Venerdi 19 luglio - pomeriggio - Incontro con Jasmina Tesanovich

Interventi di: Mia Lecomte, Julio Monteiro Martins, Amor Dekhis, Anilda Ibrahimi, Francesca Caminoli, Jasmina Tesanovich (scrittrice, Serbia), Stephanie Damoff (filosofa, Stati Uniti), Sonia Cherbino, Cecilia Rinaldini, Sonia Sabelli.


Julio Monteiro Martins - Vorrei dare il benvenuto agli invitati di questo pomeriggio, abbiamo Jasmina Tesanovich e chiederei a Francesca Caminoli di presentarla.

Francesca Caminoli - Conosco Jasmina non da tanto tempo, ci sono state una serie di coincidenze che ci hanno fatto incontrare attraverso una comune amica. Nel frattempo, però, avevo letto il suo libro che è stato tradotto in Italiano e che poi è diventato famoso in tutto il mondo. In italiano si intitola Normalità, operetta morale di un'idiota politica, però sostanzialmente è un suo diario andato in Internet durante la guerra del Kosovo, e poi è stato pubblicato in tantissimi paesi. E così è nata questa conoscenza, all'inizio per e-mail e poi di persona.
Jasmina è cresciuta prima in Egitto e poi in Italia, è ritornata a Belgrado a 25/26 anni, quindi scrive in diverse lingue, per esempio, un libro che lei ha appena finito e sta per essere pubblicato si intitola Matrimony, è scritto direttamente in inglese.
Anche se qui si parla di letteratura migrante in italiano è comunque interessante sentire anche un'esperienza dell'uso di una lingua che non è esattamente la tua lingua madre. In Italia ha studiato lettere moderne e cinema, ha lavorato anche nel cinema come assistente di Janichko e di altri registi. Dal suo diario di guerra è stato tratto anche un documentario andato al festival di Venezia due anni fa, dove lei era in veste di protagonista, non di autrice, perché riprendeva la sua vita durante la guerra. È una grande amante di Anna Arendt, ha scritto anche un libro che si intitola Io, la mia strada multiculturale, che è una raccolta di testi di vario tipo, alcuni di narrativa altri più saggistici, e viene chiamata in varie parti del mondo oramai come, va beh, a parte che come esperta purtroppo della guerra balcanica, ma anche come esperta del linguaggio, per il fatto che lei usa vari linguaggi. È anche un'amante di Nefertiti, ma forse e meglio che parli lei stessa... Ah! un'ultima cosa: dopo che ci siamo conosciute Jasmina ha tradotto il mio libro in serbo, e ne è anche l'editrice. Questa è una cosa interessante da dire, loro a Belgrado hanno una tipografia dove lavorano tutte ragazze, e il libro era il primo di questa nuova vita della casa editrice, vero?

