Mercoledì 2 luglio – pomeriggio
Incontro con Helene Paraskeva (Grecia) e Barbara Serdakowski (Polonia) Julio Monteiro Martins: Helene è una scrittrice nata ad Atene. Ha studiato in Grecia, in Italia e nel Regno Unito. Vive e lavora a Roma. Oltre all’insegnamento organizza e coordina progetti interculturali nell’Istituto Superiore “G. Gaetani”. Ha vinto con Tragediometro ed altri racconti la prima edizione del concorso “Pubblica con noi” da Fara Editore. Il prossimo 15 luglio esce, nella sezione ibridazioni della rivista Sagarana, un suo racconto inedito dal titolo La vecchia con la testa mozza. Barbara, invece, è nata in Polonia, cresciuta in parte in Marocco ed in seguito emigrata in Canada. Da sette anni vive a Firenze. Ha sempre scritto in francese, ma dal 1999 scrive anche in italiano. Ha ricevuto vari primi premi di letteratura, qui in Italia, tra i quali quelli della giuria del concorso Eks&tra per un racconto pubblicato poi nell’antologia del premio Anime in viaggio Ed. Kronos. Pubblica anche per riviste di poesia internazionali e scrive poesie in più lingue. Cofondatrice insieme al maestro Cesare Oliva del Centro d’Arte e Ricerca Magma. Cedo la parola a Helene. Helene Paraskeva: Grazie per il tuo invito e l’accoglienza gentile e accogliente come il paese da cui provieni. Per la presentazione di oggi mi è stata molto utile la lettura del libro di Davide Bregola, “Da qui verso casa”, Edizioni Interculturali, e in particolar modo l’intervista che ha fatto a Julio. Attualmente in Italia il dibattito sulla letteratura della migrazione e sugli scrittori migranti sta prendendo sempre più piede, ma è almeno dal 1992 che ci sono bravi scrittori e professori come Gnisci che la studiano e ne dibattono. Come e cosa scrivono gli scrittori migranti? Chi sono? Hanno caratteristiche comuni? Quali sono? Tratterò soltanto i primi due di questi quesiti: Come e cosa scrivono? Poiché mi sembrano i più importanti, gli altri poi seguono. Noi, scrittori migranti (mi ci ficco anch'io presuntuosamente) scriviamo facendo errori di ortografia, punteggiatura, sintassi. Gli errori linguistici sono deviazioni dallo standard. E noi, che abbiamo scelto di scrivere in italiano, che non è la nostra madre lingua, rischiamo sempre di fare errori. Un errore di grammatica o sintassi non è perdonabile ad uno scrittore italiano. L’errore va segnalato, corretto, e lo scrittore ne deve fare ammenda. Invece a proposito degli errori commessi da scrittori migranti si sente spesso commentare: "È meglio lasciarlo così, è più caratteristico." Scusate ma a me questo commento non va bene, poi sono pure per natura polemica. Non è tranquillizzante questo commento. E non tanto per l’errore, che rimane sempre lì a illustrare a che punto di “interlingua” ci si è trovati un dì. È l’atteggiamento che sta dietro, un atteggiamento di concessione paternalistica che brucia. Allo scrittore migrante viene perdonato l’errore perché tanto “fa folklore”, “è caratteristico”. Io vorrei che mi si dicesse quando sto facendo un errore. E’ vero che va molto di moda la parola interlingua. In termini di linguistica applicata, la cosiddetta "interlingua" non è che quel processo di apprendimento che ha come punto di partenza la madre lingua detta anche L1 e come punto di arrivo la lingua che si vuole apprendere, L2 o TL, cioè Lingua Target, lingua-obiettivo. È un processo lungo che delimita un’area estesa, direi quasi un processo senza fine. Lo scrittore migrante, quindi, scrive e si esprime in un'interlingua infinita, perché non è, e non sarà mai di madre lingua italiana. Si può paragonare al paradosso di Zenone. Secondo il famoso paradosso di Zenone (V sec a.C.), Achille non raggiungerà mai la tartaruga, che è partita con cento metri di vantaggio, perché ogni volta deve raggiungere la posizione che lei ha occupato precedentemente. La tartaruga è colui che parla l’italiano come madre lingua, il parlante nativo. Achille invece è lo scrittore migrante. Bene, il paradosso si spiega dal fatto che Achille non raggiungerà mai la tartaruga perché i due corrono su percorsi diversi. Quindi se io faccio errori nella mia interlingua, vorrei che mi si segnalassero, illustrassero, perché devo imparare ancora meglio e di più. Come sosteneva prima Andrea Sirotti, la lingua è uno strumento. Ogni scrittore usa il proprio. Può essere pala, forbici, strofinaccio, martello, bisturi o raggio laser. Ma questo strumento deve essere curato, mantenuto vivo, perfezionato, personalizzato. Non è e non deve rimanere un fossile da esibire. Per me è quindi fondamentale imparare bene lo strumento che è la lingua. Cosa scrivono gli scrittori migranti, quali sono le loro tematiche? Mi piacerebbe iniziare con una citazione dall’intervista a Julio di Davide Bregola. Julio Monteiro Martins distingue fra “migrazione che porta alla letteratura” e “letteratura che porta alla migrazione”. Questo è il punto cruciale, prima o poi arriveremo lì. Quello che vorrei rivendicare è la libertà nello scrittore migrante di trattare qualsiasi tematica che sia direttamente connessa alla migrazione o meno. Sì, io posso partire da quel porto, la migrazione. Da quel “metoikos” cioè “l’essere la casa del dopo” come dice A. Gnisci nel libro “Creolizzare l’Europa”, Meltemi Editore, però la rotta fatemela scegliere da sola. Ho preparato due racconti da leggervi. Il primo parla di “pochi minuti eterni di odio puro…” potrebbe scandalizzare qualcuno, sembro del tutto amorale. Chiedo scusa in anticipo a tutti quelli che convengono con questa citazione e gli altri. Vorrei introdurre questo primo racconto con una citazione dall’intervista a Julio Monteiro Martins di Davide Bregola compresa nel volume Da qui verso Casa. “Lo scrittore di narrativa non è un moralista. E non deve esserlo…I romanzi non possono essere confusi con i sermoni, per opportuni e giudiziosi che siano.” Ho scelto di leggervi un racconto breve dal mio libro Il tragediometro di solito mi chiedono di leggere “Quella sera che il bacio non era pneumatico”, perché molto umoristico, però ho voglia di farvi conoscere qualcos’altro. <>La prima passione di Queen Lady BlueA sei anni Geco frequentava come tutti noi la serra dei cactus di Mr Delmaine, un nordico eccentrico, che noi chiamavamo Puarò (sic), capitato nel nostro quartiere. Il perché di quella strana migrazione si sapeva. Aveva sposato un’abitante del nostro quartiere periferico, una donna mediterranea, pensando al calore e al sole. E quando poi, col passare degli anni, lui e la moglie avevano perso la gioventù, la passione per il calore esotico Puarò l’aveva trasferita alla serra, una gabbia di vetro che aveva installato in mezzo al cortile. Qui coltivava ogni tipo di cactus fatti venire da paesi esotici lontani. La serra, su noi ragazzi, esercitava un fascino magnetico. Ci avvolgeva calda, silenziosa, umida e trasparente, come un sacco amniotico, mentre i cactus emanavano una sensualità primordiale. Erano guai, però, se ci beccava nella serra Mr Delmaine. Iniziava con le parolacce dalla finestra del suo appartamento, poi scendeva nel cortile, e con la bacchetta da sottufficiale e parecchie maledizioni mandava via tutti. Così i ragazzini più timorosi, più furbi o più veloci erano già spariti quando arrivava giù. Mr Delmaine non malmenava tutti gli invasori, ma solo gli ultimi rimasti perché erano i più pigri, i più insolenti, o i più deboli, che ai suoi occhi era la stessa cosa. Sottufficiale e veterano di chi sa quale guerra coloniale, profondo