Mercoledì 14 luglio h. 15,30 – 2° giorno
Julio Monteiro Martins:
Gli incontri di questo pomeriggio prevede gli interventi di Sandra Ponzanesi e Vesna Stanic’, una scrittrice croata che ha avuto un incidente proprio quando veniva dalla Croazia a prendere l’aereo per l’Italia, si è rotta le gambe, una costola… ho parlato con lei per telefono ieri e anche all’ora di pranzo e ho deciso con lei di leggere un suo brano, una sorta di testimonianza molto bella del suo rapporto con la nuova lingua, che leggerò per voi, e cercherò di sostituirla un po’. Ho portato alcuni brani che mi erano sembrati opportuni, alcuni miei, ma soprattutto brani di altri autori per proporre una riflessione per i dibattiti di questo pomeriggio.
Io vorrei prima di tutto presentare Sandra Ponzanesi, a cui lascerò la parola, e dopo il suo intervento leggerò il brano di Vesna Stanic’. Allora, Sandra Ponzanesi, marchigiana, ha studiato a Bologna, in Inghilterra, letteratura inglese. Poi si è sviluppato l’interesse per la letteratura del Commonwealth, e in particolare la letteratura di viaggio come risposta alla letteratura della conquista coloniale, in particolare l’opera di Naipaul, che ha vinto il premio Nobel due anni fa. Poi si è trasferita in Olanda nel ’93 dove si è sviluppato il suo interesse per la letteratura femminile post-coloniale. Da lì è nata la necessità di scoprire l’esistenza, o la non esistenza se è il caso, di un filone post-coloniale italiano, da cui è iniziato il lavoro di comparazione tra le scrittrici della diaspora indiana e le scrittrici di lingua italiana provenienti dal Corno d’Africa. Da questo dottorato di ricerca è nato un suo libro che si chiama “Paradoxes of Post-Colonial Culture – Contemporary Women Writing Indian and Afro-Italian Diaspora ”. Ora lascio la parola a Sandra.
Sandra Ponzanesi:
Ok. Grazie per essere rimasti. Abbiamo avuto un pranzo succulento per cui sarete stanchi! Sono molto onorata di essere stata invitata, non mi presento come accademica perché sono in mezzo a degli scrittori e so che i critici letterari vengono visti come dei parassiti che devono giustificare il loro lavoro. Sono sempre stata appassionata dalla questione del movimento nello spazio, nello spazio della mente, quindi alla letteratura, e la letteratura di viaggio è stato sempre un momento di fascinazione molto forte, sia per motivi di espatrio, sia di colonizzazione che decolonizzazione, ma che sono venuti dopo. Quello che mi interessava è il processo di transnazionalità del viaggio come forma di esplorazione del sé, l’andare a fondo di questa ricerca interiore. Con Naipaul le questioni erano estremamente complesse perché si tratta di uno scrittore di origini indiane, cresciuto a Trinidad, nei Carabi, colonizzazione inglese, per cui questo senso di non appartenenza alla cultura dominante in cui è avvenuta la sua formazione, la questione della periferia, del centro, la sua opera teorica al riguardo si chiama infatti “Finding the center”, il suo bisogno di abbandonare la periferia, la marginalità e diventare insomma centrale. Nonostante fossi sempre stata grande fautrice del suo stile letterario, delle sue ripetizioni corrosive che solo un indiano si può permettere, rimaneva la questione dell’angoscia, questa sua ansietà di voler essere ammesso in qualcosa che lo respingeva, che fosse l’India, che fossero i Carabi, che fosse l’Inghilterra. A un certo punto mi chiesi che cosa dicono gli indiani del loro paese, persone che non hanno questo senso di dislocazione, come Naipual, scrittori che vengono dall’India, e in particolare donne che vengono dall’India, perché c’è tutta una tradizione di scrittori maschili che vede il viaggio come conquista ed è sempre stato un tema dominante maschile, e poi la questione della letteratura coloniale in genere è sempre stata un’opera di conquista maschile. In questo filone di scrittrici indiane della diaspora, che sembravano poco conosciute o minoritarie, che allora erano poco conosciute mentre oggi sono famosissime – non se conoscete Sara Superi, Bhdrati Mukherjee, Sunetra Gupta, Meena Alexander, insomma grandi autrici – che trattavano del loro rapporto con la diaspora, con la migrazione, con il viaggio, con la questione della periferia al centro, ma soprattutto col fenomeno dell’urbanizzazione e cosa significa in quanto donna venire inserita in un contesto urbano diverso. In questa letteratura della diaspora indiana che come sapete è ricchissima, immensa e ora è altamente pubblicizzata, con Arundhati Roj ma anche altre stelle internazionali, non sembra accettare cosa rimaneva di marginale, cosa rimaneva in periferia perché anche se la letteratura post-coloniale sembrava un discorso periferico rispetto alla letteratura inglese, anche la letteratura coloniale aveva una forma di colonizzazione interna che era rispetto ad altre lingue che non erano l’inglese, dato che la risposta dell’India all’impero britannico dominava non solo a livello letterario ma anche regionale. Minore, o quasi assente era la risposta dell’Africa, se non per il sostegno case editrici speciali come la Longman, e in particolare il caso dei Carabi. Cosa mancava, apparte il caso della Francia che aveva un grandissimo impero coloniale per cui ha avuto un flusso di ritorno nella letteratura? Mancava completamente la risposta – se volevamo intendere la letteratura post-coloniale come una letteratura proveniente dai paesi che avevano esercitato un dominio nella lingua dei dominatori – mancavano completamente il Portogallo, l’Italia, l’Olanda, il Belgio e anche la Germania. Ed essendo io italiana e ricercando sempre le mie radici all’estero perché ormai ero diventata migrante anch’io, dovevo scrivere in inglese e manipolare una lingua che non era mia, dimenticare l’italiano, cominciai a chiedermi dov’era l’aspetto coloniale italiano, perché non se ne era mai parlato sui libri di scuola, anche per cercare di capire, prima di cercare una letteratura post-coloniale, se c’erano degli autori provenienti dalle colonie italiane e cos’era stato il colonialismo italiano. Ed è stato un po’ un lavoro archeologico, andare a cercare sui libri di storia, a partire da Del Bocca che è stato uno dei pochi che ha creato questa mappatura molto complessa, per riuscire a capire tutta quella storia sommersa qual è quella italiana, una storia abbastanza importante soprattutto per l’impatto con l’Eritrea a partire dal 1880 fino al 1940, un periodo molto lungo, che si presenta con caratteristiche diversissime dal colonialismo francese o inglese non avendo avuto quello spirito colonizzatore a livello di istituzione, scolarizzazione, addirittura la scolarizzazione è stata impedita oltre il quinto livello e questo perché in Italia sotto il fascismo non si studiava oltre il quinto livello. È uno dei tanti motivi per cui la lingua italiana non ha mai attecchito profondamente in queste zone – e Gabriella Ghermandi potrà confermarlo. In Eritrea i giovani l’hanno dimenticato anche perché con la dittatura è stato proibito il rapporto con l’Italia. Per cui quei pochi scrittori che ci sono stati, sono venuti in Italia al momento della decolonizzazione negli anni Sessanta e di sicuro non per una coscienza post-coloniale, e non avendo la ricchezza e la proprietà della lingua italiana. Le scrittrici che ho trovato, che sono poche e che forse voi conoscerete, tra cui Erminia dell’Oro, italiana cresciuta in Eritrea che fa un po’ da ponte tra la sua esperienza di ebrea cresciuta in Eritrea ai tempi del colonialismo italiano e che ha fatto passare quasi 50 anni prima di parlare della sua esperienza, creando una sorta di sensibilizzazione da parte del suo punto di vista. Altre scrittrici sono Maria Virengo che ha pubblicato solo un brevissimo racconto su “Linea d’Ombra” nel 1992, che era un tentativo di autobiografia della sua infanzia in Etiopia con la madre oromo e il padre piemontese e che è stata costretta a un certo punto a optare per l’Italia dimenticando così la lingua madre e a distanza di tempo cerca di ricostruire il suo passato, il suo vissuto e anche la presenza coloniale degli italiani con un certo distacco. E autrici come Ribka Sibhatu, che viene dall’Eritrea, ha vissuto la lotta d’indipendenza dell’Eritrea dall’Etiopia in primo piano, trent’anni di guerra, che decide di migrare in Etiopia, poi in Francia, poi a Roma, e scrive “Aulò”, un testo a fronte in italiano e in tigrino decidendo di autotradursi, di non lasciare la traduzione ad altri ma scrivendo un testo che fosse sia per italiani ma anche per la sua comunità lasciata in patria. Quindi un’autrice che si collega a questa letteratura post-coloniale fino a un certo punto. Poi abbiamo ancora Nassera Chohra, che ha scritto il libro “Volevo diventare bianca”, ritirato dalla pubblicazione e che narra la questione dell’immigrazione in Italia indiretta attraverso la Francia. Altre storie a livello di saggio sono state scritte da Sirad Hassan che viene dalla Somalia, però lei è una psicologa dello sviluppo infantile e si occupa di storie di donne emigrate dalla Somalia e che raccontano la loro esperienza dell’infibulazione – sono aspetti scottanti che spesso vengono lasciati in disparte e che spesso i teorici, soprattutto le teoriche femministe, non sanno mai come affrontare, perché c’è il problema o dell’accusa o del rispetto per i valori locali, anziché cercare di dare voce o parole a chi sa, a chi vive dal di dentro la questione e vuole comunicarla a modo proprio. Tutto questo quadro della letteratura post-coloniale, come io l’ho