Jasmina Tesanovich - Sì, adesso siamo completamente autonome, possiamo fare quello che vogliamo ...e più che altro facciamo delle cose che nessuno fa, quindi va bene essere autonome. Io volevo dirvi delle cose, come mi piace questo incontro in cui si parla delle lingue non proprie. Io da sempre posso dire, da quando sono diventata scrittrice, non ho una lingua madre, una lingua prima e per me questo è stato il grande motivo che mi ha spinta a diventare una scrittrice, oltre alle guerre che ho subito e non ho mai scelto.
C'è questo fatto che io sono cresciuta praticamente con tre lingue parallelamente, vivevo in una famiglia jugoslava, dove si parlava serbo-croato, non ho mai chiesto ai miei genitori se fossero serbi o croati o musulmani, era proprio una cosa che non esisteva nella mia famiglia, erano tutti jugoslavi. Loro andavano in giro per il mondo e viaggiavano molto e io andavo con loro. Sono andata via dalla mia patria quando avevo sei anni. Ho vissuto in paesi diversi, prima in Egitto poi in Inghilterra e finalmente in Italia, frequentando sempre il collegio inglese, quelli dove praticamente torni a casa solo per dormire, per cui la prima lingua in cui ho scritto è stato l'inglese, ho scritto lettere in inglese.
Vivevo più che altro in Italia, per cui quotidianamente passavo da una lingua all'altra tre volte. Era normale per me parlare con i miei in serbo-croato, guardare la televisione e parlare con gli amici in italiano e scrivere e pensare in inglese. Questa era più che una schizzofrenia, un dramma per me, era una sofferenza enorme. Quando poi ho avuto mia figlia dopo tanti anni, ho detto mai e poi mai, tutte le tragedie vanno bene, però vivere in tre lingue contemporaneamente non glielo posso permettere. Viaggiavo molto, ma lei la lasciavo a casa così imparava una lingua bene, e a sentirsi bene emotivamente. Dopo molti anni ho capito che questa tripartizione linguistica era un tesoro. Però bisogna crescere emotivamente e capire quello che può essere una tragedia, che può anche distruggere la testa, il linguaggio, perché è vero che la lingua è la vita, è una risorsa. Io ho capito che quando parlo e scrivo in serbo sono molto emotiva, quando parlo e scrivo in inglese sono molto precisa, quando parlo e scrivo in italiano sono molto brillante, però queste cose non posso metterle insieme nello stesso tempo. Se io scrivo un racconto in inglese, come faccio dal '94, da quando abbiamo avuto il regime totalitario per cui non si poteva più pubblicare in Jugoslavia, e allora io dovevo pubblicare prima all'estero, soprattutto in inglese, con un'offerta di pubblico vasto, ho capito che traducendo dopo in serbo-croato scrivevo delle altre cose. Delle cose che erano non leggermente diverse ma totalmente diverse, al posto di un no scrivevo un sì, non so neanche perché. Ho capito che questa mia schizzofrenia triplice andava avanti, che tu non puoi scrivere due volte la stessa cosa: non a caso io sono la traduttrice di Karen Blixen in serbo-croato, che è una danese che ha scritto in inglese, di Ana Arendt che è una tedesca che ha scritto in inglese. Quest'ultima, quando riprendeva il suo libro dal tedesco all'inglese e poi ritornava al tedesco, era una cosa tremenda, tutte e tre le versioni erano diverse, non solo sviluppate in modo diverso, ma diceva cose diverse, perché il linguaggio è una materia viva. Allora questa mia amica Stephanie, che è qui con noi, è diventata nel frattempo la mia redattrice. Il nostro incontro è stato casuale, come quello con Francesca, tutti gli incontri più importanti della mia vita sono stati casuali, tutti i miei successi sono stati basati soprattutto sull'amicizia intima, io credo soprattutto nell'amicizia, nell'amicizia tra la gente, tra le donne soprattutto, la base emotiva sta alla base della politica grande.
Lei l'ho conosciuta tanti anni fa, nel '94 ad un convegno come questo qui, a Cracovia, e allora mi sembra che scrivessi ancora in serbo o in italiano mi pare, perché vivevo in Italia, ad un certo punto lei mi ha chiesto come si viveva a Belgrado, visto che avevamo già avuto due guerre. Lei è di New York, e allora per spiegarglielo mi sono messa a scrivere lettere quotidianamente. La sua prima domanda è stata come si viveva a Belgrado e io le ho risposto che era pazzesco, non c'era più vita normale. E lei mi dice che vive a New York, a Manhattan (prima dell'undici settembre), che è una fotografa che va a studiare filosofia a New York e aggiunge "Oddio quanto è noiosa la normalità!". Ed io che ero come lei, prima che ci fossero le guerre, le dico, ma guarda, tu puoi permettertelo di dirlo ma quando la mattina vai a comprare del latte e non ce n'è...vai alla banca ed è chiusa perché è fallita...e le scuole chiudono e allora non sai come fare con i figli… a questo punto, sai come è importante la normalità! Allora mi sono arrabbiata con lei, pur essendo mia amica, ho cominciato a scriverle tutti i giorni, e lei a farmi le domande, e siccome studiava filosofia, le domande erano sulla definizione di normalità in Aristotele, ed io a risponderle, che è poi il libro che è stato pubblicato ed ha avuto il massimo successo dopo, con la guerra del Kosovo e con il marchio di Milosevich come dico io, che è stato tradotto in dodici lingue. Il libro è una risposta arrabbiata a questa mia migliore amica, nel tentativo di spiegarle che cosa è la perdita della normalità. Prima che iniziassero i bombardamenti, noi avevamo già pronto il libro, queste mie lettere, e abbiamo cercato di pubblicarlo e avevamo persino trovato un editore. Solo che poi è iniziata l'ultima fase, che era la più interessante, il mio diario è andato avanti e lo abbiamo pubblicato solo dopo.
Adesso, quello che io volevo dire a questo proposito, è che cosa è successo con la lingua, perché è quello che mi interessa ed è il tema di questo nostro incontro. Che cosa ho fatto io a lei e che cosa lei ha fatto a me, in questo nostro scambio di lettere? Io scrivevo in inglese, lei leggeva i testi e tentava di farne la redazione, di metterli in inglese americano, perché il mio inglese era molto accademico, molto british, un inglese che nessuno parla. Come dicevo, lei era affascinata da quello che scrivevo io perché usavo un inglese ricco, con parole tutte a posto, però in un modo del tutto particolare: facevo delle metafore strane, traducevo dall'italiano o dal serbo, allora lei invece di correggerlo di metterlo in un inglese proper, lo lasciava in questa forma qua e questo ha influito nel suo uso del linguaggio. Quando io dovevo tradurre poi dall'inglese in serbo, e una mia amica faceva la redattrice, perché il libro doveva uscire in Serbia, lei usava la redazione di Stephanie non la mia traduzione, facendo quindi un ciclo doppio; cioè la lingua ha subito tre giri di cui io mi consideravo la meno responsabile. Ed ho capito che questo è un lavoro di tre amiche, e anche di un ciclo di lingue e di storia che oltrepassavano la mia modesta presenza di quella che è stata la prima a scrivere certe cose. Tante volte non riesco nemmeno a capire qual'era l'originale, quella cosa che avevo scritto io. Io a questo punto sono una scrittrice che scrive in inglese, che vive a Belgrado e che pubblica in Spagna. Noi, gente che vive in questo modo una vita letteraria, di cui io peraltro non mi lamento perché vivo benissimo, anche materialmente e psicologicamente, abbiamo il diritto a una lingua costruita che deve concorrere con la lingua originaria, primaria della gente, con cui è cresciuta culturalmente. Quando uso il mio inglese, e non sono solo io, ma tutta l'Europa orientale, ex-comunista, sta imparando l'inglese in tutta fretta, gente che conosce l'inglese ma in modo astratto, e che però sta cambiando l'originale, il secondo che influisce sul primo, ormai è veramente una babele, che secondo me è più che legittima. Noi che non abbiamo la prima lingua, abbiamo il diritto di trattare la seconda lingua come la prima , e abbiamo il diritto di abusarne, perché non è un abuso ma un arricchimento; nella società multiculturale il minimo che possiamo fare è ammazzare la prima. Ammazzare la dominante, la lingua del padrone. Forse Stephanie potrebbe aggiungere qualcosa dato che lei è una filosofa della New School of New York.

