Martedì 13 luglio h 15,30- 1° giorno

Introduzione di Julio Monteiro Martins:

- Bene, io vorrei dire solo due parole, domani pomeriggio ne parlerò di più, ora voglio solo fare questa presentazione per dare il benvenuto a voi. Vorrei dire che questo è il quarto anno, e come tutti gli anni, è un evento particolare perché è una riunione informale, è un gruppo di amici - anche potenziali, dato che alcuni non si conoscevano prima - che lavorano con lo stesso materiale e che devono conoscersi personalmente. Questo è il primo scopo di questo seminario, mettere insieme le persone, e quindi è altrettanto importante la convivenza al di fuori degli incontri ufficiali, a livello privato, durante il pranzo e la cena. Vi invito quindi a questa contiguità affettiva, psicologica, intellettuale. Una seconda cosa è che questo seminario offre la possibilità di un dibattito libero, una chiacchierata, veramente, quindi vi invito a non fare una cosa unilaterale, ma a creare un rapporto dinamico, di domande, commenti, letture di testi e tutto ciò che volete.
Ok, oggi è il primo incontro e abbiamo qui con noi Lanfranco Binni, il grande motore delle attività culturali in Toscana da molti anni, cioè è un uomo prima di tutto molto coraggioso e con una visione politica straordinaria. Ha creato “Porto Franco”, che è un’istituzione promossa dalla Regione Toscana, che mira a riscattare la Toscana, indipendentemente dal resto dell’Italia e dell’Europa, nelle sue origini come terra di confluenza di tutti i popoli. E ha creato un arcipelago di centri interculturali in tutta la Toscana – io ho avuto l’opportunità quattro anni fa di fare un giro in campus interculturale, “La cultura della parola e della scrittura”, in cui scrittori da tutto il mondo viaggiavano di città in città a incontrare le popolazioni locali. Quindi lui non solo è un brillante teorico politico ma è un uomo che fa, che promuove e realizza queste cose; poi dopo lui stesso si presenterà e vi racconterà delle sue idee e il suo programma e parlerà di questa realtà interculturale in Toscana.
Poi sarà con noi Candelaria Romero, scrittrice di origine argentina che ha vissuto tanti anni in Svezia e che già da qualche anno è in Italia. Scrive in italiano ed è una scrittrice interdisciplinare, poliedrica, scrive teatro, è attrice, regista e soprattutto un poeta che io ammiro molto poiché si tratta di una poesia di una bellezza soprattutto quando parla di rapporti interpersonali, della convivenza tra uomo e donna, della vita domestica: riesce a vedere queste sfumature dei rapporti interpersonali con intelligenza, con la sensibilità di chi capisce certe sottigliezze e certe ambiguità dei sentimenti in un modo straordinario. E spero che Candelaria ci possa leggere qualche sua poesia, oltre al teatro, per mostrare a voi questo suo lavoro poetico che è di altissimo livello e qualità.
Ora lascio la parola a Lanfranco Binni. Grazie.

 