definita, all’interno italiano, è servito non solo per visualizzare questo nuovo filone di immigrati, ma cercare di porre a livello internazionale le esperienze femminili della diaspora- che siano poi legate alla questione della colonizzazione italiana o inglese, è comunque un’esperienza unita dal concetto di espatrio,di migrazione, e di arrivo in una terra che ti deve accogliere, che ti impone una lingua, e come viene vista la scrittura. Nei discorsi femminili la scrittura delle donne è sempre stata vista come una forma di memoria, di autobiografia, di confronto personale, una difesa più dello spazio privato che non un tentativo di raggiungere un profilo pubblico, o la professionalità in qualità di scrittrice. Questo ha creato il paradosso che tanta letteratura della migrazione, per lo meno in Italia, sia più femminile che maschile, cosa che non corrisponde a paesi come l’Inghilterra o la Francia, un po’ anche perché la questione del Corno d’Africa è molto specifica, ci sono molte lotte interne che hanno portato molte donne a emigrare lasciando i loro mariti al fronte praticamente per poi sperare in una riunione futura. Questo fa sì che la presenza di donne dell’Eritrea, della Somalia e dell’Etiopia in Italia sia in percentuale altissima rispetto ad altre comunità come il Marocco, la Tunisia. Questo approccio alla letteratura post-coloniale – e poi possiamo avere un dibattito se secondo voi si può definire post-coloniale o no, cos’è post-coloniale – ha sempre costituito per me un tentativo di sbloccare questo rapporto interno nazionale, la letteratura italiana, la letteratura della migrazione, come sono separate, un po’ come minoritaria, un rapporto sempre quasi di bellicosità, di subalternità, e cercare invece di piazzare questa letteratura dalla profonda vitalità che arriva anche in Italia in modo molto più frammentario, molto più debole, ma di sicuro ribelle, con tutto quello che succede a livello internazionale, perché la letteratura della migrazione è parte di questa nuova civiltà universale. Quindi gli scrittori migranti in Italia non sono solo migranti – è una categoria generica, un po’ vaga, perché all’interno ci sono migranti per obbligo, per piacere, alcuni erano scrittori prima di venire qua, altri lo sono diventati qua. Il lavoro che sto cercando di fare adesso è di comparare tutte le letterature europee anziché cercare di fare lo stesso discorso in Italia, poi la cosa strana è che chi studia la letteratura della migrazione a livello accademico spesso si trova nelle università anglosassoni, in America, o in Olanda come me, cioè sono pochi quelli che lo fanno in Italia se non Armando Gnisci e alcune persone che sono riuscite a fare dei lavori incredibili con le riviste elettroniche, con dei seminari intermittenti. Questa fascinazione dell’estero, del mondo accademico estero su quello che succede in Italia, ha due motivi: un po’, come dicevo, il mio aspetto migratorio per cui mi interessa sapere cos’è la questione della migrazione in Italia per le altre persone, un po’ perché si aggancia a tutti questi studi post-coloniali in cui la letteratura non fa più parte di una tradizione nazionale. I confini nazionali ormai sono abbattuti, ci sono delle grandissime case editrici che vanno avanti a suon di promozioni, di premi letterari, di best-sellers, per cui i confini nazionali vengono sfondati. In Italia sono più radicati che mai all’interno dell’editoria per motivi che abbiamo visto stamani, di monopolio editoriale, un po’ per difficoltà anche a pubblicizzare una letteratura nuova, secondo me, e fondamentalmente perché l’Italia secondo me è un po’ incapace di guardare oltre i confini e vedere cosa succede a letterature altre e sarebbe secondo me più utile un confronto tra scrittori migranti italiani, francesi o i tedeschi,che non cercare di portare un dialogo tra scrittori italiani migranti e scrittori dal canone italiano, mi sembra una questione non amalgamabile o comunque non parallela. Lo sforzo è quello di cercare di creare queste linee laterali tra letterature, non solo a livello di spazio con le altre letterature europee della migrazione ma anche cercare nel tempo quali sono i rapporti tra scrittori migranti in Italia con la loro lingua d’origine. Lo scopo è quello di fare della letteratura una specie di nave mondiale, cercare di viaggiare verso quelli che sono non i valori della civiltà universale che sono sempre un po’ dittatoriali, bisogna cercare nella frammentazione, nel localismo, di cui la letteratura della migrazione è secondo me la massima rappresentanza, e cercare appunto, nel leggere questi testi migranti, di vedere quali sono le strategie nel combinare il globale con il locale. Come dice Maria Virengo la questione è come mantenere l’Europa, l’oralità, la fisicità del rapporto con la propria terra, in luogo italiano, urbano. È importante smuovere quelli che sono i binarismi di fondo, che fanno parte del nostro modo di pensare e, come dicevamo stamani, non pensare più per etichette ma di guardare per registri, per contenuti e chiedersi “cos’è che caratterizza la letteratura migrante?” e se è una cosa che riguarda i migranti o se riguarda tutti noi scrittori, perché il migrare è una forma di scrittura, il viaggiare è una forma di costante migrazione del sé. C’è l’epigrafe a un tuo libro che è di Caproni e che secondo me è di una bellezza incredibile e dice, “Il mio viaggiare è sempre stato un restare qua dove non fui mai”. Ci sono dei grandi scrittori che rendono in pochissime parole tutto il senso del migrare: uno migra pur restando, non cambiando mai e cambiando sempre, ed è incredibile come la scrittura possa raccontare questa ciclicità nel tempo e nello spazio.
Vorrei lasciare lo spazio al dibattito altrimenti…
Julio Monteiro Martins:
Allora facciamo così, andiamo avanti e dopo facciamo un dibattito, ok?
Io vorrei continuare leggendo il brano che Vesna Stanic’ dovrebbe leggere qua, quello che lei ha preparato per questo evento e che non ha potuto fare di persona. È un brano che si chiama “Il ponte”, ed è curioso che uno scrittore brasiliano legga in italiano un testo di una scrittrice croata, no? Queste confluenze ci dicono qualcosa su questa nuova umanità che sta nascendo…
IL PONTE
Io sono stata fortunata. Non sono fuggita dalla guerra e nemmeno dalle carestie. Non sono fuggita. O forse si, da una madre difficile ma non è stata una fuga drammatica. Non ho vissuto lo sradicamento perché contavo di rientrare dopo due – tre mesi, giusto il tempo di imparare la lingua e vedere un po’ “il mondo”. Piano, senza accorgermene sono rimasta e l’integrazione è avvenuta senza traumi, poiché è stata “indossata” come un vestito nuovo e bello, senza costrizioni. Le due lingue si sono sostituite l’una all’altra, secondo le necessità di comunicazione, si sono abbellite e arricchite dentro di me. Si fanno talvolta la guerra, si scontrano, si annientano e creano ogni tanto dei buchi neri d’amnesia. Poi, affluiscono in un unico fiume e bisogna attuare la separazione forzata, perché si ha bisogno di comunicare e si potrebbe con un unico linguaggio se gli altri non ti ricordassero di non capire una delle due lingue. Come scrisse lo scrittore bosniaco Mesa Selimovic: “ L’interlocutore è la levatrice nel difficile parto delle parole.”
Con le amiche che parlano la mia madre lingua e l’italiano comunichiamo sovente con un linguaggio “misto” usando le parole che prima ci vengono in mente, sia dell’una che dell’altra lingua. Così fanno i bambini bilingui. E’ bello, è buffo e ci si sente parte di un “club” perché diventa comprensibile “da noi” e “da loro”. Il punto è che gli altri ti fanno sentire straniero anche quando vi è tutta l’intenzione e volontà di integrazione.
Ecco, non vi è stato uno sradicamento vero e proprio, semmai una sensazione di non appartenenza a nessun luogo. Ci si allontana dalla propria cultura e lingua e si sente una nostalgia immensa, ci si avvicina ad un’altra terra e non si diventa mai del tutto i suoi figli. Dopo venticinque anni gli italiani, sentendo il mio nome e la provenienza mi fanno i complimenti: “Come parla bene l’italiano essendo una straniera!”.
Quando venni in Italia una signora inglese mi disse: “Attenta ragazza mia, da vent’anni che sono qui e ora mi sento come su un ponte; né di qua né di là.”. E’ vero, si rimane su un ponte. Si creano dei bisogni sconosciuti, piaceri doppi, malinconie e mancanze appena si cambia la sponda.
Anni fa, prima della guerra nella terra di “sei repubbliche, cinque popoli, quattro lingue, tre religioni, due scritture e un partito” come dicevano della Jugoslavia ho conosciuto a Vienna un bosniaco di Tuzla. Allora, parlando del nostro bilinguismo (il suo era tedesco-croato) mi disse con un’espressione estasiata: ” Sai, quando varco il confine ed entro nel mio paese inizio immediatamente ad usare la mia lingua madre e sento un sapore dolce in bocca!” Già, il dolce sapore in bocca, come se si assaggiasse un dolce particolarmente gradito. In quel momento, lui ha dato il nome ad una sensazione che ho sempre provato. Io la sto provando anche per l’italiano.
Ci sono dei momenti e dei giorni nei quali mi chiedo: perché? Perché non sono ritornata nella città che più d’ogni altra sento mia? Perché, quando posso, corro a Zagabria dove ogni parte del mio corpo percepisce un’indelebile sensazione di appartenenza e dove anche i piccioni li sento parenti? Perché penso ai mirtilli che compravo al mercato di fronte al Duomo? Adesso mangio quelli surgelati e sogno il gusto perduto del bosco.