Stephanie Damoff Quando mi sono messa per la prima volta a fare la redazione del libro Normality di Jasmina, avevo paura di cambiare qualcosa e volevo semplicemente metterlo in un inglese corretto dal punto di vista grammaticale. E mi sentivo sempre come una intrusa, però lei mi dava sempre un feed-back positivo, mi diceva fai come vuoi. Allora sono diventata sempre più audace, coraggiosa, finché non ho avuto la sensazione che cambiavo tutto usando le mie parole, ad un certo punto lei mi ha chiamata coautrice, e gliene sono stata molto grata. E adesso che io stessa scrivo, non so più se è la mia o la sua voce che parla.

Julio Monteiro Martins - Vorrei fare questa osservazione: tu hai usato diverse volte la parola normalità e noi per coincidenza, abbiamo usato in questi giorni la parola normalità, ma in un senso molto diverso dal vostro. Ti spiego in due parole: c'è uno spazio crescente per questi scrittori che vengono da tutto il mondo e per scelta hanno fatto di scrivere la loro letteratura in lingua italiana. Tuttavia è uno spazio dentro una certa nicchia degli scrittori migranti ecc. e che come nicchia diventa una sorta di gabbia, che non minaccia l'egemonia, in un certo senso, degli scrittori nativi, di madrelingua italiana. Allora, quello che gli scrittori migranti, in un momento più attuale di questo fenomeno in Italia, rivendicano è il diritto alla normalità, che sarebbe il diritto ad essere considerati scrittori punto e basta, scrittori tout court, come tutti gli altri, essere giudicati dal merito stesso, dal risultato delle loro opere, dai racconti o romanzi che scrivono, essere recensiti negli stessi spazi degli altri, insomma avere un trattamento normale e non più un trattamento che magari può sembrare privilegiato, mentre in realtà è ghettizzante.

Jasmina Tesanovich- So di quello che state parlando, però credo che sia un problema molto più generale, un problema economico anche di dominazione culturale, perché per esempio quando sono stata due anni fa in Portogallo per presentare il mio libro, mi ricordo che la mia casa editrice, una delle più grosse del Portogallo, che pubbblica Saramago acc., non riusciva a venderlo a Francoforte ai paesi anglosassoni. Invece io le ho chiesto se conosceva uno scrittore inglese meraviglioso, molto famoso...adesso mi sfugge il nome... ah sì! D. M. Thomas-White Hotel, è stato pubblicato anche in Italia, ma nessuno lo conosce- e lei mi ha risposto che non lo aveva mai sentito nominare. Secondo me a questo punto è una cosa... non so forse noi in Serbia che siamo un paese così piccolo, con complessi di inferiorità, pubblichiamo tutto. Riteniamo di essere informati, non solo sui premi Nobel ma su tutto quello che conta nel mondo, poi magari escono fuori anche cose brutte, però questi paesi si possono anche tagliare per linea geografica, tipo latini e anglosassoni, non lo so. Ci sono delle tali lacune di conoscenza, a parte il fatto che poi tutte le culture sono chiuse, nazionaliste, e poi c'è anche questa motivazione sotto sotto, economica, e non ti fanno mai entrare nella mainstream, questo come scrittore straniero.
Io per esempio ho avuto l'esperienza di pubblicare in inglese, di scrivere in inglese, però non ti fanno entrare se non come elemento esotico, insomma. Per di più usano come materia prima quello che scrivi tu, e la rielaborano nelle loro letterature: sto parlando non tanto degli scrittori, che poi hanno il diritto di parlare di quello che vogliono, ma degli editori che hanno molta più fiducia di uno scrittore, non só, se sei in America, americano che scriverà su un tema serbo piùttosto che di una scrittrice serba che scriverà su un tema serbo, anche scrivendolo in inglese. Io non so nemmeno che identità ho, però non so se vorrei essere una scrittrice americana, per esempio, io non voglio fare la vita di una scrittrice americana, perché non lo sono, preferirei che tutti loro diventassero scrittori come me. Io vorrei cambiare il mondo, magari è un'utopia, però è per questo che vivo a Belgrado, è per questo che ho la mia casa editrice, che ho la mia tipografia. Adesso tentiamo insieme a Stephanie e con altre persone dell'Europa dell'Est e dell'Ovest, fra donne, più che altro anche femministe, di pubblicare dei libri in inglese a Belgrado, perché non costa niente, e di fare la distribuzione negli Stati Uniti.

Julio Monteiro Martins- Questo mi dà l'opportunità di parlare anche di un'altra cosa. Ieri c'era qua una scrittrice americana, Brenda Porster, che ora scrive anche in italiano, e parlavamo del fatto che trent'anni fa, quando vivevo negli Stati Uniti, il 30% dei libri nelle librerie erano traduzioni, mentre oggigiorno, quando ci torno e osservo le librerie statunitensi, magari ce n'è solo un 5%. Per questo forse Saramago, nonostante sia un grande scrittore e un premio Nobel, è così difficile da pubblicare.
Noi eravamo arrivati alla conclusione che il mondo si configura in un tale modo che c'è un'unica lingua di prima classe che è l'inglese, e una grande quantità di lingue di seconda, e una enorme quantità di lingue di terza classe. Però l'unica egemonica è l'inglese. Questa ci sembra una situazione pericolosa e anche un impoverimento generale delle possibilità d'espressione letteraria dell'umanità.