Intervento di Lanfranco Binni:
Dopo la presentazione di Monteiro ho qualche difficoltà, nel senso che vorrei dirvi poche cose, molto leggere, perché in realtà questo è un momento di viaggio come tante altre iniziative di questo tipo e dobbiamo diventare tutti molto esperti nel viaggiare anche stando fermi e andare in profondità sulle dinamiche delle relazioni tra culture che poi significa tra persone, significa tra concrete esperienze e vissuti di donne e uomini, nativi, migranti, giovani, anziani. È vero che da alcuni anni qui in Toscana sta accadendo un fenomeno interessante: da cinque anni abbiamo cominciato a dichiarare la Toscana “porto franco” dei popoli, delle culture, delle persone, e non solo delle merci e dell’economia. “Porto franco”, cioè terra di libero scambio, incontro, confronto, apparentemente senza regole, se non quelle del rispetto totale delle diversità – questa è una regola su cui abbiamo insistito continuamente! Abbiamo così avviato un processo di sviluppo interculturale della società toscana; nella fase attuale della globalizzazione, delle migrazioni, delle guerre, abbiamo fatto la scelta di dedicare la massima attenzione al potenziale umano delle persone che si trovano su questo territorio, per sviluppare processi autonomi rispetto a una globalizzazione finanziaria devastante che produce appunto le guerre, e rispetto a dei fenomeni che non vanno subiti ma con cui bisogna interagire positivamente. Non c’è nessuna ragione di subire nulla, la Toscana come tutti i territori forti di una sua tradizione di scambio continuo con altre culture perché gli Etruschi erano di cultura greca, ellenistica insomma - non erano padani!- , quindi abbiamo alle spalle una ricchissima esperienza di relazione con gli altri, con momenti autoreferenziali durissimi, è una terra che ha anche molta violenza e ha storia anche di questo tipo. È una società ancora molto maschile, con un modello androcentrico che nella popolazione non è molto messo in discussione. Dunque per noi intercultura, il processo interculturale significa entrare proprio sul terreno di queste dinamiche sviluppando processi di trasformazione, per esempio rispetto alla questione fondamentale che è il confronto di genere tra donne e uomini, sviluppando delle esperienze di relazioni diverse in cui non ci limitiamo a riconoscere il contributo importantissimo del femminismo e del post-femminismo alla cultura contemporanea, ma cerchiamo anche di coinvolgere quegli uomini che non si riconoscono più nel modello androcentrico di società in cambiamenti effettivi di relazione. Allora abbiamo laboratori in giro. “Porto franco” significa esperienze, situazioni: la cosa straordinaria è che il processo del tutto immateriale, cioè un’idea progettuale di apertura della Toscana al confronto con la complessità e tutto il resto, è diventata nel giro di cinque anni un processo reale, cioè ci sono un centinaio di centri interculturali, situazioni con persone che si occupano a fondo di queste tematiche – vi faccio un solo esempio: dei 98 centri di “Porto Franco” a Siena c’è nell’ex ospedale psichiatrico un centro sociale chiamato La corte dei Miracoli, bellissimo nome, che comprende 16 associazioni composte da cinquecento tra donne, uomini, giovani di Siena che fanno di tutto, dai corsi di alfabetizzazione a corsi di lingua, lavori di videoarte, c’è una radio con una redazione multiculturale, con dentro cioè non solo gli italiani ma anche presenze di altre culture molto concrete, ci sono degli hackers bravissimi, maestri nel fare operazioni di vario genere in rete. Questo è un esempio di centro interculturale. Ci sono dentro donne e uomini, giovani e anziani, ci sono ad esempio alcuni ex internati del manicomio – il manicomio di Siena è stato uno degli ultimi a esser chiuso qui in Toscana, perché c’erano dentro persone con difficoltà gravi, per cui il processo è stato più lento che altrove – e dunque ci sono ancora delle persone che sono vissute nell’istituzione per tutta una vita e sono ancora prigioniere del luogo, per cui anche ora, liberate, girano lì, per quelle stanze, e sono entrate anche loro nella Corte dei miracoli e attualmente ricevono molto amore, affetto che è il terreno vero della comunicazione, al di là delle parole. La cosa straordinaria è che una buona idea progettuale di trasformazione e apertura è diventata poi processo reale, c’è una legge regionale ad esempio che dice che le pubbliche amministrazioni devono impegnarsi su questo terreno, devono fare in modo che le politiche culturali educative e sociali convergano su obiettivi interculturali, ci sono finanziamenti forti, non più soltanto regionali come all’inizio che hanno dato una grossa spinta per sostenere questo processo, però puntando sempre all’obiettivo della capacità endogena dei territori di fare da sé e anzi arricchire il processo e svilupparlo ulteriormente in autonomia. Oggi sta succedendo questo che è un processo interessante. Ora, Monteiro parlava di un campus nomade di attraversamento della Toscana con scrittori, scrittrici, poeti, poetesse, fatto nel 2000: una trentina di persone di cui faceva parte anche Monteiro ha vissuto insieme per un mese lavorando all’interno del gruppo che dopo il terzo giorno cominciò a formarsi, perché le dinamiche interpersonali se osservate con una certa attenzione poi sviluppano delle risorse straordinarie. All’inizio da tutto il mondo, perché la composizione di quel gruppo era profondamente eterogenea, c’era Fatumata dal Mali, c’erano pochissimi italiani, c’era “Captain Black” (Pape Diaw) che ora lavora nella direzione di Porto Franco e che è senegalese, leader dei senegalesi in Toscana. Quelle trenta persone quando arrivarono siccome erano tutte non genericamente in rapporto con la letteratura e la scrittura, ma le avevamo scelte in ragione della loro qualità, persone cioè che ci interessava avere in Toscana, e tutte avevano quindi un forte bagaglio personale. Arrivarono tutti con le loro valigie, metaforiche, cioè con i loro linguaggi , con le loro esperienze, con i loro libri, e dopo due o tre giorni saltò tutto, nel senso che siccome noi siamo anche po’ stronzi, perché usavamo un ritmo molto serrato in modo che ognuno di noi perdesse le difese di riferimento che costituiscono le nostre piccole sicurezze e rafforzano i limiti – in realtà io sono sicuro che siamo sottodimensionati rispetto alle nostre potenzialità, basta pensare che noi 200 anni fa la pensavamo in un modo molto meno complesso di oggi, e questo sottolinea il fatto che la specie si sta evolvendo, sta sviluppando potenzialità e tra un po’ probabilmente riusciremo a vedere cose che oggi non vediamo neppure, succede così, no?-. allora tutti arrivarono con i loro bagagli, saltarono rapidamente le difese con un ritmo anche celere di attraversamento di situazione in situazione, nel senso che in uno di quei gruppi che si formò, cominciò ad avere un livello di attenzione sempre più alta rispetto alle altre persone e rispetto a quello che incontravano per la strada, per cui c’erano degli incontri di brain storming destrutturato in cui Monteiro con la sua cantilena brasiliana affascinava tutti, oppure una ragazza del Mali che parlava solo francese e che comunicava con grande intensità. Dunque grande stupore, dopodiché dopo un’ora circa di brain storming c’era l’arrivo di persone non so di un paese di vecchi contadini – avevamo cominciato nel Casentino – che cominciavano con l’ottava rima – il modo tradizionale di fare poesia in molte delle nostre zone, ed è una tradizione forte, ci sono ancora persone anziane che la praticano e alcuni giovani che cercano di ereditare quest’arte –, oppure c’erano incontri con una casa del popolo dove c’erano altre persone… un bombardamento pazzesco e dopo tre giorni eravamo tutti cotti, in senso positivo, pronti a cercare insieme i luoghi comuni, i luoghi comuni che si costruiscono a partire dalle diversità di ognuno di noi, e è questa la questione. Noi abbiamo bisogno di costruirci i luoghi comuni tra le culture: l’intercultura non può limitarsi al confronto culturalista tra tradizioni – non è questa l’intercultura!- l’intercultura è processo di trasformazione di stati di coscienza, è creolizzazione. Glissant è uno dei nostri maestri, e sostiene infatti che dall’incontro mai casuale tra culture diverse nascono culture nuove, nascono linguaggi e ruoli nuovi. Questo è il terreno, di frontiera, molto visibile insomma, su cui noi ci stiamo muovendo. In realtà noi vorremmo che la Toscana partecipasse con un ruolo attivo al confronto con la complessità dei mondi sviluppando una cultura creolizzata, in cui si possano incontrare in un corto circuito straordinario il passato e il presente, Dante e Glissant, l’archeologia e l’arte contemporanea. E sta succedendo, succede che è andato completamente in crisi un modello di meccanismo di riproduzione delle tradizioni, nel senso che l’autoreferenzialità non porta più da nessuna parte e invece si è creato uno spazio enorme, nuovo, per concezioni della multidimensionalità delle culture, che vuol dire multidimensionalità delle persone – pensiamo che abbiamo strati geologici dentro di noi – e vuol dire riuscire ad avere il senso dell’attraversamento diacronico e sincronico della complessità e riuscire ad esempio a fare corto circuito tra un reperto archeologico – si pensi ad esempio all’”ombra della sera” come ha già fatto Giacometti, reperto etrusco del settimo secolo a.C. che è stata chiamato così nell’Ottocento, che però presenta quel tipo di linguaggio che tende all’astrazione e che è modernissimo e che potrebbe trovarsi benissimo all’interno della poetica di Giacometti, e che si presenta come uno dei tanti esempi di attraversamento diacronico di una tradizione. Allora, noi partendo dal presente, dobbiamo essere molto abili a riconoscere quello che si muove orizzontalmente intorno a noi, interessarci cioè a tutto ciò che sta accadendo nei mondi oggi, con dei punti di vista nostri. Ad esempio noi non siamo d’accordo con la globalizzazione delle guerre, siamo d’accordo con la globalizzazione dei diritti dello sviluppo delle potenzialità delle persone. Un’altra globalizzazione, insomma! Non siamo d’accordo con la globalizzazione finanziaria che mercifica tutto e tutti, siamo per una globalizzazione di relazioni. Il pianeta, che è piccolo, deve poter essere attraversato liberamente da tutto e da tutti e ognuno deve vivere fino in fondo le proprie possibilità. Questo è un sogno utopico, sì, ma è concreto, nel senso che poi è l’unica alternativa possibile agli inferni che abbiamo intorno! Noi stiamo lavorando su questo. Nel campus di cui parlava Monteiro, noi cominciammo a costruire un dizionario dei luoghi comuni, che conteneva delle parole nel doppio senso di stereotipi da decostruire – banalità – e l’altro senso di terreno comune su cui cominciare a pronunciare in modo diverso alcune parole però in maniera comune. In trenta giorni di lavoro, facendo come i fiori, cioè chiudendosi e aprendosi continuamente, chiudendosi nel gruppo per ragionare, scambiarsi opinioni, imparare ad ascoltarsi, apprezzare il silenzio – cosa che non vi faccio sperimentare in questo momento ma che è una grande cosa! – , accettando i tempi morti, e cominciando a individuare delle parole che potevano essere pronunciate da tutti. Ne isolammo una trentina che poi pubblicammo con l’idea che ognuno di noi, tornato poi nei propri paesi alla fine di quell’esperienza di un mese, continuasse a lavorare. Io non lo so se qualcuno ha continuato; per alcuni mesi ho mantenuto i contatti con alcuni del gruppo. Tra le parole isolate ricordo sincretismo, costellazione, isola. Quello per esempio è un lavoro che noi vorremmo continuare a sviluppare, sarebbe importante, e il fatto che qui a Lucca esista intorno a Monteiro una scuola di scrittura che poi è un momento di confronto, apprendimento, scambio, passaggio e transito di persone diverse è molto importante. Probabilmente possiamo riprendere alcuni percorsi iniziati perché quello che è successo quattro anni fa in termini storici è uno sputo nell’oceano, nel senso che quattro anni sono nulla, sono tanti e nulla sostanzialmente, mentre alcuni segni positivi con i loro tempi di maturazione possono di nuovo svilupparsi. Qui ad esempio stiamo facendo uno studio di analisi sull’esperienza di cinque anni di Porto Franco e abbiamo visto che il momento dei campus internazionali del 2000 – ne abbiamo fatto uno sulla cultura della parola e della scrittura, un altro sulle culture delle religioni, composti da una trentina di persone da tutte le religioni possibili, comprese le grandi varietà del cristianesimo e dell’islamismo, che hanno convissuto insieme progettando un laboratorio per l’educazione al “pluriverso religioso”, su cui poi qualcosa è stato fatto. C’è stato poi un altro campus internazionale sulle culture delle donne, con donne da molti paesi, e ci fu un confronto interessantissimo tra le femministe italiane e le immigrate che in Italia vivono in condizioni materiali del tutto diverse, per cui mille dinamiche… poi ci fu un altro campus sulle culture dell’abitare, cioè su come vivere, che tipo di relazione avere con lo spazio urbano – le nostre città sono a misura dei diritti di cittadinanza? –, un altro sulla cultura e la storia della memoria, altra questione fondamentale, a partire dal presente. Però ad esempio il campus sulle culture dell’abitare, un prodotto utilissimo lo realizzò perché il risultato di quel campus in cui lavorarono insieme per un mese architetti, urbanisti da tutto il mondo che si erano incontrati in situazioni tipologicamente diverse della Toscana, dalle periferie degradate come Le Piagge di Firenze, dai campi nomadi, ai centri storici, consentì il nascere di una carta della progettazione interculturale che oggi è usata dagli uffici tecnici dei comuni, nel senso che devono tenerne conto, con alcuni principi soprattutto quello che quando si progetta uno spazio urbano bisogna tener conto soprattutto delle esigenze delle popolazioni locali, quindi progettare insieme alle popolazioni – cosa che viene fatta abitualmente nel Nord Europa, mentre da noi no e va sviluppata. Questo vostro seminario è importantissimo come ogni cosa su cui persone intelligenti si incontrano per cercare di capire e costruire dei fili di relazioni. A Sagarana vorrei fare una proposta che ho accennato prima a Monteiro, però la propongo qui: noi stiamo organizzando come Porto Franco, per il prossimo anno a primavera, quella che sarà la prima mostra di arte araba contemporanea in Europa. Una mostra vera, con moltissime presenze di artisti da tutta l’area del Maghreb, in modo da rappresentare una grandissima ricchezza a quasi tutti noi ignota, perché ci sono state delle iconografiche al Pompidou di artisti egiziani, siriani, però una mostra di arte araba contemporanea non è mai stata tentata. Allora la stiamo organizzando, tra l’altro con delle grandi sorprese, ci sono soprattutto giovani e giovanissimi che fanno cose interessantissime in Egitto, nei territori occupati, in Israele, però vorremmo non fare una mostra di arti visive o figurative, i linguaggi dell’arte sono per noi una forma dei linguaggi culturali, in realtà noi vorremmo che fosse un momento di forte riflessione e conoscenza sulla cultura araba contemporanea, partendo da alcune punte, dai linguaggi più di sintesi, come la poesia, come l’arte, che sono i linguaggi in cui le persone si assumono responsabilità di tentare delle sintesi nuove. Allora non mi dispiacerebbe se, mentre a Siena, nel Palazzo delle Papesse c’è questa grande mostra sull’arte araba contemporanea – e ci sarà anche un programma dell’Accademia Musicale chigiana sui rapporti tra tradizione musicale araba e tradizione musicale italiana, partendo anche lì dall’epoca contemporanea – non mi dispiacerebbe se a Lucca, dove esiste l’esperienza positiva di Sagarana, ci fosse un momento di riflessione sulla letteratura araba contemporanea con il coinvolgimento di scrittori migranti che scrivono in italiano e che sono i naturali ponti verso la complessità di una cultura che viene presentata appunto con una serie di stereotipi che noi invece vorremmo conoscere senza schermi. Grazie.