e devoto conoscitore delle regole belliche, dava il segnale d’attacco dalla sua finestra del primo piano e poi applicava il principio della selezione naturale di Darwin. “Si salvino i più forti!” “Vae victis!” Quella volta Geco era rimasto per ultimo nella serra di Mr Delmaine. Aveva sei anni ed era ormai alla conclusione del suo spettacolo, una specie di danza dei sette veli sintetizzata in tre, con canzone abbinata. Si era preparato questa performance con cura perché sapeva che solo nella serra poteva esibirsi senza distrazioni. Solo la serra poteva trasmettere la magia di cui aveva bisogno per il suo recital. Cantava la vecchia canzone di Edith Piaf. Non, je ne regrette rien! Mangiava le parole davanti alla plateadi ragazzini nella sera calda, esotica e trasparente. Si era già spogliato del primo velo e ne rimanevano ancora due. Era talmente assorbito0 nell’arte tersicorea che non si accorgeva del segnale d’attacco. Capì tutto quando nella platea rimase solo con i cactus. Ma era troppo tardi. Il colonialista con la bacchetta era già arrivato e cominciava l’attacco contro l’invasore. Pur essendo uno dei ragazzini più veloci del quartiere, Geco non si mosse. Rimase immobile a prendersi le bacchettate sugli stinchi. Poteva correre e scappare e farla franca con qualche contusione, ma rimase lì a piangere in silenzio, cercando di cantare ancora che a sei anni, lui “Noo, non ave va alcun rimpianto1” Il veterano non era abituato a quella reazione. Secondo il manuale del perfetto colonialista, il territorio, per essere conquistato, doveva prima essere sgomberato e il nemico messo in fuga. Geco, invece, rimaneva lì, fermo, con le lacrime sul viso e “Noo, non aveva alcun rimpianto!” Il colonialista urlava e sputava parolacce e maledizioni immonde contro tutti. I vicini scesero nel cortile e noi ragazzini tornammo alla serra incuriositi. Ma Geco resisteva. Cantava e fissava il sottufficiale mentre le onde di lacrime si abbattevano sul suo viso e poi cadevano sui rimanenti veli. Piangeva ma non scappava e poi “Noo, non aveva alcun rimpianto!” Fu l’happening più strano mai avvenuto nel nostro quartiere periferico. Noi tutti incitavamo Geco alla fuga, naturalmente. Bastava un passo ed era salvo. Il colonialista, in preda alla follia, continuava con la bacchetta sugli stinchi di Geco come se fossero le teste nere dei ribelli che aveva conosciuto in gioventù. Le gambe dell’ambiguo ribelle, ambiguo e ribelle già a sei anni, diventarono rosse e, qualche giorno dopo, anche nere e bleu-viola. Non si sa, poi, se fosse proprio in commemorazione di quell’episodio all’inizio della sua carriera che Geco, diventato drag queen di fama mondiale, gloria unica del nostro quartiere periferico, prese il nome d’arte di Queen Lady Blue. Ma quella volta lì, a sei anni, Geco era invaso dalla follia. Guardava il colonialista e nessuno dei due la smetteva. Tra insulti e parolacce li divisero i parenti, amici e vicini. Chi giustificava Geco, anche se “ragazzino un po’ strano”. Chi difendeva Puarò perché “la serra è la cosa più bella del nostro quartiere”. E chi rivendicava il diritto di tutti di stare nel cortile. Ma il ragazzino ambiguo e il colonialista non si staccavano gli occhi l’uno dall’altro. Per pochi minuti eterni condivisero un sentimento puro, l’odio reciproco e passionale. Julio Monteiro Martins: Hai un modo di narrare molto vivace e durante la lettura riesci a fare quasi un’interpretazione teatrale. So che provieni da un paese di grandi narratori. Quanto c’è di “grecità” nel tuo modo di narrare oppure è un tuo stile personale. Helene Paraskeva: Non ti so dire in percentuale, ma oramai è un’amalgama. Sicuramente c’è questa teatralità, anzi mi trattengo un po’, perché vorrei esserlo ancora di più, vorrei per esempio, cantare tutta la canzone di Edith Piaf. Sì, c’è molto ethos nella lettura, ma certo non sono un’attrice. Amor Dekhis: A proposito dell’errore che commettono gli scrittori migranti, vorrei dire che l’importante sono i contenuti. Helene Paraskeva: Sì, il discorso è un po’ più complicato. Ma, quando stai per pubblicare, il redattore deve leggerti, ti fanno l’editing a volte correggendo quello che non devono correggere. Questo lo afferma Julio, ma lo sottoscrivo anch’io. Questo accade sia agli italiani che ai migranti. La forma e il contenuto sono due cose distinte, certo. Ma mi riferisco al momento di riflessione sulla lingua, quando mi capita di pensare, ma sarà corretto dire così? E chi ti deve pubblicare ti risponde, ma non fa niente, è caratteristico!!! No, per me questo atteggiamento è paternalistico. E poi dal momento in cui aspiro a scrivere in italiano, vorrei farlo in modo corretto. Tornando al viaggio infinito dello scrittore migrante nell'interlingua, se durante questo viaggio egli scopre piccoli tesori come giochi linguistici, calembour, guizzi, esempi di wit, parole in metamorfosi e contaminazioni lessicali, esplorazioni linguistiche che partono dalla conoscenza e consapevolezza della diversità linguistica e culturale per navigare nei mari esotici della ricerca logopoeica, ben vengano. Ma si tratta di sperimentazioni, di scoperte e non di errori. Mi piace ogni tanto buttare là qualche parola greca, fa chic, in realtà logopeica significa “creare le parole, fare contaminazioni”. Tanto per fare un esempio, la parola “tragediometro”, l’ho inventata io, anche se in realtà è uno strumento che parecchi si portano in qualche tasca. E non è un errore in nessun lingua, è una mia logopeia. Amor Dekhis: A volte a me piace scoprire che c’è una logica diversa dietro una frase magari errata, scritta da un narratore straniero. Helene Paraskeva: Sono d’accordo in parte con te. Julio ha detto che sono un’insegnante e da questo punto di vista posso dirti che secondo i cognitivisti, in glottodidattica gli errori nell’interlingua sono interessantissimi, ma a me sembra solo in questo settore, nell’arte narrativa no. Sarà pure una forma mentis mia, da insegnante, in cui c’è la lingua standard e l’errore… Amor Dekhis: Sono affascinato dagli errori. In fondo noi viviamo affrontando sempre errori. Helene Paraskeva: Gli errori nella vita… quando ci permettono di fare quello che si chiama deuteroapprendimento, cioè imparare ad imparare, vanno bene. Partecipante del pubblico: Se avesse scritto questo racconto in greco, il contenuto sarebbe stato diverso? Cos’è che motiva scrivere in una lingua “un poco estranea” rispetto ad una lingua della quale sei padrona? Al limite poi con i bravi traduttori che ci sono oggi, potresti avere l’esatto corrispettivo di quello che vuoi dire. Helene Paraskeva: Scrivo in italiano perché voglio comunicare in questo paese in italiano. L’ho già scritto da qualche parte e ho ritrovato lo stesso concetto sviluppato da Julio, per me l’italiano è un amore consapevole, l’ho scelto io. Lui dice “…la nuova lingua è un amore dell’età matura, il secondo e terzo matrimonio, quello che dovrà funzionare, quello in cui si ama nonostante tutto… un amore rinforzato da una precisa misura del tempo: quello già passato…” (Julio Monteiro Martins nell’intervista con D. Bregola “Da qui verso Casa”, Edizioni Interculturali, 2002). Invece, in fondo, della nostra prima lingua siamo succubi, non padroni. Con questo non voglio rinnegare nessuna mia parte greca. Ma se un giorno volessi fare un esercizio e riscriverlo in greco, uscirebbe un altro racconto, ne sono sicura. Per me la lingua italiana è un atto d’amore, non è solo una necessità. E con questo