Jasmina Tesanovich- Ma sai, quello che dici tu è senz'altro vero, però io invece di lamentarmi...ciò che non puoi battere è meglio andarci insieme, quindi il mio modo di sabotare è questo.
Il serbo-croato non diventerà mai una grande lingua, a nessuno frega niente della cultura serbo-croata, della sua storia, a meno che non venga Milosevich e ammazzi mezzo continente. Sarà sempre così. Io credo che noi, con queste lingue piccole, in questa globalizzazione anche economica, quello che dobbiamo fare è irrompere. Dato che il mondo giusto non esiste più, insomma dove lo trovi uno che ti pubblicherà uno scrittore di una lingua piccola se non c'è dietro una guerra, o qualcosa di simile? Non lo farà nessuno anche perché se lo facesse fallirebbe. Conosco degli editori bravissimi negli Stati Uniti , quelli che avevano tentato di pubblicare letteratura vera, giusta, che sono andati tutti in fallimento. Il mercato è quel che è, e il libro è diventato proprio una cosa di mercato nel bene e nel male, con internet poi è cambiato ancora di più.

Julio Monteiro Martins-Tu hai detto poco fa che il tuo fine ultimo è cambiare il mondo. Allora se uno si rassegna a vedere il libro come una cosa di mercato...

Jasmina Tesanovich- Infatti la mia idea è di cambiare il mondo in piccolo, nella mia piccola casa editrice. Nel mio paese ci sono un sacco di scrittori veramente bravi, ma che sono non dico nazionalisti, ma con una coscienza nazionale che è un po' troppo, e stanno lì isolati e dicono: "Sai, io non voglio che adesso questi americani mi dettino la lingua, la storia. Noi abbiamo avuto un re nel mille e duecento, abbiamo mangiato con la forchetta nell'XI secolo, la mia lingua è più antica di tutte queste, non voglio adattarmi, non voglio essere tradotto come un cane". Insomma abbiamo un sacco di queste prese di posizione che secondo me sono molto retrive. Nessuno verrà in Serbia a cercare lo scrittore re, o che ti parla della forchetta dell'XI secolo, hai capito? In questo senso forse sto lottando contro una cosa che forse adesso voi non avete neanche presente, che però per me e la stessa cosa: l'identità nazionale è qualcosa che non esiste più, e io a questo punto sto lottanto anche contro la lingua nazionale e la lingua materna, se ce l'hai devi far di tutto per uscirne fuori altrimenti è una gabbia anche quella. Invece di vivere in un ghetto vivrai in una gabbia. Molti di questi grandi scrittori di lingua prima inglese, li trovo noiosissimi, non sanno niente del mondo, sono bravi, però li leggo e non sono soddisfatta del prodotto. Magari sono bravissimi a fare il plot, e poi molto spesso ultimamente ho contatti con questa gente così brava che mi chiede degli aiuti, di scrivere per esempio come si scrive in guerra, senza la normalità, queste cose qua.

Julio Monteiro Martins - Una cosa che è stata menzionata in questi incontri, è che se si fa un paragone tra la letteratura di successo di oggi e quella di quarant'anni fa, c'è stata una specie di perdita di spessore drammatico, di spessore umano. Io ho letto qualcosa con questo spessore negli autori americani, ma anche brasiliani, sulla questione dell'Aids, sulla malattia. Ma sembra che ci sia il bisogno di eventi straordinari con un carattere drammatico specifico, perché venga fuori lo stesso spessore che veniva naturalmente nella narrativa degli anni venti, trenta, quaranta. Allora è come se fosse una letteratura un po' costruita a tavolino, un po' per piacere alle case editrici o a un certo tipo di lettore. Come vedi tu questo panorama?

Jasmina Tesanovich- Solo dopo aver vissuto la guerra ho capito che tutti i film che vedevo in tv avevano l'elemento della violenza. Allora ho capito questa costruzione che dicevi tu. D'altronde la società è diventata molto più violenta di una volta, e le catastrofi sono diventate più grandi, da cui questo shifting of interest, questo trend. Quello che a me scoccia in questa storia è che si dimentica l'elemento umano. Ho avuto questa esperienza con Internet. Il computer ho cominciato ad usarlo nel momento in cui non ho più potuto farne a meno, perché tutti lo usavano. Quando ho cominciato a scrivere durante le guerre, il mio testo si è trovato su cinquanta siti, ad un certo punto un'amica che viveva in Inghilterra mi ha mandato una cosa a cui avevano tolto il mio nome e mi ha chiesto: "Ma questa sei tu che scrivi? Riconosco il tuo stile". Ed io le ho risposto che non era possibile perché avevo mandato solo un testo ad un'amica. Però poteva essere davvero un testo mio, in una situazione di guerra tutti scrivono che manca il pane, la luce, il marito va in guerra, cosa succederà ai figli, insomma mi sembrava una lagna molto comune. Poi invece ho capito che era il mio diario. Cosa è successo con questa cosa che ha girato tutto Internet. Mi hanno chiamata Cyber queen, io che avevo appena cominciato ad usare il computer, e hanno cominciato a farsi vivi tutti questi maniaci del cyber, gente che fa delle costruzioni, che sta dodici ore al computer, senza vedere figli o mogli, che comunica solo con il cyber space, hanno cominciato a farmi intervenire in queste conferenze strane, perché io sono entrata tra l'altro come un fenomeno, una persona che non sa usare il computer. E così ho cominciato a parlare contro di loro perché ho detto che alla base di tutta questa comunicazione doveva stare un archetipo emotivo, e il fatto che il mio diario sia andato in tutti questi continenti e tradotto in tante lingue é appunto non per la vostra tecnologia, che è stata solo un veicolo, ma proprio perchè parlavo di una situazione archetipica, anche la gente in Africa poteva riconoscersi.
Nel mio diario che si intitola Diario di un idiota politico, che sarei io, gli americani si sono ricosciuti molto di più che la gente serba. Hanno detto: noi siamo gli idioti politici, perché la nostra stampa è ancora più manipolata della vostra, noi non abbiamo nemmeno le notizie. Ma io invece dicevo loro, che questo concetto dell'idiota politico, che non ha informazione, non è che è uno stupido, è l'opposto, è proprio l'universalità che sta nell'umano, nel messaggio del piccolo. Perché il mio diario era così famoso? Perché parlava di una donna anonima in una situazione di guerra che potrebbe succedere a tutti noi, per cui era una piccola guerra, non tutte queste catastrofi. Per rispondere un po' a te, io la vedo molto di più nel senso di gender, credo che le donne scrivano molto di più delle cose piccole, che fanno diventare grandi, che gli uomini. Questo è proprio un cambiamento storico, e così portano avanti la letteratura.