Julio Monteiro Martins:
Bene, a questo punto vorrei introdurre Candelaria Romero, attrice e scrittrice argentina. Figlia di genitori scrittori, nel 1976, all’età di tre anni, per seguire il padre, vive l’esperienza dell’esilio dal suo paese verso la Bolivia, ed in seguito, sempre per sfuggire alla dittatura, verso la Svezia. Dal 1992 vive in Italia dove svolge attività teatrale e di educazione all’intercultura. Da alcuni anni collabora con le associazioni Amnesty International ed H.I.J.O.S. portando per l’Italia la sua testimonianza ed i suoi spettacoli.

Candelaria Romero:
Grazie. Volevo ringraziare Julio per quest’invito e per aver accolto anche tutta la mia famiglia in questa città. E vorrei anche ringraziare Cristiana per tutto il lavoro che fa dietro le quinte.

(lettura del testo “Hijos” che riportiamo qui di seguito)

HIJOS

Prologo
C’era una volta una bambina che fece tanti viaggi, tanti, tanti.
Viaggiò. Viaggiò lontano, fino a dimenticare, fino ad allontanarsi.
Diventò nulla, diventò tutto ciò che aveva visto. Diventò nulla di tutto ciò.
Finché un giorno dovette fermarsi. Si fermò, e poi si sedette e poi raccontò. Raccontò e raccontò. Tutto ciò che aveva viaggiato, raccontò. Tutto e nulla raccontò…
E così raccontando viaggiò, viaggiò ancora. Viaggiò.
C’era una volta…

 

Prima scena

C’era una volta un Piccolo Uomo, piccolo, piccolo che a tutti i costi voleva diventare grande!
Non sapeva però come farcela. Tutte le notti pregava alla sua buona stella.
Nel posto dove lui abitava le stelle erano enormi e si vedevano nel pieno del loro splendore.
Pregare a loro era molto naturale.
Il Piccolo Uomo viveva in una scuola, era piccolo, studiava ancora. Aveva la fortuna di abitare proprio nella sua scuola.
Tutte le mattine si svegliava in una stanza bianca, beveva il latte che lui stesso si procurava e poi leggeva le pagine candide dei suoi libri, prima di accompagnare il gregge a pascolare. Si! Perché voi non lo sapete, ma il Piccolo Uomo era anche un pastore.
Trascorreva le sue giornate tra i libri, le pecore e le pentole di sua madre; Concepciòn.
Era una madre silenziosa, di carnagione scura e con il naso piatto e largo.
Aveva gli occhi sognatori, quello sguardo che solo le donne del Sud hanno, quando ricordano, e mentre Concepciòn sognava mescolava nelle sue pentole il cibo per i bambini.
Lavorava sodo tutti i giorni; preparava la mensa scolastica, sfornava le merende e riscaldava il caramello che copriva i chupa-chupa alla mela candita!
Il Piccolo Uomo non giocava con i suoi compagni durante la ricreazione, eh no! Doveva aiutare Concepciòn a vendere i dolci, per pochi soldi, si sa, perché in quel paese a nessuno avanzavano i soldini.
Crebbe il Piccolo Uomo, lottando con i tori, cercando pecore smarrite nel buio dei monti, tra leggende di paura, paure contadine, paure fantastiche, di quelle terre sperdute.
Un giorno arrivò la notizia che una bella signora di nome Evita regalava a tutti cose di cui si aveva bisogno; ai più piccoli giocattoli ed ai più grandi lavori ed altre sicurezze.
In quel periodo particolare della vita del Piccolo Uomo successero grandi miracoli!
Conobbe L’Amore.
Evita era una bella signora! Vestiva abiti così eleganti da meritarsi dei nomi; si chiamavano Chanel e venivano da posti lontani e nelle foto delle riviste lei appariva come un Angelo, bionda, sorridente, luccicava proprio come le stelle del Piccolo Uomo. Lei prometteva belle cose, così, al Piccolo Uomo arrivò per Natale il giocattolo dei suoi sogni; un bel camion di legno! Era il camion più bello che avesse mai visto, e comincio a trascorrere le sue giornate, oltre i compiti che già conoscete, a trasportare pietre da un posto all’altro.
Erano belle epoche! La sarta del paese ebbe addirittura in regalo due macchine da cucire, per sbaglio, perché una l’aveva ricevuta per Natale e l’altra poco dopo, cosi quando le chiedevano come andavano i suoi lavori lei ti rispondeva con quel sorriso sdentato e facendo dei gesti con i due piedi, intendeva che senz’altro lavorava a doppio ritmo!
Furono Natali per tutti, ogni bambino riceveva a scuola un paio di scarpe per ogni stagione ed un cesto con dentro il panettone e lo spumante.
Ma ogni tanto, nonostante tutto ciò, gli occhi del Piccolo Uomo diventavano tristi, come quelli delle donne sognatrici del Sud e dentro nel suo cuore di piccolo toro ferito cominciavano a nascere versi, canzoni.
Poesie.
Spesso passava le serate al bar, quello di fronte alla piazza, e leggeva ad alta voce agli anziani del posto, l’unico giornale che arrivava in paese, oppure le lettere d’amore delle signorine, che nonostante la loro età non sapevano leggere, o le ricette che le mamme ritagliavano dalle riviste. Ma quando il vino riscaldava le vene nostalgiche dei compari, il Piccolo Uomo si metteva sopra i tavoli e recitando dei versi a memoria intonava il tam-tam delle canzoni stordite dalla grappa!
Concepciòn invece passava le sue serate fra pentole e memorie.
Ricordava quell’uomo che anni fa l’aveva abbandonata ed ogni tanto, spesso, dimenticava il mondo.
Tutto diveniva parte dello sguardo pensieroso e lontano di Concepciòn.
Dimenticava i figli, attraversava le strade e li lasciava dalla parte opposta e lì rimanevano loro per ore ed ore ad aspettarla! Dimenticava perfino le pentole e di sfamare il Piccolo Uomo e le sue sorelle. Cosi nell’attesa si sedevano nel cortile della scuola e con dei rami spezzati degli alberi tracciavano sulla sabbia le sagome dei loro piatti preferiti e sognando l’aroma andavano a letto continuando a fantasticare.
Un giorno Concepciòn si dimenticò perfino di sé stessa e rimase in una stanza bianca, sola, e nemmeno le piogge primaverili e le tempeste d’estate ebbero modo di farla ritornare su questa terra! Era rimasta lì, in un angolo di una selva immaginaria, immersa nel canto degli uccelli tropicali, in quel posto verde che una volta era stata la sua terra, e lì rimase per sempre.
Passarono molti anni ed il Piccolo Uomo era diventato un bel giovanotto ma non si era dimenticato del suo forte desiderio di diventare grande, così andò in città per lavorare.
Non furono anni facili perché lui non trovava sulle strade asfaltate della città il profumo della terra umida, l’ansimare dei tori in calore, il grido dei compari, ma ovunque andava e chiunque lui incontrava, cercava e cercava negli sguardi le immagini perse di un cortile, di una scuola, ora mai abbandonata…
Lui voleva crescere, a tutti costi, ma aveva nostalgia, così un bel giorno si mise a scrivere.
Poesie.
Andava nei parchi dove sapeva di ritrovare i fiori ed i colori che servivano per le metafore, e li conobbe degli uomini (Angeli) che senza farsi vedere da nessuno custodivano il verde di tutto il mondo! Conobbe il loro linguaggio, i loro canti, i loro alito, il loro sbatter d’ali, conobbe le loro preghiere, il segreto della Poesia.
Conobbe un altro Amore!
Lei. Lei era una ragazza bianca, profumata ed educata. Credeva in Cristo e studiava lettere ma soprattutto anche lei sognava e scriveva. Poesie.
Fu amore, amore proibito, amore brutale, amore passionale! Dopo poco tempo nacquero due figlie!
Furono anni felici. Il Piccolo Uomo lavorava di giorno e di notte scriveva. Lasciava Lei spesso da sola per andare a spasso con gli amici. Loro si che avevano negli sguardi la poesia e per la poesia si faceva di tutto, ci si dimenticava di mangiare, di tornare a casa…ci si dimenticava di avere una moglie, di essersi sposati. Il Piccolo Uomo sussurrava parole dolci nelle orecchie di donne dagli occhi sognatori e nulla poteva farlo sentire così lontano da questo mondo e così vicino alle stelle, le stelle brillanti del Piccolo Uomo!
Iniziarono tempi strani. Amici sparirono. Molti amici. Ci furono bombe. Bombe e granate.
Ci furono proteste, proposte, promesse. Grandi promesse fatte da uomini potenti che dall’alto alzavano il dito, bastoni, fucili ed altri attrezzi per zittire.
Il Piccolo Uomo oramai conosciuto per le sue poesie, in città divenne pericoloso, perché aiutava quelli come lui, i piccoli che come lui sognavano di cambiare il mondo. Non con le bombe.
Con la sua macchina da scrivere batteva i testi delle manifestazioni, i discorsi, i volantini.
Il Piccolo Uomo conobbe con il tempo liste nere, sbarre chiuse, stanze buie e sotterranee. Mani su corpi bendati; dita esperte che contro il silenzio medicavano con camice di forza, giochi subacquei, scariche elettriche.
Il Piccolo Uomo imparò nel buio delle stanze a riconoscere voci e preghiere, linguaggi inventati, linguaggi immaginati, cantilene di madri, ninna-nanne per figli mai più ritrovati.
Imparò a riconoscere i passi pesanti di stivali, passi di piedi nudi, passi di piedi piccoli e il passo di tutto un corpo intero, trascinato, come se la carne fosse un pezzo, un pezzo verso un pozzo. Verso una fossa profonda.
Anche lui, il Piccolo Uomo, fu toccato, medicato. Spezzato.
Solo il ricordo di una coperta calda contro le pareti fredde potevano portarlo via, via da li, come una poesia, via da lì per un attimo!
Lui non sapeva pero dove si trovava ma dalla sua minuscola finestra poteva vedere, nei giorni fortunati, passare l’ombra della gente. Vedeva le loro scarpe, scarpe belle, scarpe stanche, scarpe di fretta, scarpe dell’ultima moda, scarpe colorate e luccicanti ma mai erano cosi splendenti come le stelle, le stelle oramai lontane del Piccolo Uomo!
Un giorno arrivarono gli amici. Non lo avevano dimenticato! Forse le scarpe la fuori avevano parlato! Miracoli potevano ancora succedere! Miracoli successero allora! Il Piccolo Uomo fu liberato, fu salvato! Ma loro, le scarpe, non videro mai ciò che il Piccolo Uomo vide li dentro e lui non poté raccontarlo a nessuno. Preferii scrivere versi, disegnare uccelli di fuoco, lavare la gola secca con baci estranee e con la sua mano sudata trasformava le lacrime in vino, vino per dimenticare, vino per poter amare ancora!
In molti morirono. Scomparvero. Fuggirono. Ed alcuni rimasero.
Il nostro Piccolo Uomo, toro paesano, dovette lasciare le piogge d’estate, il grido dei compari, ed andare lontano, lontano. Lascio i fiori nei parchi, i disegni sulla sabbia ma non lasciò mai le sue stelle sole.
E lei? Lei, dovette scegliere, se amarlo, se seguirlo. E i suoi cuccioli? Dovettero scegliere, e scelsero; per paura, per terrore. Per amore.
Era un paese tutto verde.
Il Piccolo Uomo era con il tempo diventato barbuto, sudava e sprigionava un odore amaro. Vestiva camicie bianche e spesso andava a nascondersi in vicoli dimenticati, in case sconosciute. A volte beveva; per calmare le lacrime salate che uscivano dai suoi occhi e gli impedivano di vedere chiare le stelle nel cielo.
Arrivarono tempi solitari, trascorsi in case di altri. Intere giornate occupate soltanto nel tentativo di capire, d’imparare altre lingue, altri modi. Notti bianche, dove strani animali irrompevano le vasche dei bagni e nemmeno sotto il sole afoso non si pensava ad altro che alle cose lasciate, la terra, le pentole. Le Poesie.
Il Piccolo Uomo non capiva se questo era crescere o morire, ma non faceva differenza, doveva sopravvivere.
E Lei? Lei lo seguiva, aveva le figlie, chiedevano cose, doveva rispondere, e poi, credeva in Cristo! Era educata e perfino in queste condizioni era ancora profumata.
Diceva che la vita ora era questa. Prendeva pastiglie per dormire, pastiglie per calmare le lacrime, le cose perdute e le ferite; impronte di rabbia che Il Piccolo Uomo lasciava sulla sua pelle. Le dita di un uomo che prima la avevano accarezzata ora sapevano solo toccarla così; taglienti, pesanti, ora anche quelle mani spezzavano.
Ci furono altri spostamenti, lunghi viaggi, continenti. Acque gelide, borse svuotate, controlli, biglietti, frontiere passate.
Amici, tanti amici, amici dimenticati, amici rinati e ritrovati. Amici grossi, grossi come delle case, case accoglienti ed aperte. Nuove case, nuovi viaggi dove crescere, ed un nuovo paese!
Era un paese tutto bianco.
Perfino le mani, i gesti, lo sguardo, le parole; tutto bianco. Ma le cose più bianche erano le lenzuola, ed era il posto dove il Piccolo Uomo trascorreva gran parte delle sue giornate. Scriveva, dormiva, a volte sbatteva la testa contro le pareti, gemeva, beveva (e lo sapete già perché) e poi cresceva; il corpo del Piccolo Uomo cresceva!… Era diventato grosso e grasso e con gli occhi neri, molto neri e molto tristi.
Lei. Cosa dire di Lei? Era una madre, una suora, una strega. Era tutto. Era Poesia e cibo, era corpo e idea, era pane e dolciume, era lavoro e soldi, era strategia ed infermiera, era linguaggio, era separazione. Era una donna, una donna in mezzo ad una guerra.
Il Piccolo Uomo e la sua famiglia erano sopravvissuti a tante battaglie. Gli uomini potenti erano oramai lontani e nel paese bianco ebbero rifugio e li vissero, il Piccolo Uomo, Lei e le figlie.
Le figlie crebbero nel paese bianco, giocarono con la neve, scrissero anche loro poesie, ebbero scuole, ebbero amici, ebbero amori, bianchi come la neve, ebbero sogni, meno bianchi dei sogni degli altri bambini.
Diventarono grandi, viaggiarono, amarono uomini da paesi lontani, partorirono figli, a volte solo piccole poesie incompiute. Non diventarono mai bianche, oramai facevano parte di altri viaggi, altri colori. Non fecero mai grandi cose ma nel loro sguardo avevano ereditato il luccichio, il luccichio delle stelle, le stelle lontane del Piccolo Uomo.
Un giorno successe qualcosa, nessuno sapeva cosa fare. Il Piccolo Uomo cresceva e cresceva, ma non si riusciva a vedere da fuori dove cresceva! Qualcosa cresceva dentro di lui e gonfiava i polmoni. Impediva al Piccolo Uomo di respirare, d’amare con violenza, come aveva amato, di inseguire le avventure, come aveva fatto, di consumare le passioni più profonde, come li aveva divorate.
Il Piccolo Uomo oramai grigio nei capelli soffriva molto perché il male era grosso ed impediva lui di scrivere, di parlare, di camminare. Impediva lui di essere piccolo.
Il Piccolo Uomo vide improvvisamente i suoi giorni contati, vide le sue stelle contate nel cielo, i fiori, quelli lasciati nei parchi del Sud, anch’essi contati. Vide i viaggi contati, le piogge e le lacrime contate come i suoi anni, come i suoi libri, come le sue Poesie.
E intanto…intanto Lei lo seguiva, delicata, un po’ stanca, finché un giorno il Piccolo Uomo decise di viaggiare, di andare via, di ritornare al suo paese per non morire solo in quel paese bianco, dove comunque non si capiva nulla, e per poter continuare ad amare!
Lei promette di seguirlo, ancora una volta, per l’ultima volta.
Capiva che solo i cani muoiono lontani dalle loro terre.