amore io voglio vivere. Julio, forse, lo riesce a dire ancor meglio, dice che la lingua italiana è come una figlia, è lei che ci insegnerà. E guarda caso, io, se ho dei problemi linguistici mi rivolgo a mia figlia. Cesare Oliva: Mi identifico molto con la tua situazione, sono stato emigrante in Venezuela a 18 anni ed ho vissuto in Canada altri 18. Mi occupo di pittura. Dicendo che avverti questo paternalismo nei tuoi confronti, non vuoi dire forse che ti senti discriminata, trattata con un’altra misura? Helene Paraskeva: Sotto sotto è questo. Vivo e lavoro quotidianamente con ottocento ragazzi e cento insegnanti, e gli atteggiamenti sono tanti. Quando me ne accorgo poi, mi alzo e lo dico subito, capirai, sono una polemica! Ma altre volte mi sono resa conto che mi sbagliavo, erano altri i motivi per cui la gente mi approcciava. Cesare Oliva: Se sono un africano che faccio della pittura africana nessuno mi potrà correggere. Ma se sono Picasso che ha incorporato la pittura africana nella mia cultura etnocentrica europea, sono un genio. Helene Paraskeva: Vorrei leggervi un altro racconto che si intitola “Ai giovani”. Qui, al contrario, sono molto moralista, la mia morale, naturalmente. Questo racconto mi aveva creato non poche preoccupazioni. Chi vuoi che si interessi della seconda guerra mondiale? È una tematica priva di attualità, che si tira fuori dalla naftalina ogni anno agli esami di maturità. Con tre aggravanti: a) il racconto non tratta la guerra narrando di armi, combattenti e gesti eroici, bensì dell’occupazione, piena di insidie, tradimenti, vigliaccherie, insomma la fase meno “gloriosa” e più degradante della guerra; b) tratta l’occupazione di un paese perpetrata da due nemici, uno dei quali era l’Italia; c) è un racconto un po’ moralista. Mi piacerebbe sentire le vostre opinioni su queste mie preoccupazioni. Anche qui vorrei citare Julio Monteiro Martins (ibidem) ma questa volta a proposito della scelta tematica. “Lo scrittore di oggi…non è più prigioniero dell’ambiente spesso indifferente o ostile del suo paese di origine…” E in questo “trasferimento” letterario confesso di essermi sentita prigioniera della Storia e del mio moralismo personale di cui non potevo, tuttavia, fare a meno. Dice Monteiro Martins: “…È ovvio che se la tematica della sua opera riguarda esclusivamente i problemi della sua società originaria, o se i lettori per i quali ha deciso di scrivere sono i suoi concittadini, non dovrà fare questa “migrazione letteraria”, non dovrà avventurarsi a fare l’esule artistico oltre confine e men che meno abbandonare l’idioma del suo pubblico ideale. Se, tuttavia, la sua tematica è universale, inserita e ispirata non da una certa realtà o da una tradizione letteraria occidentale… allora questo trasferimento non solo è possibile ma addirittura auspicabile. Dopotutto, l’artista deve stare dove la sua arte è amata. Ovunque ciò accada... E dobbiamo abituarci a pensare …al concetto nuovo di esule artistico o di migrante letterario.” I due racconti sono inclusi nel volume “Il Tragediometro e altri racconti…” Fara Editore, 2003; Il racconto Ai giovani è stato pubblicato anche dalla rivista KUMA diretta dal Prof. A. Gnisci. <>AI GIOVANI- Professoressa, professoressa! Le possiamo chiedere un favore? Mi piacciono i giovani che chiedono. Mi fermo e ascolto. - Ci può aiutare? Ci serve un racconto di guerra! - Ma uno vero, autentico! - Che racconto? Di quale guerra? - Un racconto qualsiasi… Basta che sia dell’ultima guerra. - E…. che sia vero, professoressa! - Ci penserò! Mi metto a pensare subito. <>C’era una volta, tanti anni fa, durante la guerra, non quella Grande, quell’altra più piccola, mio zio. Aveva circa diciassette anni, o anche di meno, e aveva tanta fame. Per la sua giovanissima età non era andato a combattere. Era giovane e aveva tanta fame. Un suo conoscente lo introdusse nell’ambiente di una bisca semiclandestina di gran lusso. Un colpo di fortuna. Inizialmente faceva le pulizie. Vuotava i posacenere, spazzava e lavava i pavimenti di marmo bianco, qualche volta aiutava anche in cucina. Così incominciò a mangiare un po’, perse quel pallore tipico dell’affamato e le occhiaie nere, mise su un po’ di carne e diventò un bel giovanotto dal fisico atletico. Nella bisca iniziarono a volergli bene. Gli ufficiali con gli stivali neri, che erano i clienti più importanti, gli chiedevano piccoli favori, mentre quelli della borsa nera lo utilizzavano come intermediario, e così aveva sempre qualcosa da guadagnare. Le fanciulle poi, perché la bisca disponeva anche di fanciulle, avevano sempre bisogno d’aiuto. A volte, mio zio faceva loro da cavalier servente, e a volte, nei momenti di sconforto, prestava una spalla giovane e forte per piangere. Atletico, giovane e ingenuo era irresistibile. Presto arrivò anche la promozione a buttafuori con stipendio fisso, oltre il vitto, naturalmente. Divenne l’uomo di fiducia dei biscazzieri, praticamente. Mangiava bene, frequentava le ragazze più belle della città occupata dal nemico e aiutava la madre vedova. Al secondo anno dell’occupazione, la fame, non quella metaforica, imperversava nella capitale. I poveri giravano sfiniti per le strade: ‘’Abbiamo fame, belle signore, abbiamo fame!’’ dicevano a sé stessi prima di morire accasciandosi negli angoli come sacchi vuoti. I ricchi vendevano tutto per non morire come i poveri. Ma nella bisca tutti riuscivano a trovare qualcosa. Gli ufficiali dagli stivali neri si divertivano, i venditori di borsa nera facevano soldi e conoscenze, le ragazze riuscivano a sopravvivere e i biscazzieri facevano grandi affari. Avevano anche un bravo ragazzi di fiducia che lavorava per loro. E poi, si sa, il lavoro rendeva liberi. Mio zio scalava la gerarchia facendo una carriera fulminante. Con la seconda promozione, da buttafuori venne promosso a croupier: Sempre tuttofare. ‘’Faites vos jeux!’’ ‘’Rien ne va plus !’’ Andava forte. Era fortunato e intelligente, mio zio. Però, come un piccolo serpente velenoso, il malcontento s’insinuò inspiegabilmente nel cuore del giovane. Sarà stata la ripetitività dei gesti da croupier o il francese mal masticato e obbligatorio, ed ecco che mio zio incominciò a stare zitto. Qualche volta aggrottava anche le sopracciglia. Dimenticava di ringraziare gli ufficiali dagli stivali neri, fingeva di non sentire (o davvero non sentiva) le istruzioni dei biscazzieri. Persino le ragazze più belle della città che lavoravano nella bisca gli sembravano, qualche volta, puttane. Spesso dimenticava anche di sorridere. Era sempre più atletico e ben nutrito mio zio, ma anche più insoddisfatto. Si ammutoliva pero re e rispondeva male. Poi incominciò a fare anche commenti sarcastici ai danni dei suoi benefattori. All’inizio riusciva a cavarsela con un rimprovero, una battuta, una risatina. Ma il malumore dentro di sé montava. Col passare del tempo, spariva improvvisamente dalla bisca per un paio di giorni. Si dava malato. I biscazzieri mandavano a cercarlo. A casa non lo trovavano, nel quartiere nemmeno. Erano anche tempi difficili. Chi non era con loro era contro di loro. Dopo un po’, inspiegabilmente, faceva la sua apparizione. Pentito, pronto a riscattarsi, servizievole, quasi come ai primi tempi. Ma poi di nuovo, pian piano, tornava il muso basso, la faccia aggrottata, lo sguardo scontento. Infine, anche il sarcasmo. Per primi se ne accorsero gli ufficiali dagli stivali neri, gente colta, raffinata, sensibile. Da veri gentiluomini facevano finta di