Nel romanzo “La fortezza” di Mesa Selimovic un personaggio aveva girato il mondo facendo lavoretti vari tra cui anche lo scrivano e, dopo un lungo pellegrinaggio era tornato nel suo paese dove la moglie lo aspettava pazientemente. Gli chiedeva soltanto: “ Perché, anziché romperti la schiena altrove non fai lo scrivano nel tuo paese?”
Credo che i nostri bisogni vengono da lontano, da una continua migrazione dei popoli. Sono delle migrazioni forzate, spesso, in cerca di pace, di cibo oppure di nuovi territori, ma ci sono anche migrazioni fatte di curiosità e d’attrazione che “gli altri” suscitano in noi. Sono farcite di odio-amore, le migrazioni, composte da sudore, paura, rabbia e la ricerca del proprio clan. Poi s’impara a conoscere, si odorano cibi diversi, si educa il palato a sapori nuovi e ci si appropria di loro. Quando giunge il bisogno di comunicare scrivendo, si usa il linguaggio che maggiormente si è accumulato ascoltando, leggendo e immaginando. Le parole scoppiano a volte come un vulcano, oppure arrivano di soppiatto come un fiume sotterraneo. Si mescolano nella mente, assumono dei significati “contaminati” dalla lingua madre e creano qualcosa di nuovo in un continuo tentativo di farsi capire nel nostro perenne bisogno di comunicare.
La memoria è la nostra nemica e amica. Dobbiamo, penso, usarla per non perdere le radici e non perdersi e questo è una funzione importante. Temo la memoria che crea dolore, rancore e che funge da muraglia alle nuove esperienze anche se è faticoso usarla sempre nel modo giusto, quello cioè di un inesauribile pozzo di emozioni e conoscenze immagazzinate.
Alla fine “da noi” è così differente che “da loro”?
(Applausi del pubblico)
Julio Monteiro Martins:
Sarà contenta Vesna…
Avevo prima preparato alcuni brani brevi di riflessione sulle questioni di cui abbiamo parlato e parleremo, però mi è piaciuto molto quello che ha fatto ieri pomeriggio Candelaria Romero, cioè portare un brano suo, un testo scritto da lei e letto da lei.
Tempo fa io avevo un progetto che ho ancora e che non è mai stato realizzato e chissà se un giorno si realizzerà, ed era quello di creare una sorta di museo della voce degli scrittori, cioè una sorta di museo reale o virtuale in cui gli scrittori leggono le proprie opere con le proprie voci, perché c’è qualcosa nel modo in cui lo scrittore legge, c’è un’informazione che va oltre il testo stesso, nell’enfasi o nell’emozione o nei silenzio che fanno una sorta di strada a ritroso fino al momento della creazione. Voglio dire, l’emozione che lo scrittore ha sentito nel momento in cui l’ha scritto ritorna nel momento in cui lo legge, e forse il lettore e i critici non hanno l’opportunità di conoscere quell’emozione, quella informazione se non lo ascolta direttamente dall’autore. Per questo ho sempre cercato di valorizzare molto questa lettura. Ho sentito per esempio una volta, in un programma della tv italiana alle tre del mattino, Alda Merini che leggeva le sue poesie…le poesie erano diverse da quelle che avevo letto io, erano cresciute e mi hanno commosso in un modo che non potrei mai provare leggendole da me. Anche Vittorio Gassman, se non sbaglio, ha creato una sorta di collezione, di registrazione di grandi scrittori italiani letti da grandi attori italiani, è una cosa molto bella, però è un’altra cosa l’attore che legge rispetto all’autore che legge. L’autore può anche leggere male perché non è questo il problema. Allora mi è piaciuto ascoltare Candelaria Romero che leggeva il suo testo perché c’era qualcosa nell’enfasi che ci metteva che mi rivelava qualcosa su quel testo. Allora ho scelto un mio breve racconto, particolarmente legato alla questione della migrazione, e vorrei leggerlo per voi. Ho scelto di fare questo al posto di questi commenti teorici che magari faremo più tardi lungo il dibattito. È un racconto pubblicato nel mio primo libro scritto in italiano e che si chiama “Racconti italiani”. Il racconto si chiama “Un mare così ampio”.
UN MARE COSÌ AMPIO
Il 20 ottobre 1517 Fernão de Magalhães rinuncia alla cittadinanza portoghese, attraversa da solo il confine spagnolo, arriva a Siviglia, assume il nome di Hernando de Magallanes, e sottoscrive un contratto con il re di Spagna, Carlo V, per realizzare il proprio progetto di circumnavigare per la prima volta il globo terrestre.
L’inedita impresa sarà portata a termine solo cinque anni più tardi, quando la piccola nave Victoria, l’unica superstite, risalirà il fiume Guadalquivir con a bordo soltanto diciotto sfiniti sopravissuti, dei quasi trecento uomini che erano partiti. Tra loro non c’è Magallanes, ucciso dagli indiani dell’isola Mactan dopo aver solcato l’Oceano Atlantico fino al suo estremo sud, aver scoperto lo stretto che oggi porta il suo nome e attraversato per la prima volta l’immenso oceano che lui stesso ha battezzato Pacifico.
Ma fino a questo momento la decisione di partire non è ancora stata presa. Lui è seduto ad un tavolo, in fondo ad una taverna della Baixa di Lisbona, davanti ad un bicchiere di porto, mentre sta aprendo il suo cuore pesante al suo unico amico, l’astronomo Ruy Faleiro, che come lui, tenta fare il passaggio da un oceano ben conosciuto, la patria, ad un nuovo mare ignoto, in una tarda notte del settembre 1517.
Tu non sei più giovane, Ruy, amico mio. Forse posso già chiamarti “ vecchio amico”, eppure il tuo corpo non ha mai varcato le mura di Lisbona; tu che solo in contrada Corpo Santo o in Madre Deus ti senti protetto dal mantello di El Rey, anche se dici di disprezzarlo. I tuoi viaggi li fai solo con gli occhi, lanciando lo sguardo nell’oceano più buio e tetro di tutti, quello che sostiene le stelle, e così ti avventuri per regioni molto più lontane di quelle che ho raggiunto io senza aver dovuto muovere nemmeno un piede. È per questo che, nonostante quello che il vino ti farà dire e giurare, in fondo so che non mi seguirai, che non mi sarai accanto se decido veramente di bussare alle porte di Spagna per veder compiuto il mio destino. So bene che Lisbona è un utero di pietra dal quale non uscirai mai, e che per te, tutto sommato, è meglio la prigionia sulle rive del Tago che la fortuna su quelle del Guadalquivir.
Scusa, amico mio, non volevo offenderti. So bene che non sei un codardo e che anche tu ammassi le ingiustizie del Portogallo nelle stive del tuo spirito, e so benissimo che non sono zavorre che possono essere buttate a mare per alleggerire l’anima e permetterci di andare avanti, ma che sono diventate la materia stessa di cui è fatta la nave. Sono risentimenti che diventano legno. Anch’io sono fatto dello stesso legno. Solo che... Solo che ci sono quelli che partono e quelli che rimangono. Nessuno è migliore dell’altro, e possono avere ragione tutti e due. Tu sei del secondo tipo, ed io... io ancora non lo so. Devo scoprire, o decidere, che specie di uomo sono. E tu, con i tuoi consigli, devi aiutarmi.
Ho trentasette anni e anche se riesco a diventare vecchio, cosa che non accade spesso nel mio mestiere, di sicuro ho già offerto al Portogallo più della metà della mia vita. I miei anni migliori, quelli dell’audacia spensierata e della fantasia, quando le gambe sono leggere come certi venti d’estate, ed il pensiero è separato dall’azione solo da una scintilla... questi anni ho dato al popolo lusitano e al suo re. E tanto ho fatto, tra così tanti pericoli, che devo sembrare addirittura altero e antipatico alla morte stessa.
Da bambino sono stato paggio della regina Dona Leonor. Da ragazzo sono andato a combattere in India, in Cananore, insieme a Vasco da Gama, contro il perfido Zamorìn. Lì sono stato ferito e portato poi in Africa perché mi rimettessi. Sono quasi morto, per il Portogallo. Poi, in Malacca, ho avvertito il mio capitano del tradimento del Sultano e così ho evitato il massacro dei nostri; vi sono tornato due anni dopo per conquistare finalmente quella maledetta città, l’aurea Chersonesus, che ha fatto del Portogallo il sovrano di tutto l’Oriente, dalle Colonne d’Ercole al Catai e al Cipango, quel Portogallo che si presentò con fierezza a Roma sopra un elefante che si inginocchiò davanti al Papa, a dimostrare che le potenze pagane si erano inginocchiate davanti alla fede in Cristo.
Sono andato in India con il semplice grado di sobressalente, e sette anni più tardi sono tornato a Lisbona con lo stesso grado. Non era cambiato niente, nessuna promozione, nessun riconoscimento. Sono stato pagato con un altro rischio mortale, del quale anche tu ti ricorderai: quella guerra contro i mori del Marocco, nella sabbia, fuori dal mio elemento naturale, lontano dalle nostre grandi acque. E sempre come volgare sobressalente sono stato ferito ancora, un colpo di lancia mi ha distrutto il ginocchio e mi ha reso zoppo. Sono quasi morto, per il Portogallo, un’altra volta. Quando sono tornato di nuovo, anonimo soldatino, atteso da nessuno, ho visto con stupore che la patria per la quale il mio corpo era stato lacerato non mi voleva, mi guardava con ribrezzo e diffidenza. La patria mi sputava addosso. E per la prima volta mi è venuto in mente che se morire per la patria non vale niente, e se non posso neppure vivere per la patria perché essa non me ne fornisce i mezzi, forse dovrei imparare a vivere per me stesso e a morire per il mio sogno, che è quasi una patria.