Altre valigie, altre scatole e scatoloni ed una casa intera nelle scatole, in una nave, tra acque gelate, verso terre conosciute.
Altri biglietti, altri vestiti ed altri sudori.
Altre case, altri amici, altri incontri e ritrovi.
Furono ore decisive, corse, ospedali, raggi e medicine.
Furono viaggi, fotografie. Furono mostri e magie!
Finalmente il Piccolo Uomo era ritornato alla sua Terra; Lui, Lei e le figlie.
Tutti vennero a trovare il Piccolo Uomo. Tutti lo seguirono, fin dove si poteva, fin dove le stelle non interrompevano. E lì, in un angolo di una stanza colore cielo chiuse con un bacio il Piccolo Uomo e Lei il loro lungo viaggio.
E conobbe un altro aMore.

Epilogo

Un ‘ultima cosa, sulle storie…
Una volta chiesero ad un vecchio paralitico di raccontare una storia. Raccontò la storia di un santo, di un santo che mentre pregava soleva danzare e saltare. Il vecchio, raccontando la storia, si coinvolse talmente tanto che iniziò a danzare ed a saltare anche lui, e cosi fu guarito… per sempre.

FINE.
(applausi del pubblico)

Julio Monteiro Martins:
Allora, Candelaria, è difficile dopo un discorso così poetico e allegorico tornare alla vita, però questo è anche un’opportunità di conoscerti, anche il tuo percorso. Io un po’ lo conosco, siamo stati insieme a Chiavari e mi ha molto colpito soprattutto il rapporto di Candelaria con le lingue, con lo spagnolo, lo svedese e con la lingua italiana. E tutte queste lingue è come se avessero sviluppato delle donne diverse, in un certo senso, e io vorrei insomma che tu raccontassi a noi, così come hai fatto a Chiavari, un po’ questo tuo percorso.