niente, semplicemente rivolgevano lo sguardo altrove. Non gli chiedevano più favori, non gli davano più mance. Quelli della borsa nera badavano solo al profitto nudo e crudo e se ne infischiavano del giovane servo umorale e delle sue battute. I biscazzieri attribuivano il malumore alla castità forzata, conseguenza della sua timidezza, e lo incoraggiavano a fare esperienze scegliendo fra le ragazze più idonee, sapevano loro quali. Niente. La rabbia di mio zio, che non aveva più fame, cresceva. Un giorno, i biscazzieri gli chiesero di trasferire, di notte, una grande quantità di olio da una casa privata ai sotterranei della bisca. Era l’olio di un miserabile che aveva perso tutto a carte e adesso doveva pagare. Il miserabile era un grossista di generi alimentari. Brutto, ottuso e ignorante, aveva vissuto una vita benestante, ma grigia. L’occupazione dello straniero dagli stivali neri lo aveva reso ricco in un mondo di morenti di fame. Per ogni damigiana da dieci litri d’olio che vendeva la nero acquistava una casa col giardino. La fama di venditore di borsa nera lo inseguiva dappertutto. Però qui, nella bisca, il miserabile si divertiva un mondo. Aveva trovato tutto ciò che la vita gli aveva finora negato: belle donne, scherzi spinti dall’alcol, il brivido dell’avventura e il pettegolezzo più pepato della città. Qui incontrava gente importante, pronta ad ascoltarlo e, qui, finalmente, l’aristocrazia gli rivolgeva la parola. A lui, che nella vita aveva avuto solo a che fare con la servitù o con la gente comune che comprava l’affettato, il pane e il formaggio…. E poi le ragazze, quelle più belle, quelle che una volta non lo degnavano di uno sguardo, quelle che non riusciva a sognare per mancanza di dettagli, quelle, proprio quelle, gli offrivano tutto per una damigianina di olio d’oliva. Con l’inflazione galoppante anche solo per mezza, mica era fesso? Ma le carte e la roulette della bisca lo distrussero. Fra i marmi bianchi e le sedie Luigi sedicesimo, il miserabile perse tutto, dolcemente. Fra un petit-four e un bacio, fra uno stuzzichino e un appuntamento rapido rapido, il denaro gli scivolò via dalle dita. Erano pure unte. Solo l’olio d’oliva gli era rimasto. Adesso perdeva anche quello. E ora mio zio doveva prendere le damigiane piene del liquido vitale dalla casa del miserabile e portarle alla cantina della bisca. - No, non ci vado! - Una damigiana è tua, te la porti a casa tua. - No! - Ma che ti ha preso? Dai, che fai? I soliti capricci? - Non mi muovo di qui! - Ci vai e come! - Non ci vado e basta! - Ma che t’importa! E’ parente tuo? - No! - E allora? Mica è un poveraccio? E’ uno sfruttatore. Quello spella la gente per un po’ d’olio. - Non ci vado! - Guarda che se non ci vai, non rimetti più piede qua! - Ma andate affa’nculo! Stavano per prenderlo a calci ma il pugno del mio atletico zio centrò la mascella del biscazziere-capo e lo stese sul pavimento. Alzò poi una sedia dorata e la sbatté con forza rabbiosa sul marmo bianco. Con l’urto, quella sedia perse un glorioso piede che mio zio cominciò a fendere come una clava dorata, stile Luigi sedicesimo. I biscazzieri arretrarono. Poi, con una mossa che aveva copiato dai film di Zorro, capovolse il tavolo verde della roulette. Non era solo un gesto spavaldo e teatrale. Sotto la roulette apparvero i pezzi di magneti che guidavano la pallina. Una catastrofe! La fine della bisca! La fine del bel mondo! E la rabbia non era ancora sfumata. Tirò giù le tende di broccato rosso che cadendo portarono giù anche gli infissi ad arco della grandiosa sala da gioco. Crollata la scenografia! Lo presero a schiaffi, calci, pugni e sputi e lo catapultarono fuori dalla bisca. Qualcuno gli spense anche una sigaretta sulla spalla sinistra ma lui se ne accorse solo molto tempo dopo…. Mio zio ha sempre sostenuto che i biscazzieri gli volevano troppo bene, altrimenti l’avrebbero sistemato per le feste. Definitivamente. Si arrabbiò di nuovo così solo molti anni dopo, una vigilia di Natale degli anni ’80, nel supermercato ‘’Iperultrapiù’’ della capitale, ormai da tempo liberata. Si era infuriato, ci spigò, quando realizzo che attorno a lui c’era tutta gente in soprappeso che comprava prelibatezze. Nonostante gli anni, saltò sul tapis roulant della cassa e lasciò cadere per terra con tanto fracasso le sue quattro borse di plastica colorata, piene di ogni ben di dio appena acquistato. Fendendo una baguette come una clava dorata incominciò a urlare: ‘’Abbiamo fame, belle signore, abbiamo fame!’’ Dissero poi tutti che era la senescenza. Julio Monteiro Martins: Adesso invito Barbara Serdakowski a tenere il suo intervento Barbara Serdakowski: Ringrazio Julio per avermi invitata. Posso, in qualche modo, identificarmi con tutto quello che riguarda la scrittura migrante, perché chiaramente una delle primi frasi che mi rivolge la gente è:- Ma lei non è italiana?. Da ormai sette anni, nella mia vita quotidiana sento ripetermi questa frase. Sicuramente non lo sono. Sono nata in Polonia dove però non ho mai vissuto, anche se a casa, con i miei genitori e mio fratello parlavamo in polacco. Credo che il mio polacco sia una lingua che non ha potuto svilupparsi perché ovviamente due genitori non possono trasmettere una cultura di un popolo parlandone semplicemente la lingua. Tutto quello che conosco della Polonia l’ho letto sui libri, oppure nelle lettere che arrivavano dalla mia nonna. Quando avevo due anni siamo andati in Marocco, paese in cui ho trascorso la mia infanzia. Tutti i ricordi più cari e più teneri sono legati alla terra del Marocco, che per me rappresenta qualcosa di meraviglioso. A casa si continuava a parlare il polacco, ed era diventato anche una sorta di codice privato perché nessuno la capiva per cui quando volevamo dire qualcosa in segreto, parlavamo polacco. A scuola parlavo e scrivevo in francese anche se era molto presente anche l’arabo, che però non ho imparato. Erano gli anni Settanta e vivevamo in gruppi abbastanza separati: i francesi e gli arabi. Ad un certo punto i miei genitori hanno deciso di andare via, il loro lavoro in Marocco era terminato, però non volevano tornare nella Polonia di allora perché era un paese ancora nel dopoguerra ed aveva veramente poco da offrire. Così decisero di andare in Canada, perché nel Quebec si parlava francese e quindi mantenevamo una certa continuità con il francese. Naturalmente ho dovuto imparare anche l’inglese perché è un paese dove vige il bilinguismo. Abbiamo continuato a viaggiare molto, mantenendo come punto fermo il Canada. In seguito ho conosciuto mio marito, in Venezuela, e già studiavo le lingue straniere, così anche lo spagnolo è entrato a far parte del mio quotidiano. Ho sempre scritto poesie e racconti, sin da piccolissima, però ad un certo punto mi sono resa conto che non mi era più possibile scrivere in una sola lingua, c’erano delle interferenze con altre lingue. Quindi a me non si è posto il problema di lasciare la lingua madre, come accade di solito, sinceramente non conoscevo benissimo nessuna lingua, perché il polacco a quel punto era una lingua primitiva, lo parlavo forse bene, il francese lo parlavo sempre fuori casa, era la lingua che dominavo e parlavo forse meglio, però i momenti legati all’infanzia e alla famiglia erano in polacco. Quindi avevo diverse contaminazioni linguistiche. Poi c’era l’inglese e lo spagnolo, lingua del paese in cui vivevo, il Venezuela e con la quale lavoravo. Un po’ di anni fa abbiamo deciso di venire in