Germania, in Svezia, è quello che doveva comunque uscire da lei, e l'importante è che l'abbia scritto in un italiano veramente bello! Gli altri autori con chi ho sviluppato il discorso della lingua, della scrittura, sono Butkovan, Maria Mitrovic…ecco, lei non è scrittrice, è una studiosa, insegna lingua serbo-croata all'università di Trieste ed è molto interessante il suo avvicinamento graduale alla lingua. Lei conosce l'italiano ma non ritiene di dominarlo ancora abbastanza da poter scrivere in italiano, cioè lei trova che scrivere sia una grande responsabilità, e all'interno di questa responsabilità ci deve essere la conoscenza della cultura, delle opere letterarie del paese di arrivo e quindi la scrittura in quella lingua avviene dopo questo lento appropriarsi della conoscenza. Ha ancora questo distacco, perché quotidianamente usa il serbo-croato, all'università e in famiglia, e quindi il suo avvicinamento è lento. Torno a parlare di Predrag Matvejevic', che scrive sia in francese che in croato e meno in italiano, di solito le sue opere sono tradotte. Nomino lui perché rientra in quella sfera importante dove uno straniero, non è solo scrittore ma intellettuale a trecentosessanta gradi, partecipa al dibattito pubblico,è critico verso la società in cui vive e verso l'altra, e prende questa sua criticità e la trasferisce nei suoi scritti. La terra da cui proviene non è solo fonte d'ispirazione perché già lì in Bosnia lui si occupava di altre sfere, ha sempre avuto un atteggiamento più mediterraneo, quindi non potrebbe essere mai classificato come scrittore bosniaco o serbo, è molto difficile dirlo per uno che porta in sé un'identità così multipla. Vorrei sottolineare l'importanza che lui, straniero, scrive su tutte le società, tocca temi nazionali - ha scritto un libro che si chiama Altra Venezia - non è solo un emigrato che si sposta con il suo bagaglio culturale, ma questo bagaglio culturale lo mette in correlazione con la società dove vive portando un altro sguardo. L'ultima persona che vi segnalo è Kenka Lekovic', di cui vi leggo un brano: D'accordo, ci sto. Picia mia, devi starci nelle cose se le vuoi rivoluzionare, nella cacca devi farti scarabeo, nella melma sbocciarti fior di loto. Se vuoi la pace fatti pace, se la convivenza è un concetto che ti piace, conviviti tu per prima. Negoziati, fatti una Dayton in vena e mettile d'accordo, se sei brava, mettile d'accordo le tue cacofonie microcosmiche. Che tutto il resto è salotto. O così o il tè delle 5 con Max e Tony. […] No, non sono gli omosessuali, dici. Non ti piace il tè, e neanche i pasticcini ti piacciono. E da quando? Da quando al posto di Demel, a Vienna, li fa McDonald's in Kosovo. E allora, se non ti piacciono i pasticcini di Slobo McDonald's, impàstati la vita da sola, faglielo vedere cosa sei capace di produrre nel tuo forno a microcosmi. Voglio proprio assaggiarle queste tue tortine subatomiche, questa musica delle basse sfere. Voglio proprio sentirlo questo concerto. Ma se mi fracassi i timpani ti denuncio, giuro che ti denuncio. Ti faccio fare un giro all'Aia, così impari. Impari a infornarti, a stuprarti, a massacrarti da sola. Ma non ti vedi? Sei tutta un autoprocesso, un'autoistruttoria, un autogiudizio permanente: e non potevo avere una testa più quadrata, e non era meglio se mia mamma era inglese così mi bevevo il tè con Max e Tony e no problems, nema problema; e mio padre non poteva essere viennese, i viennesi sono così sensibili, sono dei veri snob dello spirito. Degli Old Age che l'America se li sogna. A quest'ora potevo essere una Old Age, e non una New, visto che i pacifisti oggi - e io sono una pacifista, pare - sono o picchiati in testa o santoni. E invece no, mia mamma s'ciava che più s'ciava no se