Candelaria Romero:
D’accordo. Il chiedermi l’importanza delle lingue è iniziato soprattutto adesso, in Italia, quando ho conosciuto degli scrittori stranieri che scrivono in italiano. Ho letto molti articoli e molti pensieri di queste persone che ritengono giusto e naturale scrivere nella lingua italiana, pur essendo persone che magari hanno vissuto gran parte della loro vita, adulta magari, nel loro paese natio. E quindi mi chiedevo cos’è che spinge una persona adulta quando arriva in un paese straniero a lasciare la sua lingua materna e a scrivere in una lingua che non conosce fin dall’inizio, e ho iniziato a chiederlo a me stessa, ma la risposta non c’è stata in realtà, perché è molto difficile, magari partendo dalla mia esperienza personale che è quella di una bambina che si sposta tre anni in Bolivia, comunque rimanendo nella lingua spagnola, che poi a sei anni si sposta in Svezia, quindi all’altro capo del mondo, dove impara una lingua in modo naturale, perché a sei anni noi abbiamo imparato lo svedese nel giro di sei mesi con mia sorella e a sei anni sei molto aperto e molto veloce a imparare le lingue. Impari perché impari scrivendo, con gli altri coetanei di sei anni, no? E in Svezia ho iniziato a scrivere le poesiole da bambina e per me era naturale scriverle in svedese, non mi sarebbe mai venuto in mente di scriverle in spagnolo. Lo spagnolo era una lingua che io parlavo con i miei genitori ma in modo molto forzato, perché non mi piaceva, perché mi sentivo diversa dagli altri bambini; infatti io e mia sorella parlavamo svedese insieme e i miei genitori facevano i finti sordi quando noi rispondevamo in svedese e dicevano che non capivano e che dovevamo rispondere in spagnolo. E hanno fatto bene, io ringrazio loro per questa testardaggine, perché così io ho potuto ancora avere la lingua spagnola in modo vivo e dentro di me. Però ho anche avuto la fortuna di abitare in una società, quella svedese, che all’epoca era molto avanti anche con l’insegnamento della lingua materna per i ragazzi nelle scuole, per cui noi avevamo due ore alla settimana interamente dedicate alla lingua materna, un insegnante che veniva anche solo per un allievo, a insegnare letteratura, grammatica, scrittura in madrelingua e così almeno si rispettava questo diritto.
Questo poi accadeva alla scuola dell’obbligo, e per me questo è molto importante.
Per me quindi chiedermi questa cosa è stato quando sono arrivata qua e quando ho iniziato a scrivere in una terza lingua e mi chiedevo perché non mi viene naturale scrivere in svedese, dato che ha fatto tutta questa lotta per farlo divenire mio, naturale? Però non potevo dar ragione completamente, e infatti sono molto in conflitto con questo pensiero di scrivere in italiano. Alla fine penso che per me lo spagnolo è stato un linguaggio “di carne”, molto fisico, molto materno perché arriva da mia madre; lo svedese una lingua della crescita, della gioventù, dell’adolescenza, del passato – io torno ogni anno in Svezia, e quando arrivo lì mi pare di essere straniera perché non ho più l’accento svedese… e quando torno qua dopo un mese in Svezia ho l’accento svedese mentre parlo italiano ed è veramente una confusione…- invece l’italiano è diventata la lingua del presente, la lingua con cui io sogno, perché quando dormo io sogno in italiano, i sogni sono in italiano. Io però sono ancora combattuta: l’italiano lo scrivo con una grammatica pessima, così come scrivo lo spagnolo con una grammatica pessima perché alla fine l’ho studiato poco. Lo svedese è l’unico linguaggio con cui scrivo bene ma non è la lingua del cuore. Dunque come mettere insieme tutte queste cose? Non si mette insieme!

Domanda della spettatrice Alessandra Gezzani:
Ecco, nei confronti ad esempio del Paese in cui sei nata, con tutto ciò che accade da un punto di vista politico, non solo economico, qual è il sentimento che provi? Ti senti, non so, una cittadina costantemente su una zona di frontiera, oppure hai dei sentimenti contrastanti nei confronti di questi paesi, o qualcuno è più vicino a te? Giustamente tu dicevi che c’è una lingua del cuore, una lingua del presente, ed è una cosa molto bella che mi rende con concretezza almeno una parte dei tuoi sentimenti, però nel profondo ti senti in una zona ibrida, costantemente come scrittrice, proprio, come artista?

Risposta di Candelaria:
Mi trovo d’accordo con una visione complessa della realtà, proprio come ha detto prima Lanfranco. Sento che la realtà è molto complessa, e non ho nessuna intenzione di semplificarla…no? E allora noi siamo questo, tutta la difficoltà di mettere insieme queste cose e nell’adolescenza – come tutti gli adolescenti che si chiedono “chi sono, dove vado” eccetera – me lo sono chiesta, non ho trovato risposta o forse me la sono creata in modo fittizio, ma dopo con gli anni mi sono detta, “vabbè, non c’è una risposta”. E allora dopo tu vivi in questa linea molto sottile e cerchi soprattutto di non cadere, perché la caduta è bella tosta, e l’equilibrio è questo, vivere con tutte queste palline in aria, ed è complesso, è così… io penso che alla fine è questa la convivenza che dobbiamo fare. Infatti, quando io mi occupo di educazione nelle scuole, soprattutto con bambini piccoli, si cerca molto di semplificare la visione del mondo e di dare anche delle risposte concrete a questi “poveri bambini fragili” che bisogna accudire. Io penso invece che i bambini sono anche molto forti e hanno la capacità, molto più di noi, di assorbire tutto in modo naturale – può far male, può far bene, non si sa – però insomma, questo è il mondo. Io cerco di far vedere le cose belle del mondo, le cose brutte sono complesse più che altro, sono difficili, e insieme a loro si cerca di non trovare delle risposte, ma di vedere le cose come sono, come pensiamo che possano essere, come ci piacerebbe che fossero, e unire il fantastico con il reale, perché noi siamo fatti di questo, il mio desiderio, il mio odio, i miei sentimenti negativi verso il mio compagno africano che puzza perché dipende dalle spezie che mangia, non si capisce cosa dice… ecco, tutto questo è reale nei bambini… i rom che portano i pidocchi eccetera, è reale, e non bisogna non vederlo, è una realtà ed io convivo con questo. È molto bello, e soprattutto con gli adolescenti con cui lavoriamo spesso dove i temi sono più forti, perché c’è molta più rabbia, più rancore, più razzismo e anche molta ignoranza… e insomma, è una bella lotta! Penso che a cosa più bella è capire che tu sei sempre, purtroppo a volte perché è stancante, in prima linea – come dice mai mamma “sei sempre ai piedi del cannone” - …è così, come quando si diventa mamma… io ho due bimbi, più quello di mio marito, e a volte vorrei dimenticare di essere mamma, perché mi stanco, però non puoi, non puoi! Sarai per sempre, per tutta la vita in prima linea, ai piedi del cannone, è così!

Intervento della spettatrice Guiomar Parada:
Il grande problema è che gli scrittori che arrivano a scrivere nella lingua del paese che li accoglie lo fanno perché secondo me – e la lingua poi è una cosa di facciata perché è ciò che ti consente di comunicare – dicevo, lo si fa per una specie di richiesta di affetto, cioè io parlo la tua lingua, tu parli la mia, mi adeguo a te, ti facilito le cose perché tu mi venga incontro, mi stia vicino. E questo penso che sia il fatto per cui da bambini si fa questo processo di imparare subito le lingue, e poi però anche molti, soprattutto le persone che hanno delle storie di studio, gli studenti che arrivano con una carriera, gli adulti laureati… credo che imparare la lingua sia un volersi sciogliere nella società che ti accoglie, un voler dire “eccomi, sono qua, non voglio essere chiuso fuori” o come dice Candelaria, stare sempre sul filo del rasoio, perché è faticoso. Allora mi butto dall’altra parte, divento italiano, svedese o tedesco, non so, ci sono degli esempi fantastici nella storia della letteratura, come Ionesco, divento vostro e mi tolgo un peso di dosso. Va bene, questa è una cosa abbastanza banale. La cosa che forse bisognerebbe considerare – e che poi è una mia curiosità – è, quando si entra in contatto con questi scrittori, è sapere quanta sofferenza rimane dietro a questo lasciarsi andare nella lingua che ti accoglie. Per me tornare alla mia lingua madre, o alle altre lingue che conosco, è una sofferenza, soprattutto quando questo si verifica in condizioni non di comunità , per cui uno arriva a capire molto di più la difficoltà che molti stranieri possono avere a comunicare la propria cultura. A voler essere cattivi, io potrei dire “belle parole, accogliamoli, però poi di fatto come facciamo a mettere insieme una società chiusa come Lucca, ad esempio, con ragazzi come quelli che stanno nella moschea sotto casa mia che non mi dicono nemmeno ciao – anche se ora piano piano cominciano a dire “ah, questa è quella della macchina blu!” –. Quando c’è una situazione di comunità possibile – e guardate, io parlo senza cognizione di causa, per cui quello che dico è assolutamente da prendere con le pinze – ho l’impressione che si abbia un “mi tengo insieme perché così non ho bisogno di camminare su quel filo” come diceva Candelaria. Quando c’è una condizione di isolamento, come la persona che cerca asilo politico, o lavoro, allora ci si butta dall’altra parte perché è tutto molto più semplice. Io conosco moti amici, argentini, che parlano lucchese, non italiano, perché giustamente è un modo più facile di vivere. E – dopo tutto questo discorso un po’ confuso – , quanto possiamo noi contribuire a che questo buttarsi in un’altra lingua – giustissimo, per carità, io sono per la dinamica delle lingue e delle culture – aiuti a non perdere il patrimonio, la ricchezza, la poesia che c’è nella lingua madre? Non lo so, potrei chiedere a Julio: quando pensi in portoghese, soffri perché non lo puoi comunicare alla tua compagna che hai accanto, e lo stesso magari può accadere a Candelaria…
Come ultima postilla, io ho mia figlia che è seduta qua, lei ha tredici anni quasi quattordici, sa molto bene lo spagnolo ma non il tedesco, io so bene il tedesco, adoro il tedesco, e soffro quando leggo un libro e non posso spiegarglielo, quando vedo un film e non le posso far capire certe sottigliezze…quindi, beh, non è un problema, è un discorso di cultura, di come si può riuscire in questo mobilissimo tentativo di fare della Toscana un porto franco superando queste paure, da parte di chi arriva e da parte di chi riceve.