Italia. L’italiano lo avevo iniziato ad imparare un pochino visto che mio marito era di origine italiana, anche se viveva in Sudamerica. Quindi in italiano non potevo certo scrivere. Come scrittrice “migrante” sento di avere una realtà un po’ diversa. Credo che ormai saranno sempre di più le persone che si spostano in vari paesi del mondo, le cui identità saranno poco definibili. Ci saranno più identità fuse in una unica persona, non più un gruppo come possono essere per esempio i cileni in Italia. Sarà un misto totalmente unico, per esempio la madre olandese, il padre spagnolo che vivono in Italia ma che hanno vissuto tanti anni in Madagascar! Non sarà più possibile accomunarli, saranno degli ibridi e tra di loro ci saranno degli scrittori, e ce ne sono sempre di più. Spesso tanti scrittori mi fanno domande sul mio metodo di scrittura perché sentono di avere i miei stessi problemi. La mia difficoltà è che quando scrivo una poesia, non mi viene in una sola lingua, non mi può venire in una sola lingua. Quando penso all’infanzia, a mia madre o a mio padre, ci sono delle voci che mi vengono in polacco o in francese, se penso ad altre cose mi viene un suono in spagnolo che me lo colora, tinte o sfumature in italiano. Mi ha fatto riflettere la domanda posta a Helene sul fatto di scrivere nella lingua originale. Concordo perfettamente con lei, non è più possibile scrivere nella lingua madre quando si vive per anni in un’altra realtà. Quando si cambia lingua si attinge anche ad un diverso tipo di immaginario, andiamo a cercare un’altra realtà, per cui cambierebbe sicuramente la storia che vogliamo raccontare. La mia poesia si deve alimentare della lingua in cui vive, perché nascono delle immagini. Quello che mi nutre è una lingua viva. Quando scrivo prosa è sempre più difficile tornare a scrivere in francese, ma ho anche altri problemi, i miei genitori non parlano l’italiano, ogni cosa che scrivo la vogliono leggere anche loro, per cui devo tradurre tutto in francese poi anche i miei familiari in Polonia vogliono leggerlo e così traduco anche in polacco e poi magari mia suocera vuole vedere quello che faccio, però parla solo spagnolo…!! E’ un bel problema! Posso dire di essere arrivata a delle conclusioni a livello di poesia. Questo perché mi sono trovata ad affrontare problemi di traduzione, come credo che accada a qualsiasi persona che scrive in una lingua diversa da quella madre. Tradurre narrativa mi sembra più facile rispetto alla poesia. Sento che i miei racconti tradotti riescono a mantenere il messaggio originario, mentre nella poesia è un dramma. La poesia non è solo concetti o parole, sono anche misure, suoni, tempi, respiri e ritmi che esprimono l’emozione e la sensazione insieme a ciò che si dice. Quando cambio lingua devo scegliere se seguire il ritmo, rispettando l’emozione sonora dell’originale, oppure il significato, perdendo completamente i tempi e la sonorità. Fino al 1986 scrivevo in varie lingue e poi traducevo tutto in un’unica lingua, generalmente in francese. Ad un certo punto ho deciso di smettere, mi sono ribellata ed ho deciso di scrivere in tutte e cinque le lingue, magari non mi leggerà nessuno, ma io non posso fare diversamente. Però poi mi sono un pochino pentita perché, abbiamo anche bisogno di essere letti in realtà, e spesso trovavo persone che leggevano fino a tre lingue e mi chiedevano di tradurre loro il resto. Poiché sono anche traduttrice ed ho studiato traduzione, così ho lasciato che la traduzione penetrasse il mio testo. Vi faccio un esempio, scrivevo un primo verso in italiano con pubblico italiano, però il secondo verso mi veniva in francese, a questo punto sotto il verso in francese appariva il verso tradotto da me in italiano. Quindi veniva fuori una poesia in due, tre, quattro, cinque lingue a seconda dell’ispirazione, che conteneva come inserti frasi che completavano la lingua di arrivo, erano una sorta di filo conduttore. Uno degli obiettivi era quello di non disfarmi delle mie parole. Se io compro un libro di poesie francesi e magari non parlo questa lingua, normalmente in un testo bilingue, vado a leggermi la parte in italiano e vedrò se la poesia, per esempio di Baudelaire, mi è piaciuta. Questo modo di leggere a me ha sempre disturbato molto perché la poesia dell’autore veniva in qualche modo scartata, anche se per semplici esigenze di vita, nessuno può pretendere di parlare tutte le lingue del mondo. Scartare le parole dell’autore per me equivale a leggere la descrizione di un quadro senza vederlo, o ascoltare una cover piuttosto che l’originale di un cantante famoso. Non è la stessa cosa. Facendo penetrare la mia traduzione all’interno della poesia, quest’ultima rimarrà sempre lì, anche se decorativa. Mettiamo che venga tradotta in cinese, il cinese penetrerà la mia poesia con la mia traduzione che rimarrà lì con le mie parole, a me va benissimo. La mia poesia può essere penetrata da qualsiasi altra lingua e l’ho già visto succedere, mi piace molto. Questo è accaduto quando ho cominciato a pubblicare in internet ed ho partecipato a vari siti dove si poteva interagire con vari autori e la partecipazione è stata positiva. Mi è capitato proprio che una signora brasiliana ha tradotto tutta una mia poesia inserendo il brasiliano al posto della mia traduzione. E’ stato anche un gran piacere sentire le mie poesie interpretate da più voci durante delle letture in occasione di premi letterari cui ho partecipato. La mia poesia veniva letta da una voce nelle diverse lingue e allo stesso tempo con un distacco veniva letta la mia traduzione scritta. Questa però è simbolica, perché può essere in italiano ma anche in qualsiasi altra lingua magari non più fatta da me. Così realizzo il mio piccolo desiderio di raggiungere un pubblico più internazionale, ognuno ha le sue piccole manie di grandezza e questa è la mia. Adesso vi leggo una delle mie poesia, in teoria vi leggo anche gli inserti della traduzione che dovrebbe avere un’altra voce. Le mie poesie dovrebbero essere lette a due voci, in realtà, però riuscirete a capire lo stesso. La prima si intitola Sento il vento. <>Sento il ventoSento il vento nelle mie ossa si oggi Nelle mie ire scandite malva scuro… Conserva le mie unghie tagliate Le ciocche di pena, i lacci sciolti, Con le mani ad acquasantiera retiens mes larmes Que je diverse en pluie bruyante et en sanglots Che rovescio come pioggia rumorosa, come singhiozzi Scèle Sigilla Scèle mes veines Sigilla le mie vene Mon sang repris sur ta ch’emise blanche Il moi sangue rappreso sulla tua camicia bianca Que je repasse, que j’étends Che stiro, che stendo I feel pungent roundnesses in ordinary days Sento rotondità pungenti in giorni ordinari In ordinary lives In vite ordinarie In ordinary ways In modi ordinary Siento el viento Sento il vento El viento color malva oscuro Il vento color malva scuro Debajo de los pies que son huesos de hoy Sotto i piedi che sono ossa di oggi Que son oras, oras oras. Barbara Serdakowski : Questa poesia conteneva anche parti non tradotte, ultimamente mi permetto la libertà di lasciare anche parti non tradotte. Chissà in futuro riuscirò a scrivere senza le traduzioni, ma non credo…Vi leggo la seconda poesia. Sabbia NeraLa main sur le ventre, les narines, les yeux! La mano sul ventre, le narici, gli occhi! Non sapevi che ieri, oggi, domani? L’haleine comme la mousson avec sable rouge en relief sur ma joue L’alito come il monsone con la sua sabbia rossa in rilievo sulla mia