pol, mio papà ungaro-finnico, praticamente eschimese, ma è come dire albanese; e io in Balcania dovevo nascere, in quella polveriera del Cristo, del Pope, dell'Insciallah. In Balcania, a farmi menar l'Ar-can per l'Aia e questo Ar-can chi lo conosce, l'hai visto tu, perché in India forse tutti si chiamano Gandhi e in Siberia Stalin? E a Bonn tutti Hitler si chiamano, eh? Cosa vuol dire che il sangue no xe acqua, e te credo, xe acquavita, in Balcania il sangue la gente se lo beve, se lo tracanna, il suo e quello del prossimo. Acquavita e, se te va ben, tocio per polenta, se ti è andata bene e sei nato istriano il sangue ti è sugo per polenta, W l'Istria, W il Duce, che co ierimo soto de lui ierimo signori. Botti piene e mogli sazie gavevimo, cavra e cavoli, prima che vegni quei altri e ne snazionalizzi tuto, fin el bus dei popi. Popi, popi, popi. Ma lo sai che popi in s'ciavo vol dir bevi. Per forza, i ga la testa al posto del cul e co i bevi ghe va tuto là. E no cambiar le carte in tavola, picia, te gò za dito: s'ciava dura te son e s'ciava dura te resti. Rassegnati. Assegnati un target. E va' con dio. Perché, no xe bel? No xe bel cossa? I s'ciavi. Dostoievski, Tolstoi, non è bello nascere slavi, Tomizza non si batteva forse il petto - alla slava - per averci l'anima slava pure lui? Cuore di tricolore e casin slavo intei budei. Sul "Piccolo" i gà dito che a Tomizza co ghe bruligava el stomigo el ghe bruligava in s'ciavo: Trst, Krš, Krško e Krk. Miga Veglia, isola benedeta. A Tomizza, col gaveva fame, el stomigo ghe faceva Trst, Krš, Krško e Krk. Kvarner, el brontolava, e no: Carnaro, Lovran, no: Laurana, Oprtalj el mugugnava, miga Portole d'Istria benedetta, che dio ghe mandi. Persuto, Tudjman e teran. Giusto teran se podeva butar zo in do lingue senza finir in ospedal o in foiba. Per forza, in Vino Veritas, se sai cosa vuol dire. Ma voi s'ciavi no studiè ste robe, grego, latin, voi studiè per arti marziali. È o non è così? Questo è un esempio di scrittura giovane, una cascata di parole, uno scroscio di presenze non classificabili. Lei è di Fiume, vive a Trieste dal 96, ha scritto un romanzo, ha vinto un premio a Gratz ed è diventata scrittrice i Gratz. Qui si sente il passaggio dei confini, la consapevolezza, la conoscenza delle due lingue , ma anche dei dialetti, il dialetto fiumano, il triestino, le parole inglesi…e poi le tematiche: lei scrive di altro, di ora, ma si vede questa presenza sua, le origini, le fonti. E a me piace questa scrittura perché non è classificabile perché significa oltrepassare i confini, si porta dietro una sintesi di quello che è, di quello che si lascia dietro, ma ha in sé anche il segno delle nuove presenze. Grazie. (Applausi) Julio Monteiro Martins: Bene, ora passiamo A Vesna Stanic'. Vesna Stanic': Dopo questi due interventi mi sento un po' bloccata. Io volevo soltanto dire che io in qualche modo seguo il flusso di ritorno dei miei avi perché i miei avi, bisnonni, erano italiani. E forse casualmente, o forse no, sono capitata in Italia, in una forse subconscia ricerca. E siccome Melita ha già accennato al mio libro, io sentivo, senza farmi troppe domande ho sentito l'esigenza di scriverlo in italiano, perché quando sono arrivata qui la lingua italiana ha preso il dominio. Sentivo il bisogno di integrazione veloce, per cui mi sono buttata a leggere in italiano, ho vissuto a Roma, in Sicilia e ho accumulato vari suoni e dialetti. Però avevo bisogno di scrivere qualcosa che riguardasse il mio paese d'origine, in italiano. In questo racconto parlo di una donna che lascia il proprio paese in guerra, e per una donna laureata in chimica, come altre donne, è difficile trovarsi a dover fare un lavoro che è molto diverso da quello che sanno fare. La protagonista