Julio Monteiro Martins- Tu credi che esista questa divisione tra letteratura maschile e femminile, o no?

Jasmina Tesanovich: Credo che esista, eccome. Dagli anni settanta, dalla new way of feminine, nello stile. Parlare della scrittura femminile è un discorso filosofico, è una cosa in cui non voglio entrare. Quello che a me interessa è proprio quella zona tra letteratura femminile e femminista. Se prendi due cerchi, uno di letteratura femminile, l'altro di letteratura femminista, il punto in cui si intersecano è quello che mi interessa. Lì dove è chiaro che i temi sono femministi trattati dal punto di vista femminile. Può scrivere anche un uomo a questo punto, però è molto raro che un uomo riesca a capire come si sente una donna che ha appena partorito, insomma. Io questa casa editrice di tutte donne l'ho messa su quando un mio ottimo amico, uno scrittore che stimo tantissimo, ha scritto in un suo romanzo una scena in cui una donna ha appena avuto un bambino, lo ha preso in braccio ed ha preso un libro ed ha cominciato a leggerlo. Non che i libri debbano essere realisti, però una donna che ha appena partorito non è che si metta a leggere il suo libro, si mette a guardare il suo bambino, magari sta male, magari vomita, telefona. Mi è sembrata una cosa talmente stupida, perché è un momento importante quando nasce un bambino, e mi sembrava talmente falsificato che mi sono detta: qua la letteratura deve andare avanti, questo hanno fatto le donne in letteratura, magari scrivendo male anche, però riempiendo i buchi, le lacune dell'universali. Perché poi le donne sono state zitte per secoli, non c'è niente da dire. Se tu guardi la vita della letteratura greca, leggi solo quello che fanno gli uomini, e tu puoi solo presumere quello che le donne non hanno fatto, si vede di più nella casistica criminale, perché venivano messe in prigione, quindi trasgredivano, non stavano solo zitte in casa a partorire figli, facevano anche la loro vita parallela e segreta. Però le donne sono state zitte a livello di espressione letteraria e questo per secoli.

Julio Monteiro Martins- Un'ultima domanda. Una parte dei tuoi scritti è in lingua italiana. Di cosa si tratta?

Jasmina Tesanovich- Ho solo un racconto scritto in italiano che si chiama Gorbaciov ed io: due grandi popoli , pubblicato nel '91 da Panta. Poi ho scritto qualcosa per i giornali, e ho scritto anche la mia tesi su Tarkovsky in italiano. Ma niente di letteratura. Ho scritto per la maggior parte in inglese, perché e stata la prima lingua in cui mi è piaciuto scrivere.

Anilda Ibrahimi- Lei diceva prima che non esiste più la letteratura nazionale. Secondo lei in questo momento esiste la letteratura universale. Poi ci ha raccontato la sua storia dicendo che se non ci fossero le piccole guerre, dei popoli non gliene fregherebbe niente a nessuno. Poi ci ha raccontato di come è stata lanciata in America, e in altri paesi. Non è che è stata proprio questa sua nazionalità, questa guerra, che l'ha lanciata nel mondo della letteratura? Mi sembra che ci sia una contraddizione: dire che non esiste più la nazionalità, mentre lei la sua fortuna l'ha fatta grazie a questa nazionalità, a sua guerra.

Jasmina Tesanovich- Il successo è una cosa. Essere stata pubblicata senz'altro ha a che fare con il fatto di essere stata una serba, paese che etnicamente ha pulito metà balcani e che poi è stato bombardata dalla Nato. Però è un problema loro, non è un problema mio. Io avevo già pubblicato in America e già avevo una carriera letteraria avviata. Ho scritto cose molto più importanti di questo libro di guerra, che non ritengo il più importante dal punto di vista letterario. Adesso parlando filosoficamente del fatto, la costruzione del nemico, la mia identità letteraria era loro, non era la mia. Voglio dire, io non parlavo dal punto di vista nazionale, sono loro che vedevano l'altro. Il successo del mio libro sta proprio nel fatto che i lettori non vedevano l'altro, ma se stessi. I miei lettori americani pensavano: "Oddio questa donna serba che dovrebbe essere cattiva, invece è una donna come me, che vive gli stessi problemi". Io direi che non c'è una contraddizione, c'è il mondo così com'è. La voce universale è sempre secondo me nazionale. Ha certamente elementi nazionali, come la lingua, la cultura, i costumi, da cui non puoi prescindere. Se per qualche ragione fosse successo a voi invece che a noi di essere bombardati dalla Nato, avreste lo stesso trattamento dell'altro che viene demonizzato, a torto o meno.