Ah, povero il soldato che commette l’imprudenza di tornare. Meno disgraziati sono quelli che spirarono sul campo...
So che pensi che esagero quando dico che la patria mi sputava addosso. Quindi, dimmi tu: chi risponde per la patria se non il suo re? E cosa mi ha risposto Dom Manuel quando gli ho chiesto una degna occupazione, per non marcire nell’ozio e nella miseria? Mi ha risposto no! E quando invece gli ho chiesto una pensione che mi permettesse di restare vivo? No, niente! E quando l’ho supplicato che almeno mi risparmiasse l’umiliazione di vedere i miei subalterni, gli inesperti, gli inetti, i vergini di combattimenti, sorpassarmi in grado e prestigio? Lui mi ha gridato: No! Per ora rimarrete soltanto un sobressalente. Ma... il mio merito e la mia dedizione? Il vostro merito lo giudico io, ha detto. E la vostra dedizione non è un affare di Stato. E quando alla fine, deluso, mortificato, gli ho chiesto se mi concedeva di mettermi al servizio di un paese straniero per trovare i mezzi per sopravvivere, con disprezzo mi ha risposto: “Andate pure”, e così mi ha congedato.
Dom Manuel non è tutto il Portogallo, dici tu... E invece sì!– dico io. Nessun altro portoghese è così ben informato come Sua Maestà. Solo lui sa tutto di me, dei sacrifici che ho dovuto fare in suo nome, e quindi nessun altro mi può giudicare meglio di El Rey Dom Manuel. E la sua risposta ha stabilito che io non valgo cento réis, e peggio per gli spagnoli se vogliono sprecare con me i loro maravedìs... Vedi, Ruy, se il re ragiona così, cosa devo aspettarmi dai poveri diavoli sui marciapiedi della Baixa, che vedono passare un altro povero diavolo sul marciapiede opposto, e per di più zoppo! Ruy... Ruy... quando mi tornano in mente tutte queste vicende, le innumerevoli volte che ho messo a repentaglio la mia vita per questa gente che ora mi guarda come se fossi trasparente come l’acqua, mi sento il più tradito ed il più libero degli uomini. Sopra tutte le cose ho imparato ad amare il verde e il rosso della tua bandiera, e d’ora in poi, non so ancora bene come, dovrò imparare ad amare altri colori, oppure nessun colore, come nell’acqua, l’elemento che davvero amo.
L’ingratitudine, Ruy, questa pantera che ci salta addosso mentre siamo distratti e ci spezza il collo con le sue zanne... l’ingratitudine lascia una brutta cicatrice. Sai, amico mio, non posso non sentire questo vento che già soffia sulla mia pelle, e per questo ti dico adesso e ti ripeterò domani, quando l’ebbrezza di questo buon vinho do porto sarà passata, che ho deciso: andrò dagli stranieri, chiederò al loro re, che spero sia più intelligente del nostro, che si degni di ricevermi a corte, e gli presenterò il mio grande progetto, che senza dubbio porterà tanta gloria e fortuna al suo paese. Lascerò per sempre alle mie spalle questa madre impazzita che vuole rubare il mio futuro. Forse così lascerò dietro di me anche me stesso...
Non ho mai avuto paura, lo sai, e non ne ho adesso. Vedremo cosa sarà rimasto di me da poter usare nella mia nuova vita, quando metterò tutta la mia energia al servizio di un altro popolo, che d’ora in poi sarà il mio popolo, la cui storia è già la mia storia, e la cui bandiera, se mi sarà permesso, porterò il più in alto e il più lontano possibile, ossia il più vicino possibile all’impossibile. E se è vero che ho lasciato me stesso dietro di me, questo non mi spaventa, perché so che il mondo è una sfera, e perciò è proprio allontanandomi dal punto di partenza che potrò fare il giro completo che va da me a me stesso.
Amico mio, la circumnavigazione è l’unica via che mi rimane: così sono sicuro che è possibile e che ce la farò. In fondo, se c’è un’unica alternativa, dev’essere per forza quella giusta.
(Applausi del pubblico)
Lettura di alcuni brani del libro “Cronaca di una vita in silenzio” di Artur Spanjolli, a opera dell’autore stesso.
“[…] Lo so che nessuno mi crede, ma ho sfidato il diavolo una volta di notte mentre tornavo a casa, lungo la strada di ritorno per la città. Il buio era pesto, totale, terribile, e dopo aver mangiato a casa di Meta decisi di tornare a casa. Era passata la mezzanotte e, nonostante le insistenze di Meta per dormire lì da lui, indossai il cappotto, mi infilai le scarpe, presi le mie cose e mi accomiatai. Fuori regnava un buio senza volto, un buio uniforme, sordo, pauroso. Avrei trovato la strada a stento. Meta tornò dentro di corsa, frugò e trovò un paio di candele che potessero far luce e non lasciarmi cascare in qualche fossa o canale. Mentre me le porgeva in mano mi disse: “Accendine una ora, prima di uscire da qui, e non la spegnere più finchè non giungi in città”. Così decisi di fare. Il coraggio non mi è mai mancato.avrei dormito in mezzo a un cimitero senza alcuna paura nel cuore, ma all’uscita del villaggio la candela si spense a causa di un improvviso soffio di vento e vidi materializzarsi, avvicinarsi, una paurosa e diabolica forma umana. Si appoggiò alla balaustra del ponticello. Indossava un abito grigio di un bagliore metallico, aveva il viso terribilmente acido, contorto e cattivo, i capelli lunghi e gli occhi che parevano due tizzoni macabri, in quella loro malsana luce. “E ora dove andrai?” disse, con una voce roboante, fervidamente maligna, e mentre ghignava ridendo, l’eco si ampliava in due, tre , quattro cerchi come se uscisse dalle profondità del dirupo. Sapevo che queste creature temono la luce e, trattenendo il fiato, cercai di controllare lo spavento, ma il panico mi vinse per un attimo e tremai. Invano mi affannavo ad accendere la candela, perché le dita tremavano. Lui scoppiò in una risata disgustosa e orrenda da far venire la pelle d’oca. Dio solo sa dove trovai la forza di affrontarlo: “Non mi fai paura!” urlai con una durezza che solo la paura più difficile da affrontare ti fa scaturire da dentro. Cercavo di accendere la candela. Attorno a me il mondo pareva assopito per sempre. Appena l’ebbi riaccesa, respirai profondamente, bevvi un po’ d’acqua e ripresi a camminare, tremando all’idea che la candela mi abbandonasse nuovamente spegnendosi all’improvviso. Proseguii dritto con il ghiaccio nel cuore e all’entrate della città, mentre percorrevo l’ultimo segmento di strada rimasto, di nuovo soffiò un forte colpo di vento sciagurato e la candela si spense. Ahi! Di nuovo quel buio pesto, minaccioso, da brividi. Rimasi congelato, con il cuore che balzava in gola, tremante. Mi affannavo a riaccendere la candela spenta, quando da dietro le spalle udii la stessa risata spaventosa, un ghigno malsano, la risata di quella creatura infernale. “Hai paura, poveraccio, ammettilo!” I capelli mi si rizzarono sulla testa, ma dotato di una lucidità improvvisa, pronto ad agire, mi girai di scatto e scorsi i suoi occhi da vampiro, il nero scintillante e orrendo del suo corpo, avvertii perfino la puzza di escrementi del suo fiato. “Non mi fai paura!” mi sfogai dandomi coraggio di nuovo,e mi tirai indietro. Lui mi mostrava minacciosamente i denti e le unghie. Si contorse di nuovo in una risata diabolica, spalancò la bocca orrenda e scomparve nel campo di mais raccolto, spezzando fusti e falciando foglie secche. Io, tremante, cercavo di riaccendere la candela, terrificato per quel dannato pasticcio in cui mi trovavo coinvolto per la mia frettolosa e cocciuta decisione. Tornò. Mi si piantò di fronte, drizzò le dita dalle unghie aguzze, mostrò i denti affilati, strillò orrendamente e mi afferrò per la gola. Dio mi dette la forza di resistere mentre mi preparavo ad afferrare l’inafferrabile, e lui aggrappato a me si dimenava urlante, si contorceva con le unghie sulla mia gola, soffocandomi e liberando un lezzo nauseabondo. Non ricordo più niente se non che disperato invocai Allah e a stento riuscii a dire: “A udhu bi-llahi mina’sh-shay-tani- Rajim, Bismil-Lahi ar-Rrahmani ar-Rrahim!” [formule religiose in arabo in cui si invoca il Signore per chiedere la difesa dal maligno, n.d.A]. Poi si udì l’urlo terribile del mostro preso in trappola e il latrare dei cani in lontananza. Queste creature dannate e disgustose temono la luce e l’abbaiare del cane. Accesi la candela e mi accorsi di respirare male. La gola mi bruciava per le ferite. A tentoni, barcollante, fuori di testa dall’ansia, tremante, guardandomi intorno di soppiatto, mi diressi verso casa mia. Ripetevo ossessivamente: “Suphan Allah!Elhyqmylah!” [anche qui formule religiose arabe in albanese decaduto. “Grazia di Dio!”. “Che Dio mi aiuti a sopportare la fatica che duro nel fare il pellegrinaggio!”, n.d.A.].