Julio Monteiro Martins:
Sì, io vorrei solo aggiungere una riflessione a quanto ha detto Guiomar, una riflessione che è un’ipotesi. Secondo me un anno che rimarrà come marchio è l’anno del 1969, nel luglio del 1969, in cui l’uomo ha messo piede sulla luna, è vero, ma non è per questo. È stata la prima volta in cui tutto il genere umano ha prestato attenzione alla stessa cosa allo stesso tempo. Quell’anno è stato un marchio nel senso della creazione di un processo che oggi è molto sviluppato, quarant’anni dopo, della formazione di una soggettività mondializzata o globalizzata, termine che mi piace meno. Da lì in poi, sempre di più la storia umana o almeno la storia della cultura umana, dell’immaginario dei popoli, è sempre più in congruenza con una sorta di mondializzazione di informazione, di film, di libri, di notizie, è sempre quello che è stato preconizzato negli anni Sessanta sul villaggio globale, che a quel tempo era una sorta di cliché ma che ai giorni nostri si è materializzato con internet, che secondo me è forse il veicolo più decisivo di questo processo. Allora, il mondo, con una soggettività che cammina verso una sorta di omologazione, nel bene e nel male, è rimasto con 150-200 lingue diverse e le lingue sono allo stesso tempo in parte uniche. La diversità delle lingue nasconde allo stesso tempo un retaggio in cui le civiltà erano totalmente separate una dall’altra. Il modo come Guiomar ha presentato questo fatto di uno che arriva, è accolto dal paese, mi ha un po’ dato l’impressione di una resa. Il mio vero essere è mondializzato, io vivo in internet, io guardo gli stessi show, gli stessi artisti, gli stessi eventi, le stesse guerre, gli stessi drammi, di tutti gli altri. Allora io devo superare tutte le tracce che in qualche modo ostacolano la concretezza di queste persone, e credo che questo tentativo di cambiare lingua, di fare queste migrazioni e di adottare la lingua del luogo, a me non sembra tanto una resa quanto una situazione di fatto, cioè questa è una caratteristica del mondo in cui siamo tutti inseriti oggi. È così, c’è poco da fare, questa è la mia sensazione.

Risposta di Guiomar Parada:
Sono d’accordo con te, perché quando mi riferivo al discorso della lingua non mi riferivo tanto al fatto di sapere una lingua quanto alla cultura che ci sta dietro, per dirla con la lettura di Candelaria, è come l’uomo che guarda le stelle, cioè se le guardo in senegalese non le guardo allo stesso modo in svedese o in italiano, però è una dinamica giusta. Volevo dire solo questo.

Intervento di Candelaria Romero:
Io volevo aggiungere che il discorso di accennare il rapporto con le lingue, che è stato fatto a Chiavari, il fatto che i miei genitori che erano scrittori si sono trovati in un paese con una lingua completamente diversa dalla lingua spagnola e hanno fatto questa scelta che può essere una non-scelta – perché noi facciamo spesso delle scelte che sono delle non-scelte – ed è stata quella di non scrivere nella lingua del paese e di mantenere la propria lingua. Ritenevano che per loro era impossibile tradurre ciò che sentivano, soprattutto perché scrivevano poesie, in una lingua che per loro era completamente sterile e che poi la collegavano all’esilio, alla sofferenza dell’esilio. Quindi dal 1979 al 1998 hanno scelto di non scrivere mai in svedese. Il compromesso più grande è stato tradurre dei poeti svedesi in spagnolo, e questo è stato l’unico contatto vero che hanno avuto con la cultura svedese, ma per loro non esisteva nessun tipo di relazione, non si poteva proprio, ecco, pur essendo stata una famiglia la nostra posso dire il meno possibile in contatto con la comunità argentina in Svezia. Non lo dico per dire qualcosa, ma è stato così. Non si voleva avere il contatto con la sofferenza di chi si ritrova in gruppo e si parla di quello che è successo, perché alla fine è questo che spesso succede nei ritrovi con la comunità argentina. I miei genitori si sono molto tirati indietro, e dunque io non avevo amici argentini o comunque latino-americani, io giocavo solo con bambini svedesi. Allora c’era questa cosa qua, molta apertura-chiusura, apertura- chiusura, ma perché apertura, perché chiusura? Il mondo è questo secondo me, proprio la complessità del continuo aprirsi e chiudersi, aprirsi e chiudersi, come i quadri dell’arte astratta in cui c’è questo Mirò e questo puntino…che però fa parte di un quadro enorme, e allora è questo secondo me… e c’è una lotta continua nel mantenersi all’interno di questo universo vasto ed io non posso e non potrò mai accettare la società com’è adesso e ciò che internet mi può portare. Non posso accettare e non lo accetterò mai, spero. Si fa fatica, credo, ed io spero di poter aver sempre le energie per combatterlo, ed essere sempre dalla parte sbagliata.

Julio Monteiro Martins:
Quello che dice Candelaria mi fa pensare che la cosa che mi ha più scioccato in un certo senso, è stata la mia percezione sulla mancanza di desiderio di cambiamento, di impegno sociale della mia generazione di scrittori italiani. Noi veniamo da una tradizione, nell’America Latina, ma anche gli scrittori africani, nell’Africa sub-sahariana, nel Sud-est asiatico anche, una tradizione in cui lo scrittore è soprattutto una sorta di coscienza della società. Per esempio nel paese di origine di Candelaria c’è stato un fatto, c’è stato un tribunale dopo la guerra di Las Malvinas, il tribunale per i crimini contro l’umanità, che ha chiamato lo scrittore Ernesto Sábato a presiedere. E perché hanno chiamato uno scrittore? Perché è questa la nostra funzione. Capisco anche che uno è inserito in un sistema che è molto difficile, è coinvolto in un sistema di competitività a livello di mass media e i media sono quello che noi sappiamo – uno vuole andare da Maurizio Costanzo, l’altro vuole andare alla fiera di Francoforte, una cosa che il governo italiano promuove –, c’è una sorta di preoccupazione molto più palese, con la carriera personale – cioè, che ne sarà di me? I miei libri venderanno? come sarà il mio prossimo contratto? In che casa editrice vado? – piuttosto che una preoccupazione verso la società, con il mondo, del tipo, “che cosa posso fare io?”, cioè quella espressione che secondo me è molto bella e molto importante che mi è anche molto cara e che è “come posso combattere?”. Ho certi valori, e i miei valori non sono quelli del sistema, c’è uno scontro pesante tra quello che vedo io e quello che il sistema effettivamente offre: come posso combattere per far sì che il sistema somigli con i miei valori? E gli scrittori cosiddetti migranti scrivono in italiano, con uno scenario che magari è l’Italia, con personaggi che magari si chiamano Giovanni, Piero, ma dietro portano in Italia questa tradizione di combattimento. Per questo magari uno studioso importante di questa letteratura come il professor Armando Gnisci dice che dal futurismo non c’è più una letteratura italiana d’avanguardia e usa questa parola, avanguardia, così sconvolgente come la letteratura migrante in Italia appunto perché rovescia tutti i valori che dall’epoca di Pavese e di Calvino, cioè degli anni Cinquanta, non si vedeva più in Italia, questo combattimento. Dall’epoca di Vittorini. È l’ultima generazione che aveva questo spirito, e che ora si ha di nuovo con questi non italiani che arrivano.

Guiomar Parada:
Ma questo è uno degli aspetti secondo me più importanti, perché il tuo è comunque un altro punto di vista anche se scrivi in italiano e quindi è qualcosa in più rispetto a quello che già c’è. È una cosa da promuovere assolutamente, anche perché io vivo in Italia da molti anni e ho la sensazione che avere un buon punto di vista sia una cosa che a volte fa un po’ paura… si vede anche nelle librerie, se cerchi dei libri un po’ fuori dal normale, sono difficili da trovare!

Julio Monteiro Martins:
Condivido le idee di Binni, la sua visione delle trasformazioni, ma quello che mi colpisce di più del suo discorso è che è un italiano che ha questa spinta di combattimento che è rara (Binni ride), è uno che si rimbocca le maniche e dice “andiamo!” e corre rischi, perché come si fa a vivere senza rischi, anche da un punto di vista esistenziale, non solo politico, quando uno rinuncia ai rischi rinuncia a una bella fetta della vita stessa. Si muore di più senza rischi di quanto non si possa morire attraverso i rischi.

Sandra Ponzanesi:
Penso che questo ha un po’ a che fare con la perdita del concetto di intellettuale che si molto professionalizzata nel mestiere di scrittore, estremamente competitivo, si basa su premi letterari, sulla carriera individuale, mentre un po’ la letteratura che viene dai mondi altri porta con sé un retaggio ricchissimo che non è soltanto combattimento ma tutta una letteratura che va preservata, una sorta di investimento culturale che uno sente di portare con sé nel nuovo paese. Quindi la figura dell’intellettuale va un po’ rivista in termini migranti.

Julio Monteiro Martins:
È vero. Io sono sempre stato affascinato dall’idea dell’inconscio collettivo, cioè l’idea che il comportamento di un gruppo di persone possa essere autonomo e non avere nulla a che vedere con nessuna delle persone che compongono quel gruppo. E alcuni tra questi migliori talenti da diverse parti de mondo, negli ultimi dieci anni sono venuti a vivere in Europa. Io mi chiedo fino a che punto loro sono venuti spontaneamente, fino a che punto – e qua un po’ di fantasia, lo ammetto! – fino a che punto c’è stata una convocazione in Europa, un’Europa disperata, apatica, sconfitta, senza prospettive future, che ha fatto questa chiamata “venite, venite voi! Aiutateci a rinnovarci!”. E questa gente ha ascoltato questo richiamo ed è venuta da diverse parti del mondo, è approdata qua, con o senza permessi… e sembra quasi un fenomeno biblico, come ad esempio la traversata del Mar Rosso, queste cose della terra Promessa, fenomeni di natura biblica…c’è una convocazione quasi telepatica, storica nel senso alto della parola storia.

Candelaria Romero:
Un po’ difficile da spiegare alla polizia di frontiera!