guancia Parole sciocche, mosche, tarme Flemma densa dai colori cangianti Against my naked (unveiled) awareness Contro la mia nuda (svelata) consapevolezza Statue of white marble standing crooked on pebble stones Statua di marmo bianco eretta storta su sassi di ghiaia Hay tres caminos Ci sono tre camini Io però resto qui Elefantesca nella mia solitudine Non avverto più dolore Ho levigato con sabbia nera di catrame, l’infimo dei miei sensi Adesso potrò finalmente Watch TV Le ossa della malnutrizione Le puttane picchiate Le bambine rapite Mi lascerò stuprare senza esitazione Barbara Serdakowski: L’altro aspetto di cui volevo parlare oggi è il progetto che sto portando avanti di arte e di ricerca. Non credo, come dicevo, che il fenomeno multiculturale sarà affiancato da individui multiculturali, misti talmente compatti che non sapranno più distinguere la loro etnia, ma diventeranno un unico insieme di cose che non sono più separabili. Questo ibrido sta nascendo sia a livello letterario, musicale, ed anche nelle arti visive e pittoriche. Insieme a mio marito, socio e collega, maestro Cesare Oliva, abbiamo deciso di creare un centro di arte e di ricerca basato sul riflessionismo, e sul manifesto da lui scritto, basato sulla creatività umana, sul perché dello stile, sulla nuova maniera di realizzare artisticamente la realtà, in modo pluriangolare e poliedrico. Questa ricerca artistica, letteraria e culturale vuole portare avanti queste nuove voci e questi nuovi aspetti che nascono dalla multiculturalità all’interno del singolo individuo. Secondo me questo sarà il futuro, anche se in Italia si sente ancora poco, ma questi centri, così come la rivista Sagarana che ospita creatori e scrittori che hanno punti di vista diversi, contribuiscono a creare un panorama italiano originale. Vedo questa apertura, anche se è forse vero che in questo momento storico si tende a considerare meno, rispetto al passato, la scrittura migrante, ma è un processo inarrestabile a mio avviso, è una nuova realtà che crescerà ulteriormente. Già i nostri ragazzi a scuola si sentono meno diversi, hanno magari genitori stranieri ma vengono considerati al pari degli altri ragazzi. Ragazzi cinesi che imparano sin da piccoli l’italiano, si troveranno a scrivere esperienze nuove, scriverà in un italiano perfetto ma provenendo da culture diverse da quella italiana. Quindi multiculturalità all’interno di uno stesso individuo. Il futuro è veramente dei cittadini del mondo. Io stessa non vivo l’Italia come un punto di arrivo. Per me l’Italia è stata una scelta un po’ casuale, volevo tornare in Europa, per me la Polonia non era possibile per motivi che tutti conoscono, è un paese ancora molto povero, mio marito era di origine italiana e l’Italia aveva a suo favore anche il clima che è fantastico! Ancora un’ultima poesia. Senza ali Si lancia nei raggi verdi, uccello azzurro-pallido migratore Hasta alcazar las luces del huir Fino a raggiungere le luci del fuggire Como si en el mañana no se nidificariam mas nunca los miedos olvidados Come se nel domani non si nidificassero mai più le pause dimenticate Verso un camino improbabile Dietro vetri di buio colorati Un retour réduit au silente Un ritorno silenziato Down to the flatness of absurdity Che scende fino alla piattezza dell’assurdità Contro la voragine della corrente vortice Rialzabile, malleabile, ma da altri. C’est quand le tout rejaillit sur les bavures d’une vie stifmatisée È quando il tutto sgorga sulle sbavature di una vita stigmatizzata Con parole erette dietro labbra trattenute Occhi urne e crociate Les pause de temps se complémentent et se replient Le pause di tempo si complementano e si ripiegano Non ci rimane che aspettare Nel vento che scopre ventri e seni Uteri ricolmi di vite turbate Ayer estabas conmigo con tus culpas sobre el pecho y tu ombra manchada Ieri eri con me con le tue colpe sul petto e la tua ombra macchiata Adesso ancora l’inganno E poi nient’altro che il suo prezioso battito di volo Senza tanta luce E senza ali. Julio Monteiro Martins: Trovo che la tua idea di un nuovo individuo multiculturale sia molto moderna, rappresenta una nuova libertà. Così come accade a venti, venticinque anni che un ragazzo abbandona, per così dire, la famiglia per scegliere una nuova famiglia che sono gli amici, oggi nel XXI secolo si comincia a scegliere il paese e la lingua e la cultura dove vuole vivere, in diverse fasi della sua vita. Anche a me sta stretta l’etichetta di scrittore brasiliano in Italia, dove metto gli anni che ho insegnato e vissuto negli Stati Uniti e i miei studi in Francia, negli anni Settanta? Prima che venissi a vivere qua, i miei amici e colleghi in Brasile mi vedevano molto poco brasiliano. Credo anch’io che nella generazione dei nostri figli sarà sempre più frequente questo tipo di esperienza di vita in diversi paesi e lingue, con amici, ex-mogli e ex-mariti, attuali fidanzati o fidanzate di diversa nazionalità. La tendenza va in questa direzione, questo magari è uno degli aspetti più promettenti della cosiddetta mondializzazione della vita, proprio a livello della microfisica dei rapporti del quotidiano. Ho trovato, quindi, molto fertile la tua possibilità di comporre un unico testo letterario con l’esperienza anche affettiva di tutte queste lingue che hanno fatto parte della tua vita. Se tu potessi organizzare una festa ideale, magari per il tuo cinquantesimo compleanno, visto che hai vissuto in diverse parti del mondo, avresti chiamato persone di diverse nazionalità, e così, poiché vedo la scrittura come una sorta di festa ideale e privilegiata, anche lì, si invita tutta la nostra esperienza linguistica precedente. La domanda che vorrei farti è questa. Tu vivi in Italia. Ho notato che in questo sperimento molto curioso di autotraduzione, quasi teatrale, perché ogni verso viene tradotto come se ci fosse un traduttore presente in scena, ci sono due voci distinte. Bene, se tu dovessi andare in Polonia o in Francia o in Spagna, il secondo verso di ogni verso dovrebbe essere in spagnolo, per esempio, ed allora sarebbe una poesia diversa ogni volta come sonorità. Barbara Serdakowski: La poesia originale no. Julio Monteiro Martins: Ma l’opera finale è la combinazione di queste due cose… Barbara Serdakowski. Ma mi va bene… Julio Monteiro Martins: Il fenomeno curioso è proprio questo, ogni poesia diventa sei poesie, otto poesie, perché se tutti i secondi versi non sono più in italiano, ma in spagnolo, polacco o altre lingue, la musicalità in generale cambia. Barbara Serdakowski: Infatti questo è stato un punto di partenza molto importante per me. Sono molto contenta del tuo commento e della tua domanda. Non vedo la poesia come una cosa statica. Vedo, invece, la mia poesia come è stata la mia vita fino adesso, mobile, che cambia lingua a seconda dell’ambiente in cui si trova. Chiaramente i versi originali che sono stati scritti in più lingue, cinque perché ne conosco solo cinque, ma sono solo lingue simboliche perché poi potevo scriverli in quattro oppure sei lingue, e poi c’è quell’altra voce. Io dico spesso che la seconda voce non è una traduzione, ma una voce che lega le altre mille. Questa voce lega quella che sono io e quindi molteplice, e che la lega in una sola lingua. Di paese in paese questa seconda voce cambia e in qualche modo, contrariamente agli altri poeti cui non piace che qualcuno metta mano alla loro poesia, nel caso mio è una cosa auspicabile. La mia poesia rimane aperta. Rimane aperta