L’aurora mi sorprese a casa, mentre fissavo il cortile, immobile. Mi ricordo di aver recitato una preghiera di ringraziamento a Dio misericordioso che mi aveva salvato dalle mani del demonio. Non avrei mai immaginato che una simile vicenda da brivido sarebbe capitata a me, al povero Mersin, il solitario barbiere. L’indomani tornai da Meta e lo sorpresi mentre spruzzava di superfosfato le vigne intorno al cortile. Gli raccontai degli occhi del mostro, della strana luce grigia in cui era avvolto , e lui continuava a spruzzare i tralci dicendo: “Tobenajarabi!” [arabo decaduto in albanese regionale. “Che Dio mi aiuti a mantenere il giuramento di non compiere più peccato”, n.d.A.] Gli raccontai del suo lezzo da vomito e della mia inspiegabile forza d’animo nel raccogliere in me le ultime energie. Meta, spruzzando l’insetticida, diceva: “Elhyqmilah!” Gli mostrai i lividi sotto la nuca, le chiazze violacee che le mani del mostro avevano inciso sulla mia pelle, e lui continuava a stringere la leva dell’irroratrice a zaino. Dopo, posò lo spruzzatore e la pompa dell’insetticida sull’erba del cortile, mi scrutò con gli occhi miti, piccoli e rotondi, si pulì gli occhiali da vista e, fissandomi serio, aggiunse: “E’ l’anima di Niazi Isai, condannato a vivere per un po’ di tempo sulla terra natale perché non trova pace nella sua umida tomba!”. Non mi spaventai. Anzi, una crescente curiosità mi spinse a sapere di più sulle sue colpe terrestri. Meta però, come se fosse già stato disturbato fin troppo, perché evocare i defunti porta male, tornò a casa si sedette nel suo cantuccio da lavoro, aprì il piccolo armadio alla sua sinistra odoroso di oli meccanici, lubrificanti e polvere di metalli limati, frugò in mezzo agli arnesi aggiustati. Poi prese un paio di provette e di bottigliette su cui aveva scribacchiato il nome di ogni soluzione e, cambiando discorso, ammise: “Mi sta lasciando la luce degli occhi. Ho bisogno di altri occhiali!”. Poi tirò fuori un coltellino da tasca tutto ripiegato e aggiunse: “Aprilo, Mersin, se ci riesci!”. Mi detti da fare per interi minuti nell’intento di aprirlo ma non ci riuscii. Lui, divertito, lo prese, appoggiò il pollice e l’indice ai due lati dell’oggetto dall’apparenza ermetica e con l’indice dell’altra mano pigiò in mezzo alla piatta superficie frontale. Allora i bordi si aprirono e spuntò fuori una lama d’acciaio a doppio taglio. Stupito dell’ingegno che aveva utilizzato per realizzarlo, così come di solito mi meravigliavo delle storie che narrava, gli chiesi: “Come accidenti ti è venuta in mente una cosa simile?”. E lui, con la sua solita modestia: “Non ho chiuso occhio per una settimana per inventarlo!”.
[…] La storia della casa piena di ombre vaganti, anni addietro, insieme ai miracoli compiuti nel villaggio dai santi di Teqja [i saggi Hysèn e Islam, parenti defunti di Meta, che dimoravano in pace nella casupola della Teqja, da anni compivano miracoli di guarigioni e svelavano segreti agli abitanti di Likesh, n.d.A.], pareva simile a una favola creata apposta per mandare i bimbi a dormire. Ma a volte, quando il cielo si rabbuiava minaccioso, quando tuonava e lampeggiava, quando il vento folle spazzava via la polvere e le erbe secche, ramoscelli e foglie morte, riemergevano come in un sogno i rumori agghiaccianti di una volta. Di sera i bambini si rannicchiavano nella camera da letto o accanto al fuoco, e mi guardavano con gli occhi spaventati come se si trovassero coinvolti in un sogno a tinte forti, dove ansioso attendi il risveglio per liberarti delle fantasmagorie agghiaccianti. Il vento fischiava forte e le fiamme del focolare si sparpagliavano per il vento che scendeva giù per il camino. “Non c’è nulla”, li calmavo io, quando si udivano le risate da stregoni, e stavo loro vicino. Di notte, nella camera da letto, quando si infilavano dentro le coltri foderate come teneri capretti, nella camera inondata dal tiepido odore umano, in mezzo al concerto di tanto russare io, prima di coricarmi, li controllavo uno ad uno con il timore che non prendessero freddo dal sudore, li ricoprivo, li baciavo, richiudevo la porta e scivolavo nel letto matrimoniale dell’altra camera, con Lala. Mi ricordo di LUI. Dormiva con la testa in su, la bocca aperta, fanciullo, mentre russava forte, chissà in quali acque di sogni galleggiava; lo baciavo spesso mentre gli asciugavo le stille di sudore sulla fronte, perché aveva qualcosa di diverso dagli altri. Una volta, di mattina, quando aprii la porta insieme alla mia figlia maggiore, LUI si stava cambiando le mutandine bagnate nel sonno e la figlia si mise a scherzare con un pizzico di malizia per quello che LUI aveva combinato, di solito facevano così tra loro. Allora LUI, rosso come un peperone dalla vergogna, si affrettò a indossarle, ma l’ansia stessa gli impediva di farlo; intanto giunsero anche gli altri figli e lo canzonarono per aver bagnato le mutandine a nove anni. Mi accorsi della sua insolita sofferenza per la sua suscettibilità messa in allarme, si contorceva e si affrettava a coprirsi, mentre io sgridavo i piccoli che, sganasciandosi lo indicavano col dito, finchè arrabbiato scese giù per le scale e fuggì via. All’inizio, quando non tornò a casa all’ora di pranzo, pensammo che si trattasse solo di una distrazione da parte sua. Forse giocava da qualche parte. “Sarà andato verso il bacino idrico!” dissero le figlie e i figli mentre io mi affacciavo sul cortile e lo chiamavo per nome. Dentro di me, con lo scorrere del tempo, cresceva anche la preoccupazione, finchè cominciai ad agitarmi in preda al panico, tanto da diventare insopportabile con le mie chiamate intorno alla casa. All’imbrunire mi affacciai alla finestra del primo piano, da dove si vede tutto il villaggio, con la speranza di scorgerlo mentre tornava a casa a testa bassa, sporco di polvere e macchie di frutti e di resina, ma non vidi nessuno. Allora divenni isterica dall’agitazione. Tre volte mandai gente a cercarlo dietro la scuola, lì dove i giovani del villaggio giocavano a calcetto, improvvisando un pallone con fogli di plastica arrotolati e legati con corde robuste, e te volte tornarono indietro facendo spallucce. “Non si trova da nessuna parte!” dicevano. La mia mente correva alla sciagura. Quando il buio si fece pesto detti l’allarme. Stranamente faceva freddo, era fine estate se non sbaglio, e l’autunno si notava dal profumo dell’uva in fermento e le foglie morte erano marce dalle piogge improvvise. Uscimmo fuori attrezzati di torce perché la notte era scurissima e mancava l’illuminazione in campagna. Lo chiamammo per nome, frugando il buio palmo a palmo, ripercorrendo i sentieri avanti e indietro, supplicandolo di rincasare, rassicurandolo che non era successo nulla di grave. Le sorelle e i fratelli gli chiedevano scusa in coro e con parole di lusinga lo invitavano a giocare a nascondino, ma LUI non si faceva vivo. Fui presa dal panico. Meta, disperato, sciolse i cani da caccia nella speranza che fiutassero tracce di LUI, ma stranamente i segugi e Luli, i cani del cortile, invece di correre lontano furiosi, si aggiravano in cortile abbaiando, guardando dalle finestre del primo piano con le zampe appoggiate al muro della casa, continuavano poi ad abbaiare di nuovo, come se intuissero la nostra insopportabile preoccupazione. Tornai a casa alle cinque di mattina stanca morta dalla fatica e con la voce roca. E ancora oggi, a distanza di ventotto anni, non riesco a capire come ho fatto a non impazzire nella confusione creata dall’ansia. “Non ti preoccupare”, mi dicevano, “tornerà!”. Io lo sentivo che sarebbe tornato. Dopo due giorni di vane ricerche tra vicini, parenti, cugini, conoscenti, una volta controllato il pozzo, esaminammo il bacino idrico in lungo e in largo in cerca di un possibile annegato – tremavo al solo pensiero – ma non trovammo nulla. Fuori di me, la sera del secondo giorno, decisi di salire nella mansarda a cercare un vecchio gjyryk [ meccanismo rumoroso di ferro massiccio, che serviva per riattizzare il fuoco quasi spento, grazie all’aria a pressione che produceva, n.d.A.] per soffiare sul fuoco, e mentre con una lucerna in mano spostavo sedie ammuffite, libri ingialliti e gonfi, scatole velate di polvere, cianfrusaglie e arnesi odorosi di aria ferma, mentre rovistavo casse sconquassate, respirando a stento, in mezzo a orci rotti, sentii il cuore battermi forte. Una strana ondata di speranza ed emozione mi fece accapponare la pelle. Fu un battito di cuore così furioso che credetti di crepare; all’improvviso, nascosto tra cianfrusaglie e arnesi arrugginiti, appoggiato su vecchio sgabello, scorsi LUI. Sì, Signore benedetto, scorsi LUI, ancora esitante e timoroso, smarrito in un mondo oscuro di pudore, rasato a zero come si usava allora, con tracce di lacrime asciutte sotto quei suoi occhini crudi, acuti, terribilmente umani. Pareva l’orfano più disperato di questa terra. “Ahi, povero figliolo!” esclamai stupita, sorpresa e commossa, e lo abbracciai forte con una tale dolcezza e devozione che neppure io sapevo di poter provare. La lucerna si ruppe cadendo per terra e noi rimanemmo nel buio, stretti tra le braccia, legati da arcani fili spirituali, e tuttora, ogni volta che riempio i polmoni con l’odore della mansarda o dello sgabuzzino, l’aria ferma eccita irresistibilmente la memoria a rivivere quella scena.”