(Ridono tutti)

Lanfranco Binni:
Tu mi hai chiamato!

Candelaria Romero (ridendo):
Sei stato tu! Io vengo per te! Scherzo, non volevo diminuire questo pensiero, mi è venuto spontaneo!

Julio Monteiro Martins:
Non è nemmeno un pensiero, forse è una fantasia, ma forse c’è qualcosa di vero. La storia fa questi scherzi, cioè, ogni tanto un popolo ci smuove, non solo una persona, molti popoli.

Candelaria Romero:
Ci vuole molto tempo, penso, è una questione di tempo e forse quando non ci sarà più questa generazione, si studierà e si dirà “era inutile, era utile” o è soffiata via così, oppure non si dirà nulla…

Julio Monteiro Martins:
Candelaria, è molto difficile essere consapevoli di un fenomeno storico, antropologico, mentre sta accadendo. Cercare di capire ora questo fenomeno che sta accadendo è impossibile. Sono cinque anni, pochissimo, che si sta verificando, ma se tu pensi, per esempio a quest’idea della convocazione, prima sono venuti gli scrittori post-coloniali, i primi a sentire questo richiamo, scrittori che in un certo senso nel loro paese d’origine appartenevano già un po’ alla cultura d’origine e un po’ all’èlite che parlava la lingua del paese europeo. Cioè c’è stata prima questa chiamata nei “bordi” e poi dopo è arrivata a quelli del “centro”, quelli che non parlavano mica la lingua europea. Questi scrittori italiani non sono mica post-coloniali, sono persone di tutto il mondo che hanno ascoltato questo richiamo. Inoltre ieri io parlavo con la mia amica Aline di questo fatto: un tale capitano António da Silva Monteiro ha accompagnato la flotta di D. João VI quando la capitale del Portogallo invaso da Napoleone fu occupata da fratello di Napoleone e fu spostata a Rio de Janeiro. Questo capitano Monteiro è il primo Monteiro di quella regione. Bene, io due secoli dopo torno in Europa, non vengo, torno, capite? Lo so che è una fantasia, ma se tu torni indietro nelle tue origini, troverai uno spagnolo, un europeo! È un ritorno all’Europa di quelle generazioni che fatto esperienza del nuovo Mondo…

Guiomar Parada:
Mi pare che dobbiamo sostenere che l’Europa è in piena decadenza e che in effetti se non ci fosse questa vitalità che viene da fuori sarebbe ancor più decadente…Inoltre, riguardo al fatto della combattività, c’è anche un altro elemento, oltre al fatto di essere stati in prima linea politicamente da parte degli scrittori sudamericani e africani, che è che altri paesi ora stanno vivendo molta storia, perché il fatto che siano usciti cinque o dieci anni fa dalle dittatura vuol dire la fine di periodi storici molto importanti, da cui peraltro ci vorranno molte generazioni per uscirne. I paesi europei al contrario, cinquant’anni fa con lo sbarco in Normandia, questa storia l’hanno un po’ in qualche modo opposta, per cui c’è anche questa dinamica storica opposta. Tu hai la coscienza storica di questo momento, ed io infatti ogni tanto dico ai miei figli “se voi dovete vedere migrazioni, razzismo o cose simili, non lo potete vedere da qua, dovete fare finta di essere su un satellite e poi vedendo il mondo da lassù direte oh quanti cinesi vanno in Italia, quanti sudamericani!”

Julio Monteiro Martins:
Oltre a tutto questo, mi sembra che nell’Europa specificamente, un altro momento, un’altra questione che si pone, è il fatto che dal 1944-1945 il grande punto di riferimento unico culturale del continente europeo è costituito dagli Stati Uniti. O meglio, c’è stata una sorta di soggezione culturale di tutta l’Europa, anche quella dell’est seppur sottomessa all’occupazione sovietica, non solo dell’Europa occidentale, a tutto quello che accadeva in America – cioè una spilla che cadesse in Minnesota era più importante di un terremoto da qualsiasi altra parte durante molti decenni. Però forse negli ultimi dieci anni, secondo me, per il fatto che l’Europa comincia a voler acquisire una certa autostima come civiltà, insieme al fatto che la storia degli Stati Uniti è stata molto deludente negli ultimi tre o quattro anni, soprattutto per i valori europei – tutti questi attentati contro la democrazia americana fatti dagli stessi leaders americani, no? – tutto questo processo fa sì che gli europei di oggi comincino a guardarsi attorno per diversificare il modello, e questo è un fatto molto nuovo dalla seconda guerra mondiale in poi. Per esempio oggi c’è la moda del Brasile che in parte è una moda, ma in parte è anche un modello alternativo di società, con una musica con una letteratura con dei rapporti razziali – e ricordiamo che il modello di società americano da un punto di vista razziale è multiculturale, e questo modello è stato molto ammirato, ma il modello transculturale brasiliano o cubano è molto superiore perché non si tratta di avere tutti con gli stessi diritti ma divisi, ma sono tutti “misturati”, allora è una forma superiore rispetto agli U.S.A. e gli europei cominciano ad accorgersi di ciò e cercano intorno altri modelli, e vengono gli scrittori migranti. È questo il momento storico molto prezioso, è bello essere attivo in questi primi anni del Duemila in Europa.

Guiomar Parada:
E secondo me bisogna osservare il fatto che con il processo di unificazione dell’Europa politico, economico, c’è stata anche un’insicurezza culturale per cui si sono visti negli ultimi anni i proibizionisti culturali dalla Francia alla Padania, appunto, ovviamente con uno spettro molto diverso! Però c’è da parte degli europei una difficoltà ad accogliere altre culture ulteriori per quanto siano interessanti o più valide o più fresche, proprio perché è un momento di insicurezza.

Julio Monteiro Martins:
Sì, è vero, però trovo che se uno si sente o padano, o siciliano e non più italiano, oppure basco e non più spagnolo, questo è già una prima scossa alle vecchie strutture nazionali. Ad esempio in quella macelleria che è stata la prima guerra mondiale con la guerra di trincea che è stata una cosa spaventosa, una carneficina, vediamo che l’ideologia preponderante è stato il patriottismo europeo, per cui ogni Paese si sentiva o tedesco o francese e così via, allora abbiamo una prima scossa con questa frammentazione, cioè che i catalani non sono spagnoli e così via. Questo secondo me questo può essere da un lato una difficoltà per lo straniero perché si ha una competizione tra varie identità, ma dall’altro può cominciare ad essere un’apertura per lo straniero, perché la base patriottica, vecchia, è già stata demolita.

Intervento della spettatrice Marta Niccolai:
Io vorrei fare una domanda a Lanfranco Binni riguardo a quello che ha detto all’inizio. Vorrei sapere chi finanzia questi progetti di Porto Franco e poi sulla partecipazione di cui tu hai parlato, vorrei sapere fino a che punto include gli italiani in rapporto ai migranti.