alla contaminazione. Questa parola include degli aspetti che non sopporto, è una parola d’amore e d’odio, ma in tutti i modi, la contaminazione con tutte le altre lingue è proprio quello che cerco. Helene Paraskeva: Tu hai espresso un augurio, che io condivido pienamente, ovvero quello di vedere un mondo non multiculturale ma interculturale. C’è un però, ovvero quello che non vedo nella realtà quotidiana. Vorrei fare un distinguo, perché vorrei darti due esempi. Parlo di una scuola frequentata da ragazzi romani, figli di persone che lavorano alla F.A.O., quindi di tutte le nazionalità e coppie miste e doppie-miste, dove il livello culturale e sociale è alto, muovendosi in ambienti sociali molto alti, dove poco importa il colore della pelle. E poi ti parlo di un’altra scuola che conosco, vicino alla Rai, frequentata da 750 ragazzi, che conosco bene per diversi motivi, e dove ti assicuro che i ragazzi neri e indiani non escono dall’aula quando c’è la ricreazione, ti parlo di adolescenti crudeli. Ci sono ragazzi di colore che non escono dall’aula per quei dieci minuti di aria e libertà, perché si autocostringono in classe per non vivere il momento di socializzazione che per loro è brutale e crudele. Il tuo augurio è un divenire e un distinguo. Quello che sta in cima alla piramide sociale, alla base non è ancora arrivato. Barbara Serdakovski: Hai ragione pienamente. Anch’io posso raccontare un episodio. Un po’ di anni fa arrivo all’entrata della questura e c’era una grande fila fuori con due poliziotti. Mi metto in fila senza aprire bocca e uno di questi, il più sgarbato mi dice: - “Ei tu, la fila dell’Est è di là!.” Alzo il passaporto canadese e questo mi fa: “Ah, signora, prego”. Dal tu al lei “Sportello numero quattro, si accomodi pure!”. E devo inoltre aggiungere che sui luoghi di lavoro quando mi chiedono di dove sono, difficilmente rispondo polacca, ma dico molto più facilmente canadese. Ho la cittadinanza canadese, ma c’è questo piccolo dolore che se dico polacca, gli occhi, lo sguardo della persona che ho davanti è leggermente diverso che se dico Canada. Anche i miei figli a scuola se dicono che sono canadesi, perché sono nati in Canada, hanno un’accoglienza diversa rispetto a quella che riserverebbero ai polacchi. Quindi, è vero non è ancora del tutto realizzato, ma sono un’ottimista e un’idealista di natura e tutto comincia con una visione. Io vedo il divenire, che non sempre e non dappertutto, porterà a questo risultato. Julio Monteiro Martins: Anche se questa situazione ideale dovesse accadere, vi è insito un altro rischio, quello della riduzione della ricchezza della diversità e una tendenza all’omologazione che crea un impoverimento generale. Bisognerebbe cercare di preservare al massimo le caratteristiche originali di ogni elemento della diversità, della biodivesità culturale, se si può dire così, mentre questo processo avanza simultaneamente. Barbara Serdakowski: Bisogna però che non accada quello che ho visto io in Canada, ovvero vi è stato un processo di migrazione così veloce che ha prodotto una ghettizzazione di ogni etnia, che non ha sbocco, perché non si alimenta più dalla vera fonte. Per esempio, la Polonia è cambiata. I polacchi che sono arrivati in Canada trent’anni fa vivono una realtà che non esiste. Mantengono tradizioni e fanno determinate cose in base a ricordi di trent’anni fa. Non è più questa la situazione in Polonia, chiaramente andando verso il futuro, non dobbiamo seguire il melting-pot americano, di tutto un brodo, che ha portato ad un impoverimento della cultura e non ad un arricchimento, per certi aspetti, e che magari ci porta ad aggrapparci tenacemente a cose che non sono più quelle. Partecipante: Volevo chiedere a tutte e due quali sono i vostri scrittori di riferimento. Barbara Serdakowski: Sì, ho degli amori. Sono dei classici della letteratura, Edgar Allan Poe, Kafka, Joyce, alcuni scrittori canadesi poco conosciuti Gabrielle Roy e Julien Herbert. Dei nuovi, mi piace molto Milan Kundera, ogni volta che leggo qualcosa di suo, corro subito a scrivere, perché è uno scrittore con il quale mi identifico tantissimo. Di scrittori italiani conosco solo gli autori di teatro. I classici li ho conosciuti solo in Italia, perché all’università in Canada non seguivo corsi di letteratura italiana. Però, c’è un autore, un poeta italiano che mi è piaciuto tantissimo, è Dino Campana. L’ho scoperto dieci anni fa. Tutto quello che ho letto dopo i trent’anni mi è piaciuto e lo apprezzo, ma le folgorazioni che ho avuto a quindici, diciotto anni con Kafka e Poe, rimangono le più importanti, i miei grandi amori. Dopo è come se si fosse chiuso qualcosa. Posso citare altri autori che mi piacciono come Cervantes o Garcia Marquez, altra fonte infinita. Helene Paraskeva: I due grandi per me sono Heminguay e Moravia. Sono due scrittori laconici. Per Heminguay si parla della metafora dell’iceberg, quello che dice è solo la vetta, ma in realtà, sotto c’è tutto. Moravia è un grande moralista. Tutti gli altri li amo, li lascio. Devo dire che Cristiana de Caldas Brito, che non è qui presente, ma che noi tutti conosciamo, mi ha dato la forza di scrivere. Non è che la imito, perché sarebbe impossibile imitarla, però mi da la spinta. Cesare Oliva: Volevo domandare a Barbara, qual è la differenza tra un intellettuale e un creatore. E poi, il tentativo di preservare l’intenzione del creatore originale, non è forse stata quella per cui tu hai introdotto il traduttore nella tua poesia? Barbara Serdakowski: La creatività è una cosa estremamente fragile che spesso viene stroncata in tutti i modi dal sistema accademico e culturale, che vuole in qualche volta impossessarsi della creatività del singolo artista e plasmarla per poi riflettere determinate tendenze culturali o fini. Tutto quello che riguarda la creatività deve essere preservato al massimo. Infatti, molto spesso, prima di scrivere una nuova raccolta di poesie, non leggo più e non guardo più la televisione, ascolto solo musica straniera in una lingua che non capisco, proprio per non lasciarmi influenzare dalle loro parole. Sento che in me la creatività è molto fragile, che va preservata ad ogni costo. Spesso gli accademici intervengono sugli scrittori e gli artisti. Non a livello della tecnica, ma a livello della creatività individuale. La creatività è l’unica fonte pura, che fa la differenza tra una persona che si esprime ed un vero artista. Non voglio dire con questo che io sono una vera artista e qualcun altro non lo sia. Però, è soltanto preservando e custodendo gelosamente questa creatività fragile, che nasce da qualcosa di molto profondo e non deve essere contaminata dall’apprendimento o dalla cultura o dalle istituzioni che poi non hanno proprio niente a che vedere con la fonte creativa. Davide Bregola: Tra gli autori stranieri che scrivono in italiano ho notato spesso delle tematiche di testimonianza, ossia sono narratori o poeti che raccontano la loro migrazione. Mi sembra che in voi questo aspetto non esista, almeno in quello che avete affrontato nei testi letti qui. Questo rientra nella vostra poetica oppure è un superamento di tematiche che sono già state affrontate così largamente che, razionalmente, avete deciso di dedicarvi ad un aspetto della vostra creatività che trascende quello dell’esperienza della migrazione? Vedo che nel mercato editoriale lo spazio per i racconti e le poesia è poco e allora volevo sapere quali sono stati i percorsi che vi hanno portato