(applausi)
Julio Monteiro Martins:
Io pensavo di riproporvi un dialogo che ho fatto insieme a Sandra uscendo di qua, prima, verso l’ora di pranzo, perché lei mi ha fatto una domanda molto interessante. Sapendo che questo è il quarto seminario mi ha chiesto cosa secondo me è cambiato dal primo seminario ad oggi, qual è il cambiamento più importante. Io mi sono ricordato un po’ di cosa si parlava a quel tempo, quattro anni fa… tutti gli argomenti che allora erano importanti, quest’anno non sono praticamente stati menzionati, cioè sono cambiate le priorità. Per esempio mi ricordo che nel primo seminario le questioni più importanti erano la questione dell’etichetta “migranti”, che ora è chiaramente superata, poi il fatto dei primi scrittori migranti che scrivevano insieme ai giornalisti italiani testimonianze, dell’arrivo di altri scrittori più autonomi. Un’ultima questione importante riguardava le case editrici che non avevano collane, che non si aprivano a questi scrittori. Questo continua ad essere in parte un problema grave, però la nostra percezione, secondo me, non ha la stessa gravità, cioè anche se la situazione non è cambiata da un punto di vista esterno, dentro di noi sappiamo con più serenità che è solo questione di tempo, che è in procinto di sbloccarsi, mentre a quel tempo sembrava proprio una muraglia. I problemi di oggi sono diversi. Secondo me c’è stato un approfondimento, un innalzamento del livello della discussione, direi più professionale, si parla già della specificità di ogni scrittore, ma siamo ancora a metà strada, cioè c’è ancora un altro passo da fare e questo – è un po’ una proposta che io faccio per il quinto seminario – riguarda la questione dei contenuti. Mi spiego, ancora la situazione della letteratura migrante nel suo insieme e la storia personale di ogni scrittore, sono l’elemento centrale, cioè si parla ancora troppo poco dell’opera di ognuno, dei personaggi, dello stile, come ha ricordato molto bene Sandra, ma anche della visione del mondo di ogni autore, dell’ambientazione, insomma tutto quello che si affronta quando si studia uno scrittore nativo. È un passo che ancora manca e io vorrei che questo venisse inteso come un invito a voi, un suggerimento.
Sandra Ponzanesi:
Passare dal contesto al testo…
Julio Monteiro Martins:
Esattamente. Ho portato una intervista fatta per il sito Alice in cui sono intervenuti diversi autori, in cui mi è stata fatta questa domanda: “Che cosa valorizza la letteratura migrante?” e io vorrei riproporvi la risposta che ho dato a Valentina Acava Mmaka come una riflessione per magari iniziare un dibattito sull’argomento:
“Innanzitutto la sua profonda umanità, il fatto che questa è nata da una lacerazione drammatica, l’emigrazione, l’esilio, che sono, insieme alla morte, le uniche esperienze umane in cui uno deve congedarsi definitivamente da se stesso per non esistere mai più dov’è sempre esistito. E i personaggi presentati da autori con tali “fratture” tendono ad avvicinarsi molto all’essenza dell’uomo contemporaneo, alle “fratture” generali, alle contraddizioni insanabili di tutti, del tessuto fibroso che si forma solo per rompersi nuovamente, dentro una ferita che non può rimarginare e che nessuno può nascondere: lo sfregio della condizione umana in balia di circostanze disumane, che si aggravano sempre, ovunque si guardi.”
Io penso che solo a partire da questa lacerazione la letteratura migrante può proporre una visione dell’uomo, allo stesso tempo diversa dell’uomo comune che non ha vissuto una tale esperienza, ma molto più vicina all’uomo comune allo stesso tempo perché tutti in un modo o nell’altro hanno vissuto esperienze simili, e allora è come se se fosse uno specchio esagerato della propria condizione della contemporaneità. Per questo vedo come molto promettente, anche dal punto di vista del lettore – perché la gente potrà scoprire nell’autore anche una serie di inquietudini che appartengono alle persone “stanziate”.
Domanda della spettatrice Monica Francioso a Sandra Ponzanesi:
Io vorrei chiederti se ti sei occupata della questione della lingua, più che del linguaggio, quando ti sei occupata di letteratura post-coloniale, per quanto riguarda il confronto tra India e Corno d’Africa, cioè cosa comporta la scelta di una lingua diversa, l’inglese per gli indiani e l’italiano per il Corno d’Africa.
Risposta di Sandra Ponzanesi:
Sì, la scelta dell’inglese per le indiane, che spesso sono scrittrici provenienti da un’élite, quindi sono parte di quella percentuale minore dell’India, pur utilizzando un lingua mondiale. È una lingua naturale, nel senso che sono cresciute in istituzioni inglesi, in scuole parallele ad altre lingue locali, ma è una scelta strategica perché l’inglese è una lingua di pubblicazione. Dall’altro lato ci sono scrittrici migranti, che si sono trasferite in Inghilterra o in America, per cui non c’è altra scelta oltre all’inglese, che diventa così la lingua naturale ma imposta. Ci sono scrittrici come Maria Virengo che intrecciano tanti strati linguistici, come l’oromo, l’arabo, addirittura il piemontese. Le scrittrici italiane usano l’italiano in virtù del fatto che sono venute in Italia, anche perché non tutte conoscevano l’italiano da prima.
Monica Francioso:
Ma è possibile che da parte delle ex colonie l’inglese sia usato anche un po’ come mezzo politico per scandagliare dall’interno con il linguaggio alcuni aspetti culturali. Mi chiedevo se questa cosa per una lingua come l’italiano non ha questa valenza, in quanto lingua neutra, perché non è una lingua che conta…
Sandra Ponzanesi:
Ogni lingua è un rapporto di potere, perché nel momento in cui usi una lingua tu ti sottoponi a un potere, di un’istituzione, di uno stato, e al tempo stesso acquisisci un potere attraverso la lingua, e dunque si ha sempre un rapporto alla Foucault, di sottomissione e resistenza, è una circolazione di poteri. L’italiano ha le sue rigidità, penso sia una lingua abbastanza vincolante, eppure nei tesi di queste scrittrici c’è la creatività all’interno della lingua. E comunque la lingua è sempre politica, non è mai neutra, è uno strumento, come dicevo, sia di regia che di resistenza.
Julio Monteiro Martins:
Vorrei fare un a domanda a Sandra. Forse sbaglio, tu correggimi. L’Italia non ha avuto una letteratura post-coloniale ricca come la Francia o l’Inghilterra. Per questo le è mancato un flusso letterario importante ma forse ha lasciato questo territorio libero, in modo che, non a caso a parer mio, l’Italia è diventata il centro della letteratura della migrazione in Europa. Credo che da quanto ho letto, in nessun altro paese, forse il numero degli autori è lo stesso, ma non nelle diversità delle origini degli scrittori che qua è un ventaglio impressionante. Non sarà che il fatto di non aver avuto una letteratura post-coloniale abbia favorito, in un certo senso, il proliferare di questa nuova letteratura mondiale, viaggiante?
Sandra Ponzanesi:
Sì, c’è un vantaggio nel senso che non ha l’impostazione delle etichette, delle nomenclature o dei codici accademici, ma al tempo stesso ha anche uno svantaggio perché una letteratura allo sbaraglio in cui tutti cercano comunque di trovare delle categorie. La letteratura migrante esiste anche nel resto d’Europa, la questione è capire quale è letteratura post-coloniale e quale è migrante. La letteratura post-coloniale non è per sé la letteratura proveniente da paesi ex coloniali ma è una letteratura che si ribella con dei sistemi un po’ dogmatici…
Julio Monteiro Martins:
C’è un titolo meraviglioso che, parodiando Guerre Stellari, si chiama “The empire strikes back”…
Sandra Ponzanesi:
Già, la vendetta… Il panorama italiano è interessantissimo appunto per l’idea dell’Italia come porto, sia per la posizione geografica ma anche perché non sembra mai il paradiso sognato – visto che per i migranti è un territorio di passaggio, di frontiera – e questa idea della transitorietà contribuisce a definire la letteratura.
Intervento dello spettatore Alessandro Agus:
beh, noi leggiamo autori italiani nella nostra lingua, leggiamo autori stranieri in traduzione, e ora leggiamo autori come Julio in italiano, cioè è una terza strada che ha le sue nuances… mi colpisce come questi autori possano esprimere nuove possibilità dell’italiano…
Gabriella Ghermandi:
C’è un autore che ha usato l’espressione “si è spoltronato” che non esiste in italiano però si capisce cosa vuol dire…!
Alessandro Agus:
E’ un italiano corretto, ma non è italiano nel modo logico di pensare!
Julio Monteiro Martins:
Voi in italiano non usate spoltronato ma usate defenestrato che per noi è una cosa stranissima!!