Amor Dekhis- Sull'elemento universale, io non so se lei sia d'accordo, è come la storia. La storia la scrivono spesso quelli che vincono, come l'economia, lo stesso mi sembra per la letteratura, quella che domina è sempre quella anglosassone. L'elemento universale mi sembra poco definito, perché io quando leggo per esempio libri americani considerati universali per il loro contenuto, e nel frattempo leggo un altro libro di un altro paese africano o del mondo arabo, vedo quasi le stesse cose, magari raccontate in un'altra maniera, in un altro spazio, ma dove la condizione umana è ancora più forte. Volevo insistere su questa definizione di arte universale e arte minore.

Jasmina Tesanovich- Purtroppo io non sono molto brava a dare delle risposte. Per me l'elemento universale è quello che io riconosco in altri scrittori, antichi e moderni, come Sant'Agostino e Carver per esempio, perché per me è sempre il personale che dà l'universale, cioè la voce di una persona testimone dei suoi tempi. Se tu leggi la storia, oppure la poesia, è sempre una persona che osserva e che parla dal punto di vista dell'uno e dell'umano: amo, odio, ammazzo, guadagno. Proprio la costruzione del tempo parte dall'individuo. Per me questo momento universale dovrebbe sempre partire dal particolare e dall'individuo, e da quella che è la coscienza individuale. Io adesso sto scrivendo un romanzo su Nefertiti ambientato nel XIV sec. a.C. Guarda che a quei tempi c'era più coscienza umanista che nel medioevo e nel XVIII secolo. C'è molta più presenza femminile nella cultura e nella storia che poi è andata persa. Però, se non ci fossero queste scritture personali su come si viveva, su come si pensava rispetto agli dei, rispetto all'amore, al matrimonio, ai figli... Molte cose sono stranissime, per esempio le alleanze emotive che si facevano all'interno della famiglia in Grecia antica erano stranissime rispetto ai criteri di una madre oggi. Perché la madre non amava il figlio come lo ama oggi, che è un rapporto primario, sapete perché? Perché lei poteva essere buttata fuori casa dal marito in qualsiasi momento, che ne aveva il diritto, quindi non poteva stabilire rapporti affettivi con il figlio. La categoria universale della madre con il rapporto primario con il figlio viene discussa a questo punto perché nella Grecia antica non esisteva, la madre era più legata ai fratelli e al padre, perché era lì che aveva la sua vita sicura. È così vedi che l'universalità non è una cosa astratta, non esiste madre/figlio, esiste il rapporto umano che si ha in quel momento tra di loro. È così che lo definirei: una cosa molto fluttuante, che però deve partire dal particolare e da un particolare molto onesto, perché molti scrittori mentono, e mentono molto bene.

Amor Dekhis- Non crede che questa divisione degli ambienti intellettuali non sia definita dagli intellettuali stessi ma da quelli che detengono il potere? Perché io vedo che si può anche lavorare insieme senza conflitti, in genere ci accettiamo, c'è la volontà di accettare l'altro.

Jasmina Tesanovich- Sì, credo che siano sempre le ideologie dominanti quelle che poi rendono la vita più difficile. Parliamo per esempio della chiesa, sia essa cattolica che ortodossa, qualsiasi ideologia che parte dall'alto e viene giù, complica la vita. Quindi sono d'accordo.

Cecilia Rinaldini - Mi interessava moltissimo il discorso sul diritto all'uso di una lingua costruita. Cioè: ciascuno ha il dirittto di scegliersi la lingua che crede e in cui scrivere, e di non sentirsi con minor diritto di quelli che magari la usano come lingua madre. Anzi, tu parlavi quasi di uno scardinamento di quest'idea di lingua madre e di lingua prima, facevi l'esempio degli scrittori dell'Europa dell'est che cominciano ad usare un inglese particolare, diverso da quello che si parla in Inghilterra o negli Stati Uniti, ma dagli esiti interessanti. Volevo sapere se questa rivendicazione al diritto dell'uso di questa lingua costruita è già una consapevolezza diffusa e trasversale, se c'è già una sorta di movimento di rivendicazione.

Jasmina Tesanovich- Sì, questa è una mia esperienza concreta. Dalla caduta del muro di Berlino, nell'Europa dell'est si fanno un sacco di cose. Io, sia come studentessa che come insegnante, ero a contatto con l'Est e l'Ovest, e l'unica lingua di contatto tra polacchi, tedesche ecc. era l'inglese. Tutti parlavamo inglese e poi magari c'era anche un inglese che però rimaneva isolato, perché nessuno lo capiva. Tutti noi ci capivamo molto meglio, e poi veramente ho scoperto che esisteva una terminologia, un modo di costruire le frasi che era un denominatore comune dei no native english speakers. Gli americani, poi, vanno molto meglio perché hanno cambiato loro stessi l'inglese, e quindi si adattano di più a questo nuovo inglese, però i veri inglesi stavano molto male. Loro si mettevano a parlare questo proper english e tutti scoppiavano a ridere. Questa lingua esiste già ma non si chiama più pidgeon english, come una volta, perché è una cosa brutta. Adesso esiste il termine coniato per l'occasione, anche se non lo ricordo più. Esiste anche la lingua letteraria, per esempio la mia amica che sta facendo una nuova collana a Barcellona con la casa editrice Planeta, lancia un'edizione di autori che scrivono o hanno scritto romanzi in questa lingua non loro, che è appunto l'inglese. Però' anche in Sud Africa c'e un inglese particolare, poi ci sono i cinesi, c'è quella donna premio Nobel che ha scritto in inglese. Tutte persone che hanno usato la seconda lingua e l'hanno cambiata. Dovremmo essere più tutelati come autori che pubblicano negli altri paesi.