del racconto trova lavoro come badante. Ora vi leggo il racconto e spero di non annoiarvi… devo solo fare una premessa: è una donna che un giornalista, amico della signora dove lavora, vorrebbe intervistare, perché pensa che lei potrebbe raccontare qualcosa di rappresentativo di una categoria, ma lei non vede cosa ci sia di tanto particolare da raccontare perché pensa che tante persone come lei hanno vissuto delle disgrazie. LA BADANTE Nel pomeriggio dovrò incontrare quel giornalista che da tempo vorrebbe farmi delle domande. Ma quali domande, dico io. Lui è un amico della signora presso la quale presto servizio e ha pensato che la mia storia potesse essere interessante. Per chi? Chiedo stupita e mi dileguo ogni qualvolta lo vedo arrivare. Oggi mi sono arresa. Che chieda quel che vuole, presto si stuferà e mi lascerà in pace. Mi chiamo Jagoda. Per me è un bel nome se cerco di non tradurlo poiché qui in Italia non capiscono come una donna possa chiamarsi Fragola! Figuriamoci, ho una cugina di nome Visciola. Da noi sono nomi consueti. Sarà che siamo attaccati alla natura in modo caparbio e sentimentale, eppure ci viene distrutta davanti agli occhi, giornalmente, pezzo per pezzo. Dimenticavo: da "noi" vuol dire Croazia, nonostante io sia nata in un paese denominato Jugoslavia. Già, cambiano gli stati, le frontiere, la cittadinanza, anche se non ci si muove dal proprio villaggio. Il giornalista vorrebbe sapere la mia storia. Dio buono! Ce ne sono a migliaia di storie come la mia e, penso, molto più complicate della mia. Cosa potrò mai raccontare io? Del paese dove sono nata a nessuno interessa più di tanto. Mentre la guerra impazzava avevamo le telecamere puntate addosso ed era soltanto il sangue ad eccitare gli animi. Gli scontri armati sono finiti, la gente ha smesso di sgozzare altra gente ed è tornato l'oblio. D'altronde, vi sono così tante guerre nel mondo che non si possono seguire tutte. Il nostro cuore si spezzerebbe. Abbiamo la capacità di sopportare un dolore per volta e la distanza ci aiuta, aiuta a distogliere lo sguardo. Va bene. Racconterò ciò che mi è accaduto anche se non so da dove iniziare. Forse bisognerebbe partire dai miei primi vagiti, insignificanti per gli altri, importanti unicamente per i miei genitori e per me. Mia madre è morta durante i bombardamenti iniziali, di crepacuore, dopo che una pallottola vagante, sparata da un kalashnikov, ha colpito mio padre dritto in fronte. Per loro nulla ha più importanza. Io, sinceramente, ho preso atto di essere al mondo all'età di cinque anni, dunque da trentacinque vivo chiedendomi alternamente perché. Nemmeno i miei interrogativi esistenziali dovrebbero suscitare l'interesse altrui. Sono nata nella città di Vukovar, piccola e graziosa, adagiata sul fiume più maestoso d'Europa, il Danubio. Ricordo le corse sotto i portici, i giochi nei cortili, i vicini di casa e le varie lingue che echeggiavano nelle vie. Oltre a noi croati, c'erano serbi, ungheresi, cechi, slovacchi, bielorussi, tedeschi e altri di cui non rammento il nome. D'estate si passeggiava lungo la sponda del fiume, anzi dei due fiumi, visto che la città è costruita sulla foce del Vuka, un affluente del Danubio. Lì, tra le corse nei prati, camminando nell'erba alta e profumata provai il primo batticuore per un ragazzo poco più grande di me. Era bruno come uno tzigano, si atteggiava a uomo adulto e mi fissava a lungo senza proferir parola. Sentivo la sua voce già da lontano e un malessere lieve e dolce mi toglieva il fiato. Cielo, vorrei sentire ancora emozioni simili. A dodici anni compiuti avvenne il trasferimento. Mio padre, essendo medico, fu assegnato all'Unità ospedaliera di Osijek, il capoluogo della Slavonia. Ci trovai un altro fiume, la Drava, affluente