(ridono tutti)
È molto curioso quello che ha detto Alessandro Agus sul fatto che magari io che vengo da lontano sembro più italiano, ma questo è una cosa che si collega a quello che dicevo ieri sulla letteratura brasiliana. Non esiste una letteratura in verità latino-americana, esiste una letteratura ispano-americana che è già un universo variegato, e una letteratura brasiliana che c’entra ben poco, non solo per la lingua ma anche per le tematiche – noi non abbiamo mai avuto il realismo magico – e allora i problemi che affronta uno scrittore brasiliano di oggi sono molto più vicini agli stessi problemi di chi vive a Milano, a Roma, rispetto a chi viene dall’Albania che ha una storia più rurale o comunque diversa da quella dell’occidente. Dunque ha ragione Agus quando dice che c’è una vicinanza di esperienze, di storie, di vissuto, tra la civiltà urbana italiana e la civiltà urbana brasiliana, Milano e São Paulo, Roma e Rio. L’Aids tra giovani coppie omosessuali è stata una grande paura e una paranoia tanto a Rio quanto a Roma, credo, piuttosto che nell’entroterra albanese per esempio.
Gabriella Ghermandi:
Vi racconto cosa mi è successo. Una sera sono andata a un ristorante indiano e sul menù c’era scritta una cosa che un italiano non avrebbe MAI scritto, e mi sono detta “questa è letteratura di migrazione”! c’era scritto “deliziosa piccantezza di patate e cavolfiori”!
Alessandro Agus:
Per me piccantezza è solo una parola estranea…
Artur Spanjolli:
ma questo lo vedi come arricchimento o come distruzione della lingua italiana?
Alessandro Agus:
Come un arricchimento portentoso, io ti giuro che se mi capiterà di scrivere scriverò “aria ferma” e non “stantia”, mi ha permeato!
Artur Spanjolli:
Vedi, per me gli aggettivi sono come tanti arnesi da lavoro, come l’artigiano ha tanti tipi di pinze eccetera, per me le parole sono quasi tutte uguali per cui io mi posso permettere di giocare senza paura. A volte ci riesco, altre meno…anche la licenza poetica ha un limite!
Domanda di Cristiana Sassetti:
Io volevo chiedere se il primo racconto che hai letto è una favola che sentivi dire da bambino…
Artur Spanjolli:
Sì, dunque, questo è uno dei tenti racconti che mio nonno narrava più volentieri, e a me è rimasta in mente. Ci sono degli interventi del fantastico nel libro, ma in tutto saranno dieci pagine…
Julio Monteiro Martins:
C’è per esempio quel grande romanzo degli anni Trenta, di Guimarães Rosa, chiamato Grande Sertão - Veredas, che è la storia di un uomo che camminando per strada incontra il diavolo, in tante cose simile al brano di Spanjolli, eppure sono due epoche e due culture così diverse…
Artur Spanjolli:
Io ho cercato di inserire questi elementi anche per catturare l’attenzione perché nella narrazione a volte cade l’interesse, e quindi ho inserito questi elementi occulti.
Cristiana Sassetti:
Io volevo continuare a indagare questi aspetti esoterici per capire questo sincretismo albanese. Ho notato che il diavolo alloggiava sotto un ponte… siccome qui a Lucca c’è proprio il Ponte del Diavolo, volevo sapere se magari lo conoscevi…è un ponte ad arco tutto asimmetrico e la leggenda vuole che l’architetto non riuscisse mai a concluderlo perché il diavolo glielo sfaceva…è propaio qui a nove km circa da Lucca…
Artur Spanjolli:
Io ho semplicemente lasciato libera la fantasia ed è uscito da sé l’elemento occulto.
Intervento della spettatrice Oriana Rispoli:
È molto frequente questo abbinamento del ponte al diavolo, esistono molte fiabe popolari in cui c’è sempre una vicenda in cui il diavolo crede di ingannare il contadino che invece poi è più furbo e la spunta e c’è sempre un ponte di mezzo…
Intervento della spettatrice Maria Grazia Orsi:
A me interessa la questione della lingua. Per te l’albanese è diventata una lingua straniera, per il fatto che hai scelto di scrivere in un’altra lingua?
Artur Spanjolli:
Questa è una bella domanda. È molto difficile rispondere perché sulle cose bisogna riflettere per avere un’idea matura. Credo che questo romanzo l’ho scritto meglio in italiano che in albanese…
Maria Grazia Orsi:
Sarebbe un’altra cosa...
Artur Spanjolli:
sì, perché la variante in albanese non mi piace molto. Una collaboratrice della Besa editrice ha letto la variante albanese e ha detto che è scritto in un albanese strano [ridono tutti] perché io uso periodi lunghi ed è difficile scrivere frasi lunghe perché devi mantenere il ritmo, l’equilibrio interno. Lei diceva che è meglio la versione in italiano.
Inoltre da quando avevo ventidue anni fino a ora ho sempre letto libri in italiano ed ora io penso in italiano…però ci sono anche i residui della lingua materna durante il mio modo di ragionare.
Julio Monteiro Martins:
Tra due mesi uscirà negli Stati Uniti un’antologia bilingue, italiano-inglese, di poesia di poeti migranti in Italia, curata da Mia Lecomte insieme a Luigi Bonaffini che è un professore al Brooklin College. È curioso perché uscirà prima negli Stati Uniti e poi in Italia e non solo, dato che non c’è alcuna casa editrice italiana interessata, mentre ho saputo che negli U.S.A. ci sono diversi editori universitari che si disputano la pubblicazione e lui non sa ancora a chi affidarla. Mi hanno inviato la prefazione – dato che io sono uno dei poeti presenti – e la post-fazione. La prefazione è di Franca Sinopoli e la post-fazione da Mia Lecomte da cui ho ripreso un brano che mi sembra molto interessante come elemento di riflessione nostra.
"Il mondo è oggi qualcosa dagli incerti confini, spaziali e temporali, che un’immensa massa di individui precari attraversa sospinta dal bisogno, da esigenze di tutti i generi, soprattutto primarie, vitali, ma anche le più sofisticate, privilegiate. Globalizzazione non è altro che il nome rassicurante che si è deciso di dare a un fenomeno la cui portata ancora in parte si vuole ignorare, anche se lascia inquieti, è l’etichetta con cui si è provveduto a definire e formalizzare il processo deflagatorio in corso dell’universo conosciuto, un modo illuminato ed evoluto, da stretta di mano fra professori universitari, per salutare l’apocalisse.
Gli scrittori, i poeti, e primi fra tutti – in quanto a esperienza – quelli migranti, sanno di non potersi considerare cittadini di un mondo, il loro mondo, che cessa insistentemente di essere; e ora più che mai riconoscono come pianeta d’elezione soltanto la letteratura, e come unico passaporto ancora valido quello che li individua e li rappresenta come "cittadini della letteratura".
La scrittura, narrativa e poetica, è un "fare", che vuol dire soprattutto cercare di costruire il proprio luogo, la propria dimora, un universo in qualche modo somigliante in cui trovare una ragione di esistere. Questo è vero a maggior ragione per lo scrittore, il poeta migrante, che ha del "fare" e del "subire" un’esperienza umana – e conseguentemente letteraria – più diretta e circostanziata. E per questo "sa", in maniera più reale e dolente di un qualunque autore stanziale, che i mondi che con lui e attraverso lui si vengono ad incontrare, non sono quelli che ha percorso e in cui si è stabilito, ma il luogo interiore della propria invariata estraneità al mondo esterno, e quello esteriore dell’integrazione sempre possibile e sempre contraddetta. Si tratta dello straniamento esistenziale, lo ripeto, conosciuto da ogni scrittore, e in particolare dai poeti – quell’ostranenie che Josip Brodskij considera imprescindibile da ogni produzione artistica in generale – ma per il migrante sperimentato e subìto anche nella più ordinaria quotidianità, le cui conseguenze sono più consapevoli, direi paradigmatiche.
Non che la condizione di "migrante" aggiunga né tolga nulla a quella di "scrittore". Se mai è vero il contrario, è cioè l’accezione "scrittore" ad aggiungere o togliere qualcosa allo status di migrante. Più chiaramente: si può essere certo migranti senza essere scrittori – e andrebbe ricordato, per non giudicare ingenuamente e ipocritamente tanta cattiva letteratura della migrazione – ma non si può assolutamente essere scrittori senza essere migranti. Per questo anche il più stanziale degli scrittori di provincia, che conosce e parla solo il proprio dialetto minoritario, non può essere, se si tratta realmente di uno scrittore, che radicalmente e ineluttabilmente migrante. Va riconosciuto, piuttosto, come un "viaggiatore immobile".
Cosa contraddistingue allora la scrittura migrante, al di là della lingua in cui essa si esprime? L’identità multipla di cui è composta, la stratificazione di destini e progetti futuri che ne guida la voce. Una formula ogni volta differente che fa sì che in ogni momento sia altra, straniera a se stessa, in un continuo rinnovamento della propria volatile essenza.
Gli scrittori migranti sono individualità ben distinte, ognuna espressione di una composizione alchemica assolutamente unica e irripetibile, risultato di una personale e composita avventura biologica e culturale, che nella differenza accomuna storie e destini. La causa e l’effetto insieme di una deterritorializzazione interiore ed esteriore a un tempo, straordinariamente fertile."
Questo è un brano tratto dalla post-fazione, non è l’intero testo, che peraltro è molto bello, che sottolinea il potenziale fertile ma anche rappresentativo dell’insieme dell’umanità contemporanea di questo fenomeno letterario.