Julio Monteiro Martins- Ci sono diversi modi in cui uno scrittore vede il suo mestiere e di stabilire un rapporto con la scrittura anche come scopo. Alcuni possono vederlo come una carriera come qualsiasi altra, come fare il dentista, altri come una possibilità di espressione mondiale, e qui a volte si vedono narcisismi, culto dell'ego, ecc., altri lo vedono come una specie di sacerdozio, per esempio nelle lettere che scrive Kafka a Felice Bauer o a Milena si capisce che la sua visione dello scrivere era quella di cambiare il mondo. Quando uno entra nel giro dell'editoria internazionale o delle riviste, noto spesso che quello che io chiamo il sacerdozio della letteratura viene spostato, e a volte uno neanche si accorge di questo processo, verso una sorta di business, verso una carriera, e questo finisce necessariamente per cambiare anche la natura stessa di quello che scrive, perché alla fine forse scrive cose che sono più accettate da questo tipo di ambiente, editoriale, finanziario, culturale, una sorta di radical chic che esiste nelle grandi capitali. Anche tu consideri questo un rischio per lo scrittore o no?

Jasmina Tesanovich- A dir la verità considero privilegiati quelli che possono adattarsi ai gusti altrui. Anche se qualcuno mi desse un sacco di soldi e mi dicesse di scrivere certe cose non potrei, tento a volte, ma proprio non ce la faccio a scrivere delle cose che non so scrivere. Posso scrivere solo in un modo e basta. E che poi cambia, cioè, i libri che ho scritto cinque anni fa non somigliano a quelli che scrivo oggi. Non so come fanno gli altri, io ho cominciato a scrivere per rabbia, perché nessuno scriveva delle cose che capitavano a me, che erano sotto i miei occhi, la gente mentiva su quello che era il mondo, che erano in specifico le mie guerre, ma ancora prima delle guerre, io scrivevo.
La vocazione è autentica solo se hai qualcosa da dire, se non hai niente da dire, se tu scrivi per guadagnare soldi, va benissimo, fallo pure, però è difficile che le due cose vadano insieme, forse solo Dostoevskij riusciva a farlo. Dall'altro lato, per me il pericolo ancora più grande è quello degli scrittori che si credono degli dei. Tu puoi avere uno scrittore bravissimo che è un intellettuale pessimo, e può fare un danno tremendo alla società. Per esempio, noi in Jugoslavia abbiamo avuto uno scrittore bravissimo che è diventato il presidente della Jugoslavia, si chiama Dobrica Cosic. Come scrittore è bravo, descrive la scena del disertore di guerra molto bene, è molto convincente, c'è tutto questo problema morale di uno che non vuole servire la sua patria. Poi invece quando leggi il contesto in cui lo scrive, e noi nella nostra guerra il novanta per cento dei ragazzi erano disertori di guerra perché non volevano servire Milosevic, perché era una guerra ingiusta, tu vedi come è pericoloso. Quando un bravo scrittore mette le sue capacità in funzione dell'ideologia, qualsiasi ideologia, è pericoloso. Infatti, lui come presidente era un presidente molto più pericoloso di un presidente che avrebbe fatto qualcosa di più concreto. D'altra parte, tutti gli scrittori hanno il diritto ad una loro ideologia e ce l'hanno sempre anche quando dicono di non averla. Però, guarda, io proibirei agli scrittori di andare al potere. Havel va bene, però ha smesso di scrivere, bisogna anche dirlo.
Esiste anche un'altra cosa che io odio molto tra gli scrittori ed è quella di credere che il loro lavoro sia più importante di quello di un falegname. Il lavoro dello scrittore è un lavoro politico e sociale come tutti gli altri, magari un medico ha più responsabilità di uno scrittore. Però c'è sempre questa mistificazione del ruolo, si chiede sempre la loro opinione, e loro si credono davvero di poter dare delle risposte e sparano delle cazzate tremende, che sono a volte pericolosissime. Tante volte io farei delle interviste a gente comune, intelligente, e le pubblicherei in prima pagina invece di fare delle interviste a uno scrittore famoso.

Julio Monteiro Martins: E purtroppo oggi giorno c'è più interesse nel sapere la loro opinione su tutto e su niente, che leggere la loro opera. Si conosce molto di più sulle idee degli scrittori che su quello che scrivono.

Jasmina Tesanovich- Se non vanno in tv, se non pubblicano sui giornali, non vendono nemmeno quel poco che vendono, e poi quello che vendono non è nemmeno detto che venga letto. Va comprato perché lo hanno visto in tv. E' vero?

Amor Dekhis- Lei prima ha parlato del contenuto della scrittura, di un bravo scrittore capace di evocare la condizione umana, e poi ha aggiunto che abolirebbe lo scrittore al potere, e allora mi chiedo: uno scrittore può essere un mostro, un criminale, un pervertito, che scrive bei libri? Quando si scrive, certo, lei viene da una realtà di guerra, anch'io del resto, e non possiamo trascenderla, però lo scrittore non è solo questo, deve impazzire un po' per scrivere, altrimenti non scrive. Come se dovesse fare una rivoluzione momentanea nel cervello per poter scrivere.