del Danubio, e il cambiamento non mi fu di particolare peso. Perché menzionare questi dettagli insignificanti? Perché la cittadina di Vukovar, così come l'ho vissuta, non esiste più. L'hanno rasa al suolo, hanno disperso le sue genti che come me si trovano sparse nel mondo. L'odore del fiume non è più lo stesso, i cortili sono stati divelti, i portici bucati dalle granate hanno tutto l'aspetto di un groviera, ma, il peggio è l'animo smarrito. Le case si stanno ricostruendo, il fiume dimenticherà ciò che ha visto, ma le persone cosa faranno? Porteranno le visioni dentro di sé, ovunque andranno. Ecco, non volevo parlare di guerra, eppure lo faccio. Nulla mi potrà liberare dai ricordi? Ho vissuto molti avvenimenti attraverso gli occhi degli altri, che però erano anche miei. Mio cugino Damir ha visto un uomo fluttuare nel fiume trafitto da una coltellata, ha visto sangue dappertutto prima di fuggire dal suo villaggio. Quando arrivò da noi a Zagabria non lo riconobbi. Aveva perso quindici chili in pochi mesi e non riuscì mai più a dormire. Di notte si svegliava gridando, oppure cantando a squarciagola, così che fummo costretti a portarlo in un ospedale psichiatrico. Da allora entra ed esce a intervalli regolari. Siamo in tempi di pace adesso, anche se lui non ne è molto convinto. Vorrebbe tornare a perlustrare il fiume per ritrovare i genitori. Negli ultimi tempi, mi dicono, si è calmato. Non parla più di morti ammazzati, d'altronde la gente non ne vuole più sentire di tragedie, deve vivere e sbarcare il lunario. Talvolta canta ancora, con tutto il fiato, le nenie della sua terra, però lo fa di giorno e non disturba nessuno. Quando viveva a Osijek ero felice. Una città con a fianco un suo fiume, dei boschi e la pianura come un mare giallo ci rendeva sereni. Poi fu necessario un nuovo trasferimento che mio padre decise per me. A Zagabria avrei potuto frequentare l'Università di chimica e fisica. Questo mi allontanava dallo studio della musica che avrei voluto intraprendere, ma mio padre e mia madre, decisamente preoccupati per il mio vagare nei campi, ascoltando gli uccelli cantare, fissando il cielo o osservando i pioppi dondolarsi al vento, decisero che uno studio concreto e pratico mi avrebbe riportato alla realtà. Abitavamo in centro, lontano dal fiume e non ne ero entusiasta. Gli studi, in ogni modo, li ho terminarti con buoni voti, così come volevano i miei genitori, sempre più tristi nella città ingolfata di traffico. Avevo trovato lavoro in una ditta che produceva concimi e mi consolavo che anche se poco poetico, serviva alla miglior crescita di frutta e verdura e sarebbe stato il mio contributo alla natura. Percepivo un buon stipendio, a non considerare l'inflazione galoppante che affliggeva lo Stato in serie difficoltà. Si entrava nei negozi sperando di trovare i prezzi del giorno precedente e a volte era opportuno arrivare di mattina perché nel pomeriggio erano di nuovo maggiorati. Comunque, ci si abitua a tutto. Non volevo menzionare la guerra. Nessuno desiderava che accadesse, eppure da un giorno all'altro ci trovammo nel turbine degli eventi. Vukovar, la mia città natale, fu tra le prime a conoscere il potere distruttivo delle granate. Gli zii che rimasero fino all'ultimo difendendo la propria terra e la casa sparirono, come se la terra stessa o il fiume li avessero inghiottiti. Alcuni cugini ripararono in Istria dove trovarono un pezzo di campo e lì piantarono il grano. Qualcuno disse loro che sarebbe stato meglio dedicarsi alla vite, il terreno era adatto, ma rifiutarono. Il grano ricordava la Slavonia e credo che siano ancora lì. La nostra casa è stata bruciata e non è rimasto niente da salvare. Da anni serviva esclusivamente come casa di vacanza, però rappresentava