alla pubblicazione, una rivista, una conoscenza con un editor o con un editore o c’è dell’altro? Helene Pareskeva: Nella mia raccolta Il tragediometro ed altri racconti ci sono racconti che riguardano direttamente la mia esperienza da emigrata, anche se oggi ho scelto di leggervi due racconti diversi. Come vi dicevo c’è un racconto, l’ultimo, “Quella sera che il bacio non era pneumatico” che parla proprio della mia esperienza di immigrata a Roma. Anche altri miei scritti non ancora pubblicati esce fuori questa tematica, per me non esiste superamento, anzi lo trovo anche un po’ snob come concetto; è un qualcosa che quando arriva, arriva, e io la lascio fluire liberamente. Per quanto riguarda l’iter editoriale le cose per me sono andate così: ho conosciuto Fara Editore, anche se poi avrei potuto, in realtà, fare una pubblicazione a pagamento, ma l’ho scoperto dopo. Ci sono stati tanti libri pubblicati inizialmente a pagamento e poi si sono affermati da soli come Il bell’Antonio di Brancati. Io ho vinto un concorso intitolato “Pubblica con noi” e questo è stata una grande gratificazione mia, da persona severa e un po’ masochista. Davide Bregola: Non ero mai incappato nel tuo nome. Avevo visto che sia nella rivista Sagarana che in Kuma, o Voci dal silenzio, non avevi ancora pubblicato niente. La prima volta che ho notato il tuo nome è stato proprio per la pubblicazione di Fara. Mi interessava proprio sapere se avevi tenuto tutto celato nello scrigno segreto oppure se avevi fatto un percorso diverso che è quello della rivista e del quotidiano, mentre invece mi sembra di capire… Helene Pareskeva: E’ una cosa ciclica, più ti invitano a presentare e più scrivi. Però, ci deve essere all’inizio qualcosa che tu hai scritto comunque anche se resta per te, nel cassetto. Io ne ho di cose rimaste nel cassetto. Barbara Serdakowski: La tematica del non essere italiani credo che nella scrittura sia inevitabile. Purtroppo è quasi un tema tabù. Hanno subito dei traumi e questo li ha portati a scrivere la loro storia e a pubblicare. Alcuni erano anche bravi, nonostante non fossero scrittori, e non abbiamo più proseguito una carriera letteraria. Gli scrittori con una vera vocazione non potranno scrivere sempre quello che succede loro. Infatti ho scritto dei racconti dove parlo di me, ma anche di altri stranieri che vivono in Italia. Il racconto Il maglione verde, pubblicato forse su Kuma o Sagarana, non ricordo più, parla di una ragazzo marocchino che viveva con gravi difficoltà: Racconto sempre la storia di un disagio anche se non mi riguarda direttamente. Poi ho scritto di un polacco andato in Sicilia e poi a Chicago, quindi mi identifico sempre con una persona che viene da di fuori. Per me è un tema che non posso evitare, però posso anche scrivere di una ragazza che ha sempre vissuto a Firenze. In Italia ci sono mille premi letterari, credo, forse a questo punto pure troppi, come dice qualcuno. L’opera scritta va letta per forza, ci vuole un certo sforzo e non tutti hanno il tempo di sedersi e leggere. Uno scrittore non è mai soddisfatto quando lo hanno letto in due o tre persone, quindi sicuramente il concorso è forse la cosa ideale per farsi leggere perlomeno da una ventina di persone e non è male. Quindi anch’io ho partecipato a tanti concorsi, ne ho vinti alcuni ed è gratificante anche ricevere un piccolo assegno. Nei concorsi poi si conoscono persone che lavorano in ambiente editoriale e ti presentano ad altri scrittori o editori. E’ come una vetrina. Poi propongo i miei scritti alle riviste, più francesi e straniere che in ambito italiano. Sono stata pubblicata e da lì ho ricevuto altre richieste di pubblicazione. Apprezzo molto i concorsi, anche se tanti non valgono proprio la pena, perché sicuramente è una palestra importante per uno scrittore. Cristiana Sassetti: Ero curiosa di sapere se Helene ha iniziato a scrivere narrativa direttamente in italiano e in Italia oppure come fa Barbara, si è all’inizio autotradotta dal Greco. Helene Pareskeva: Già in Grecia scrivevo e avevo scritto un testo teatrale che aveva vinto un terzo premio. Anch’io volevo parlare delle lingue miste dentro di me. L’italiano è la lingua dell’Ego, che tiene il racconto, il greco sta nell’Id del racconto, l’inglese è il Superego e…e le parolacce in turco che ho dimenticato, ma se le sento mi vengono subito in mente, e utilizzo anche quelle, anche se non a livello consapevole, un qualcosa di molto profondo che ho rimosso. Poi c’è anche il francese, non so se hai notato… è quello di un certa borghesia “molto elegante”. Tutte queste lingue hanno fraternizzato, non si fanno del male. Sonia Sabelli: Volevo riprendere il fatto del superamento o meno della tematica della migrazione di Davide Bregola. A me sembra che in quelli che hai letto tu, in particolare a me è piaciuto molto il primo in cui c’è questo ragazzino con una identità sessuale ambigua e si confronta con il colonizzatore, diciamo che sono due rappresentazioni opposte di una mascolinità in crisi che secondo me caratterizza la nostra epoca. Mi sono interessata alla migrazione perché secondo me è un modo di rappresentare una condizione esistenziale in cui la differenza è centrale e la differenza viene espressa in un modo creativo e positivo. La differenza nel senso di andare fuori dalla norma, che è un po’ il discorso che facevi tu, sulla lingua. Questi personaggi, compreso il ragazzo della seconda storia che rimane emarginato, non partecipa alla guerra e alla fine incompreso, e in vecchiaia ritenuto un po’ pazzo, mi sembra appunto che siano tutti dei personaggi che vanno fuori dalla norma e in qualche modo anche se non c’è il fatto pratico dell’esperienza della migrazione, vivono in una condizione esistenziale di estraneità rispetto alla norma. Volevo chiederti se anche gli altri racconti, che non conosco, hanno questo aspetto in comune e poi volevo avere notizie del romanzo nel cassetto di cui parli in un intervista. Helene Pareskeva: Il fatto che i miei personaggi non sono al cento per cento normali… è verissimo! Del resto nell’introduzione c’è questo ballo con i danzatori e lì si raccoglie tutti gli enfants gatés all’incontrario del quartiere. Non li ho scelti consapevolmente. Bisogna dirlo, c’è stata una recensione un po’ negativa nei miei confronti e quella che mi ricordo anche meglio di tutti perché mi ha bruciata di più, è quella in cui si diceva che io volevo spingere un po’ verso il racconto hard. Intanto questo ragazzino ambiguo c’est moi e quindi tutti siamo ambigui. Del resto se volessi scrivere hard, anche Kureishi ha cominciato così e si è fatto le ossa su questo tipo di scrittura. Quindi se io un giorno volessi scrivere hard, basterebbe prendere spunto da Sisifo, non dico per fare i soldi, ma non è che avrei problemi a farlo. Del romanzo non si deve dire ancora niente. Amor Dekhis: Secondo me non c’è niente di male a fare soldi con un romanzo anche hard, se ne abbiamo la possibilità. Helene Paraskeva: Non ho detto che non vorrei fare soldi. Chi dice che non vuole fare soldi o è un ricchissimo e vive di gloria oppure è un ipocrita. Io ho detto che scrivendo racconti hard, spinti quindi, è un modo di fare soldi veramente. Quindi se circola veramente questa mia reputazione di scrittrice hard ho delle buone chances che non rinnego assolutamente, anzi, sono d’accordo con te. Julio Monteiro Martins: Vi ringrazio davvero molto per la vostra partecipazione.
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