Risposta di Lanfranco Binni:
Dunque, chi finanzia tutto questo è la Regione Toscana, grosso modo con un paio di miliardi all’anno, per sostenere le attività dei centri interculturali di una rete che è coordinata dalle province, ossia la Regione dà dei finanziamenti alle province che insieme con comuni e centri, come la Sagarana a Lucca, fanno dei piani territoriali e decidono come usare questi soldi. A questo si aggiungono le risorse delle province e dei comuni. La Regione ha innescato questo processo e continua a orientarlo. Per esempio tre mesi fa, visto che Porto Franco è anche una narrazione, noi avevamo cominciato a costruire un processo di rete attraverso un manifesto, un insieme di concetti e parole, una narrazione su una Toscana a misura di diritti di cittadinanza per tutto e tutti indipendentemente dall’età, dal sesso e dalla provenienza, una Toscana che non c’era. Eravamo tra l’altro all’inizio del vero ingresso migratorio in Toscana che in questi ultimi cinque anni ha avuto un picco in crescita per noi estremamente positivo, perché la Toscana evidentemente viene percepita come terra amichevole a differenza di Treviso, insomma!! (ridono tutti) allora all’inizio di questo progetto noi cominciammo a costruire una rete usando appunto un manifesto in cui ponevamo delle tematiche molto generali, cioè volevamo che ci fosse una discussione e un’attenzione molto collettiva all’ intercultura come confronto di genere, generazioni e genti. Chiedevamo solo questo, volevamo che le tematiche cominciassero a essere presenti, insomma. Tre mesi fa abbiamo pubblicato un secondo manifesto di Porto Franco – come i surrealisti, poi faremo un terzo, un deuxième e un troisième manifeste, perché c’è anche un po’ di surrealismo comunque in questa storia (ride), soprattutto come poetica del collegamento tra situazioni concetti e persone che normalmente sono separati, e questa era un po’ la poetica dei surrealisti, dall’incontro tra realtà distanti nasceva appunto la scintilla della poesia, Lautréamont e tutti gli altri. Questo secondo manifesto dice sostanzialmente che visto che in questi cinque anni le tematiche generali sono entrate nella cultura e condivise per associazionismo di tantissime amministrazioni, e comunque non abbiamo avuto in questi ultimi tre anni episodi consistenti di xenofobia e razzismo in Toscana, nel senso che siamo intervenuti subito. Quattro anni fa a Prato si formarono dei comitati locali contro la costituzione delle donne nigeriane costrette a vendersi sulla strada tra Prato e Sesto, intervenimmo subito perché siamo una strana cosa e giochiamo su quest’equivoco dell’essere contemporaneamente istituzionali e di movimento. Siamo l’uno e l’altro, è un processo trasversale. Quando qui a Lucca di cui Guiomar lamenta la chiusura, è vero, senza offendere nessuno, due anni fa ci fu un decreto di espulsione per 37 rumeni che tra l’altro erano regolari, avevano il permesso di soggiorno e anche dei rapporti di lavoro, Porto Franco occupò con loro e con le associazioni lucchesi la chiesa di San Michele. La Regione entrò a occupare insieme con i sans-papiers, tanto per intenderci! E questo naturalmente risultò incomprensibile alla questura, alla prefettura! Riuscimmo a spiazzarli, ma noi in questo siamo anche un po’ situazionisti, cioè abbiamo un codice genetico un po’ strano, insomma, c’è molto situazionismo, surrealismo, molta teoria post-coloniale eccetera. Nei nostri centri interculturali c’è presenza di migranti, però ancora insufficiente, nel senso che noi siamo sicuri che i migranti che sono in Toscana, così come altrove, per poter essere davvero interlocutori sul piano dei diritti, devono avere una forza auto- organizzata. Allora io per esempio ho a lavorare con me nella segreteria regionale di Porto Franco due migranti che sono i due leaders del movimento delle donne migranti che sono Mercedes Frias, una dominicana che è qui in Italia da 15 anni attivissima nelle pratiche interculturali e da un mese è assessore alla cultura al comune di Empoli. È la prima donna migrante assessore alla cultura, che ha ribattezzato l’assessorato alla cultura “assessorato alle culture” perché non esiste la cultura monoculturale, è un’invenzione. È un dato di sempre, è anche nel nostro passato, le culture sono sempre campi dinamici in trasformazione, pieni di zone di confine, con persone più coraggiose di altre, innovatori.
Siamo però ancora insoddisfatti del peso che hanno i migranti all’interno della rete di Porto Franco, perché abbiamo dei centri interculturali che non si pongono ancora il problema di un’interazione vera con i migranti. Non è una questione di nobiltà o di filantropia, fa parte dei dati, questa realtà in cui ci sono tante palline che si muovono in modo complesso e che è caratterizzata anche da un cambiamento forte in corso di composizione sociale, culturale, cioè la popolazione che vive qui in Toscana in questi ultimi cinque anni è cambiata, sta cambiando, noi siamo felici di questo, non per ragioni produttivistiche, perché abbiamo bisogno di negri da sfruttare nelle fabbriche, questo è il punto di vista razzista e xenofobo del nord-est in cui hanno bisogno di negri nelle fabbriche. Noi abbiamo bisogno di cittadini, di nuovi cittadini che ci portino anche radicalità di pensiero, perché questo è l’altro dato delle migrazioni in corso: dal sud del mondo stanno arrivando esperienze, linguaggi, ma anche radicalità, intesa come concretezza sulle relazioni sociali, bisogni materiali molto forti - i diritti ai migranti anche nella civilissima Toscana sono negati sostanzialmente! I migranti non hanno diritto di voto ancora, noi vogliamo che ce l’abbiano, però si tratta proprio di fare un combattimento rispetto alla legge Bossi-Fini, tutto il quadro politico che sta declinando rapidamente per cui siamo alla vigilia probabilmente di un cambiamento interessante, non di schieramenti politici, sul senso e sul modo della politica, perché i limiti del centro-destra sono anche i limiti del centro-sinistra e c’è bisogno di un nuovo modo di porre la questione dei poteri, dei diritti e tutto il resto. Però siamo molto indietro non so, sul diritto alla casa, i migranti non ce l’hanno, ad esempio nella zona delle concerie a Santa Croce sull’Arno, per i lavoratori immigrati è difficilissimo trovare una casa in affitto. Allora stiamo lavorando con dei comuni che si fanno garanti rispetto ai proprietari bianchi insomma (ride), italiani che hanno paura e poi sono comunque limitazioni di diritti. Il diritto al lavoro non c’è rispetto a certi appunto immigrati della Serbia, del Montenegro che vengono considerati rom tout court e non sempre lo sono…è tutto molto complesso, e c’è l’esclusione più totale. C’è un razzismo endemico che è legato all’ignoranza e alla paura. Non ha il coraggio di manifestarsi perchè c’è una società politica e civile che dice che non va fatto però i timori ci sono, c’è la paura, c’è la difficoltà, il terreno vero è quello che ci indicava Guiomar. Lei esce di casa e non riesce a comunicare con i ragazzi arabi che la guardano male soprattutto se lei poi fa un’offerta di comunicazione, oppure i timori degli autoctoni qui di Lucca, tutto questo fa parte della nostra complessità, ma bisogna stare in piedi su queste cose, nel senso che va bene, è ancora molto poco di quello che in realtà c’è è molto più complesso, e questo vuol dire che ognuno di noi deve far forza in maniera molto lucida e consapevole per interagire con gli altri. Ma la questione centrale sono i singoli, ognuno con la propria storia: una viene dal Mali, una da S.Lorenzo a Vaccoli, è la complessità, ognuno di noi è la punta di un iceberg sommerso con infinità di storie dentro…

Julio Monteiro Martins:
Non a caso la parola Sagarana vuol dire “un’infinità di storie”!

Lanfranco Binni:
Ecco, quello che mi è chiaro è che non si può avere un atteggiamento culturalista su questa questione, ma ci sono due pericoli, due veleni nella nobiltà delle azioni interculturali: il primo è il differenzialismo, cioè considerare le differenze delle giustificazioni per chi ha potere. Tu sei diverso da me, resta diverso da me , il potere lo esercito io, ed è l’atteggiamento normale degli italiani rispetto ai migranti. L’altro è il culturalismo, cioè ridurre la complessità delle cosiddette culture a dei fenomeni sostanzialmente da analizzare a livello sociologico, se va bene, senza le persone dentro. Intercultura significa persone. Nel secondo manifesto di Porto Franco si dice “bene, sulle tematiche generali siamo d’accordo?” “bene”, “c’è intercultura nelle scuole?” “bene”, “negli ospedali si pongono il problema delle strutture di mediazione linguistico-sanitaria?” “bene, ora comincia il lavoro”. Il lavoro significa andare a fondo nelle relazioni interpersonali, cioè l’intercultura è l’arte della relazione tra persone che sono donne e uomini con tutte le loro storie.

Intervento di Candelaria Romero:
Per tornare alla questione letteraria io volevo aggiungere che la complessità di tutto questo mondo è anche vedere lo scrittore migrato che sceglie o non sceglie di scrivere in italiano. Non so se tutto è così semplice, dato che l’integrazione è difficile anche a livello culturale, come diceva Guiomar a proposito della difficoltà del saluto al ragazzo arabo, ma forse allora è tutto più complesso, non è questo il modo, non è lì che si inizia. Sono sicura che lei non intendeva questo, però la scusa può essere che se uno dice che già è difficile fare così allora figurati… forse non è quella la via, e allora anche l’integrazione dello scrittore che sceglie o non sceglie la lingua italiana, forse non è lì sempre l’unica facciata, ma c’è anche chi silenziosamente sceglie o non sceglie di scrivere ancora nella propria lingua e non ha voce. Noi siamo qua, io, Julio, e altri scrittori che verranno in questi giorni, e hanno voce perché scrivono in italiano…

Julio Monteiro Martins:
C’è per esempio uno scrittore che ha scelto di scrivere in arabo pur vivendo qua ed io l’ho sempre inserito come scrittore migrante…

Candelaria Romero:
Eh, però è molto difficile. Il fatto come dici tu della diversità, per cui bisogna restare diversi perché è difficile accettare un africano medico se non è proprio un premio nobel!
Ecco, lo straniero deve essere di classe A per essere riconosciuto, non appena sei un pochino meno allora sei uno straniero e basta. Allora anche il fatto dello scrittore che sceglie la sua lingua, sceglie tutto ciò che diciamo è anche sbagliato perché non si fa così per integrarsi…secondo me bisogna dar voce anche a loro comunque.

Julio Monteiro Martins:
Nel seminario dell’anno scorso che è on line, c’è stato un momento di discussione proprio su questo, cioè fino a che punto questa scelta di scrivere non è anche una sorta di conquista, di riscatto di dignità nei confronti della società italiana che non mi credeva. Io non sono medico, non sono ingegnere, ma se scrivo e pubblico un libro divento uno scrittore, posso dire che non sono più un albanese qualsiasi ma sono uno scrittore di origine albanese? Allora cambia tutto, è un altro elemento da aggiungere alla complessità di questo fenomeno, no?

Lanfranco Binni:
Sì, perché per esempio è pazzesco che si usi il termine scrittori migranti, non mi piace. Mi affascina il termine di scrittura migrante, nel senso che per scrittura migrante riesco a percepire un fenomeno di creolizzazione in corso nel mondo, ma è una scrittura che sta migrando e che sta prendendo forme nuove qua e là. Scrittori migranti significa inchiodare di nuovo gli scrittori a una condizione di immigrati. Ora uno degli stereotipi forti da uccidere è quello che inchioda un immigrato per tutta la vita a questa condizione. Mercedes Frias dice, ma insomma io sono qui in questo paese da 15 anni, ma perché devo continuare a essere considerata un’immigrata e restarlo per tutta la vita?

Julio Monteiro Martins:
L’anno scorso abbiamo avuto un dibattito sul nome di questo seminario e abbiamo deciso di mantenerlo per dare un senso di continuità, però il nome non ci soddisfa!

Lanfranco Binni:
Va bene, va bene, l’importante è essere sempre molto inquieti su queste questioni!

Candelaria Romero:
Bene, io devo dar da mangiare al mio bimbo…

Lanfranco Binni:
Beneee! Buona pappa! Ah! Ah!!

(Ridono tutti)