Gabriella Ghermandi:
Volevo chiedere a Julio sui suoi racconti. Quanto c’è di tuo, perché a volte ho la sensazione che tu abbia scelto e che ci sia qualcosa che ti abbia nettamente separato dal passato…
Julio Monteiro Martins:
Per me è molto difficile rispondere… io direi che c’è segno molto chiaro, che però non so leggere bene che, è il fatto che ogni volta che cerco di leggere questo racconto a voce alta devo quasi interromperlo perché mi viene un nodo in gola che mi impedisce di leggere… mi è successo un paio di volte, e questo è un segno che mi sconvolge nel profondo, e anche dopo averlo letto per un quarto d’ora rimango come un pollo senza testa, non so dove andare. C’è un contenuto che non so identificare, legato alla mia esperienza personale, non so esattamente cosa… vedi, noi brasiliani siamo molto fieri e molto…non riesco a esprimere questa roba… siamo cresciuti con questo mito del Brasile - c’è una frase molto vera che non mi ricordo ora di chi sia, che dice che la patria è l’ultimo rifugio delle canaglie -, ma nel caso del mito patriottico brasiliano, è un mito molto positivo nel senso di costruire un modello nelle Americhe, nel nuovo mondo, di convivenza, di società, diverso da quello preponderante statunitense, è una cosa di grande riscatto del nuovo mondo, noi brasiliani non ci rassegniamo che il nuovo mondo sia un’esperienza fallimentare, capitalista, vogliamo che l’esperienza del nuovo mondo, del mondo fuori dall’Europa, a partire dalle scoperte dei conquistadores, sia un’esperienza che abbia un lieto fine, e il Brasile ha la responsabilità di costruire questo. Ogni brasiliano nella sua infanzia è impregnato di questa missione. Allora rinunciare a questo è molto forte, lasciare il Brasile, il progetto Brasile – non è lasciare la patria – è rinunciare a un progetto di umanità, è molto sconvolgente.
Gabriella Ghermandi:
Scusa se insisto, ma nella letteratura di solito si sente, anche se non si tocca, qualcosa della vita dello scrittore. Io nella tua non lo sento, oppure si sente, qualche parallelismo però molto lontano, poi tu mi dici che quando leggi sei molto emozionato…
Julio Monteiro Martins:
Sì, vedi, mia madre era una professoressa di letteratura all’università che studiava soprattutto Faulkner, ha scritto un libro che ancora oggi è studiato negli Stati Uniti – sul tempo, sull’uso delle tecniche del tempo nel romanzo The sound and the fury di Faulkner [L’urlo e il furore]. Allora, siccome io non avevo il padre che era una sorta di play-boy molto bello e molto ricco e molto giovane che scompariva, trovava una fidanzata e tornava due mesi dopo e dopo una settimana partiva di nuovo, eravamo rimasti sempre io, figlio unico, e mia madre. Mia madre, per stare con me e preparare le lezioni all’università, doveva farlo insieme a me. Per cui nella mia infanzia invece di leggere Harry Potter, che non esisteva, o cose del genere, io dovevo leggere E.A Poe, Faulkner, Whitman, autori anglosassoni, infatti la mia formazione è anglosassone, non brasiliana! Mia madre quando andava a letto piena di libri diceva “Ora vado a letto con i miei mariti, mio marito non so dov’è, io vado con i miei mariti!” erano quegli autori che lei studiava. Io sono cresciuto con una certa resistenza a quella che noi in Brasile chiamiamo “letteratura confessionale”, cioè fatta da chi scrive solo per confessarsi e che in fondo non ha altro personaggio che se stesso. Credevo, e credo ancora – e cerco di trasmetterlo ai miei allievi di scrittura creativa – che lo scrittore deve essere in grado di fare quello che Clarice Lispector, grande scrittrice brasiliana, ha detto con un neologismo, outrar-se, “altrarsi”, la capacità di mettersi totalmente nei panni di un altro. Per questo nella mia opera è difficile trovare un’identità molto vicina alla mia vita personale. Però c’è un libro che è un’eccezione, è un romanzo inedito scritto in portoghese, che ho finito quando ero già in Italia, tradotto in italiano, e che si intitola “L’ultima pelle”. È assolutamente autobiografico, sono nove capitoli che raccontano nove mesi della mia vita nell’anno 1987. Nel primo capitolo parlo della morte della mia nonna che mi ha cresciuto, la casa vuota fino a che il lutto sarà completamente digerito. È la storia di un lutto, di un vuoto, ed è assolutamente vero – anche i nomi dei personaggi sono reali – è un frammento autobiografico, con la struttura di un romanzo, ed è l’unico ad esserlo tra i miei quindici-sedici libri. Una caratteristica molto forte della mia letteratura è data da quelle che io chiamo le metafore estese, perché tu puoi usare una metafora come figura di linguaggio all’interno di un testo, ma il testo intero, l’intreccio, può essere una metafora, come lo è “La metamorfosi” di Kafka. La mia opera è soprattutto creazione di lunghe metafore estese su determinati aspetti della condizione umana. Per creare queste metafore di solito creo un personaggio che non c’entra niente con me e che con le sue caratteristiche sia in grado di rispecchiare questa metafora. Ad esempio c’è un racconto scritto in portoghese, mai tradotto, chiamato “La collezione”, che è la storia di un uomo che per hobby collezionava piccoli uomini in una scatola da scarpe, e gli piaceva tanto. Allora ha dato ordini di costruire una grande scatola di legno con uno spioncino per non disturbare la quiete degli uomini, e gli uomini cominciarono a proliferare. Siccome lui viveva in un piccolo appartamento e non poteva ingrandire ulteriormente la scatola, ogni tanto prendeva una manciata degli uomini eccedenti e li scambiava con uno speciale, tipo venti per uno…solo che ebbe un problema con il lavoro che lo ha occupato per molti giorni, e non ha avuto tempo per curare la sua collezione e dunque l’ha lasciata lì, senza alimento, con tutti gli uomini che circolavano istericamente. E la scatola faceva un rumore simile a un ronzio, come un nido di api, un alveare. Un giorno tornò a casa e non sentì questo brusio, c’era un silenzio funereo, attraverso lo spioncino era tutto buio. Levò il coperchio della scatola e si sollevò un tanfo… tutti quegli uomini, tutti così speciali, erano diventati una sorta di tappeto senza forma sul fondo di quella scatola. Era disperato, non aveva calcolato che pochi giorni di disattenzione avrebbero potuto costare tanto, la fine della sua amata collezione di uomini. Allora uscì in strada così, disperato a camminare, per sfogarsi, e ha camminato tanto fino ad arrivare a un muro alto, dove si è seduto sul prato, con le spalle appoggiate a quel muro, a guardare la luna piena sopra la sua testa, senza accorgersi che non era la luna piena, ma era lo spioncino attraverso cui qualcuno lo stava guardando. Questo racconto è una metafora estesa. Si parla simbolicamente dell’inflazione, della sovrapopolazione, del controllo di caste che c’è oggi con la pubblicità, attraverso i meccanismi di induzione dei comportamenti sociali, dentro questa favola urbana contemporanea. Io creo favole, la mia narrativa è fatta di estórias. In questo personaggio c’è poco di me, Pedro serve solo per giustificare una situazione simbolica.
Artur Spanjolli:
Buzzati scrive questo tipo di racconti…
Julio Monteiro Martins:
Sì, Buzzati, infatti è uno degli scrittori che più ammiro!
Artur Spanjolli:
Sai come ha avuto l’idea del Deserto dei Tartari? Faceva il giornalista e doveva aspettare per ore che arrivasse qualcosa di importante nella sua vita, così passarono tanti anni e lui faceva le stesse cose ogni giorno, e così ha creato questa fortezza immaginaria.
Julio Monteiro Martins:
C’è un racconto di Buzzati che mi ha sempre colpito molto, poco conosciuto, che ho pubblicato sulla rivista Sagarana, intitolato “L’uomo che si dava arie”, la storia di un giovane medico che lavora in un ospedale con altri medici più anziani. Era un uomo simpatico che comunicava con tutti, solo che poi ad un certo punto ha cominciato a diventare prima un po’ antipatico, troppo fiero, distaccato, tanto che hanno cominciato a dire che si dava troppe arie perché sembrava che dovesse fare un viaggio. Un bel giorno, quello fissato per il viaggio, il medico più anziano va di nascosto vicino alla casa del giovane medico per vedere che viaggio deve fare, e vede il giovane che esce con degli angeli che lo tengono per mano. Allora capisce che il suo darsi arie era la morte. Vedete com’è intelligente questo racconto, perché quando uno persona muore all’improvviso, l’immagine inconscia della morte diventa un darsi arie. Lui ha trasferito in questa sorta di parabola questa realtà inconscia nostra della percezione della morte. Qui approfitto per aprire una piccola parentesi: tutte le letterature, soprattutto una grande letteratura come quella italiana, ogni trent’anni dovrebbero fare una coraggiosa, severa e profonda revisione del canone, e aggiornare il canone alla sensibilità contemporanea. E succede che tanti scrittori che sono considerati grandissimi sono minori in realtà, mentre autori considerati minori sono quelli più grandi. Andrebbe riconsiderato tutto il canone della letteratura italiana del Novecento, ma nessuno lo fa, è molto conservatore il sistema. Buzzati, come anche Manganelli, tanto per fare pochi nomi, devono essere rivalutati positivamente. Manganelli ha una tecnica di scrittura – ad esempio i dialoghi senza intervento del narratore, oppure l’interruzione di un testo in terza persona con interventi metaletterari del narratore – che è una novità che lui solo ha introdotto negli anni Cinquanta nella narrativa italiana. Questi scrittori meritano un posto più nobile in questa gerarchia. Non sono italianista, esprimo solo un parere da lettore straniero!
Amici, chiudiamo qua, ok? Ci vediamo domani!
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