il nostro unico bene, ora perduto per sempre. A Zagabria eravamo in affitto. L'impiego lo persi dopo la chiusura della ditta. I campi erano minati, il concime non serviva. I miei genitori se ne andarono a miglior vita, si dice così? La gente, quella rimasta in città, vagava senza lavoro aspettando gli sviluppi della guerra. Il mondo taceva e ha taciuto a lungo. Che si scannino a vicenda, dicevano. Poi, in qualche modo, hanno capito. Gli eventi sono noti. Ecco, alla fine ha vinto il desiderio di fermarsi, di smettere con la follia dei massacri. Era rimasta una grande stanchezza che come la nebbia ha avvolto tutti. Un'amica che vive a Roma mi ha invitata a passare un po' di tempo da lei. Ed eccomi qua ormai da nove anni. Mi ha trovato lavoro come badante presso una signora anziana, vispa e simpatica. Come mi trovo? L'impegno sarebbe sopportabile, se non dovessi essere a disposizione notte e giorno, sempre con il sorriso sulle labbra. Nemmeno la propria madre si regge all'infinito. Non posso impiegarmi come chimico, dovrei dare un mare di altri esami e non ne ho il tempo. Mi piace l'Italia? Certo che mi piace. Mia madre credeva che qui tutti cantassero, suonassero la chitarra e mangiassero solo spaghetti. Colpa di Rossellini, di de Sica. Avrebbe voluto vedere la Cappella Sistina e molte altre opere d'arte. Diceva che siete un popolo pieno di vita, sempre allegro e spensierato. D'altronde tutti hanno bisogno di pensare a un paese ideale. Io dico che ci sarebbero molte cose da migliorare, aggiustare, cambiare. Lo dico poiché ci vivo e ogni giorno mi imbatto nei problemi. Lo sa che la nipote della mia signora non può vivere da sola e sostenere tutti i costi? Dovrà venire a stare dalla nonna e alla fine saremo in tre in questa piccola casa. Io non mi lamento, ho vitto e alloggio e anche un piccolo compenso, ma quando la sera provo a leggere un libro gli occhi mi si chiudono dopo le prime righe. Già, ma chi ha detto che una badante debba anche leggere? Mi scusi l'amarezza, non è responsabile delle fatiche altrui. L'anno scorso ho conosciuto un uomo interessante. Ci incontravamo una volta a settimana, di mercoledì. Dopo un mese e quattro incontri mi ha detto: "Non ti posso conoscere bene in questo modo e non ti posso sposare non conoscendoti. Non ho neanche intenzione di aspettare un anno per riuscire a vederti circa quarantotto volte". Diamine, mi sembrava più un matematico che un corteggiatore, comunque, cerco di capirlo e non gli serbo rancore. Il fatto è che mi sento sola. Gli amici hanno i loro affetti e le loro beghe, non capiscono del tutto i tuoi affanni. Adesso questa città è la mia, ho imparato bene la lingua, mi muovo come a casa, ma non sono a casa. Non so cosa mi manca veramente. Già, come va nel mio paese? Va meglio direi, si costruisce, la voglia di migliorare è forte. Ogni anno torno in patria, per guardare, annusare, ritrovare gli antichi odori e suoni. In parte li ritrovo e allora mi sembra di sentire un benessere che solo l'innocenza, o meglio, la spontaneità dell'infanzia può dare. In altri momenti cerco inutilmente dei fantasmi che mi sfuggono, dei folletti che hanno popolato le mie fantasie, hanno ballato per me quando ero bambina, hanno riso insieme a me. Cos'è la terra d'origine? Siamo noi che la portiamo a spasso come una valigia da aprire di tanto in tanto? Non lo so. Ecco, questo è tutto e non mi sembra che sia particolarmente interessante per gli altri. Vorrebbe offrirmi un gelato? Va bene, sono libera tutto il giovedì e il venerdì mattina. Julio Monteiro Martins: Grazie Vesna. Bene, siccome è già l'una e mezzo, direi di andare a pranzo e oggi alle 15, 30 riprendiamo il nostro dibattito, d'accordo? A più tardi.
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