Jasmina Tesanovich- Beh, è una domanda strana. Impazzire momentaneamente per poter scrivere... non lo so. Io non credo che gli artisti siano più pazzi degli altri, solo che gli altri che stanno zitti. Ci sono tanti che bevono e fumano e non scrivono una riga...
Credo che gli scrittori non siano più bravi o più onesti o più pazzi di coloro che non scrivono, però, insomma, devono avere più onestà nello scrivere, quindi permettersi di dire delle cattiverie, delle cose brutte che hanno dentro di loro, dire: io odio, l'uomo odia, l'uomo è capace di ammazzare.
Per esempio, i romanzi più belli della nostra guerra sono stati fatti dal punto di vista dell'assassino, non dal punto di vista della vittima, ma proprio dal punto di vista di quelli che si sono identificati con l'assassino. Lo scrittore deve avere soprattutto l'onestà e il coraggio di identificarsi con i fenomeni negativi e poi speriamo che non impazzisca sempre, è dura insomma, però è molto più interessante come punto di vista rispetto al buono. A quel punto non sei uno scrittore, sei un santo, allora fai il lavoro umanitario.
Se devo dire la verità, io mi identifico sempre con i cattivi, i cattivi mi interessano molto di più, perché dietro c'è il motivo. Se tu capisci perché una persona fa delle cose, le puoi anche fermare, se non lo capisci, puoi solo scappare, e se non puoi scappare di fronte alla vita, devi fermarti e capire.
A me questa cosa è successa quando la nostra vita è diventata difficile a Belgrado. Belgrado la amo moltissimo, è una città grandissima, di tre milioni di abitanti, è diversa dalla Serbia, dalla Jugoslavia, è un mondo a sé. Ho capito che quattro gatti al potere ci volevano cacciare fuori, ci minacciavano, ho capito che dovevamo rimanere e difendere la nostra città. Quindi capire il male che ci stava attorno.

Julio Monteiro Martins- Faccio un'inevitabile domanda sulla questione della guerra. Voglio dire, in mezzo a tutta la propaganda da un lato e dall'altro, c'è stato in un determinato momento un consenso della popolazione serba, una parte della popolazione serba legata ad una determinata illusione di grande Serbia, o di razza, ecc., che ha dato quel minimo supporto. In un certo senso una parte della tua cultura nazionale aveva preso quella piega, come ti sentivi in rapporto a questa realtà?

Jasmina Tesanovich- Io avrei potuto uscire dalla Serbia con la mia famiglia, ma non l'ho fatto, anche se mi sentivo in colpa soprattutto per mia figlia che era veramente piccola, davvero vittima di guerra, tanto che mi chiedevo: "Oddio, se le succede qualcosa io mi ammazzo, perché è colpa mia che non l'ho portata fuori", tutt'ora mi sento in colpa perché è una ragazza cresciuta in guerra. Malgrado ciò, veramente non volevo uscire dal mio paese perché avevo paura di diventare nazionalista, ma perché stavo fuori, non stando dentro, perché andando fuori, venendo un paio di volte in Italia e poi negli Stati Uniti e a Vienna per lavoro, ho capito che quando uscivo fuori dal mio paese e sentivo dire cose come: "Tutti i serbi son cattivi, tutti i serbi sono nazionalisti", allora mi mettevo a difenderli e diventavo anch'io nazionalista. Stando in Jugoslavia, in Serbia e a Belgrado, almeno potevo far la differenza fra la gente e dire: "Guardate che non solo non tutti sono nazionalisti e scemi, ecc., ma molti di più non lo sono". Questo per me è stato molto pericoloso, ma molto salutare, non so se ho fatto bene o meno, ma sarei impazzita ancora di più probabilmente, perché avere la guerra in testa è molto più pericoloso.
Sì, c'era molta gente impazzita con la propaganda, però questa è durata molto poco, perché l'opposizione in Serbia è nata nel '91, è che Milosevich ha vinto per pochissimo le elezioni e poi tutto il resto è stata una truffa. Lui non ha avuto un supporto, ha instaurato una dittatura insomma, e con questo molta gente ha avuto paura. E poi bisogna dire che l'Occidente ha fatto di tutto per aiutarlo in questa cosa, perché la guerra poteva essere fermata nel '91. Se le prime elezioni democratiche in Jugoslavia fossero state aiutate dall'Europa e dall"America, Milosevic non avrebbe potuto fare le sue cinque guerre. Invece no, lui è stato aiutato come l'uomo forte dei Balcani, e poi nel '95, quando ha firmato a Dayton, a voi forse è sembrata una cosa buona, per i bosniaci magari, ma a noi serbi no, perché quando tu sai che hai un dittatore che firma una pace, sai anche che la guerra non finirà. Per me quella notte in cui lui ha firmato è stata una tragedia, perché sapevo che sarebbe venuto il Kosovo, perché poi l'ultima guerra civile l'ha fatta contro il suo popolo. Gli ultimi giorni prima che venisse deposto, faceva la guerra alla sua opposizione, e io non osavo dormire a casa, erano tutti in prigione e venivano picchiati, e così via.

Sonia Sabelli- Per tornare un po' al discorso degli autori stranieri che scrivono in italiano, all'interno del discorso generale degli scrittori che scrivono non nella loro lingua madre, e che quindi si ritrovano un po' in una posizione subalterna rispetto ai primi, in quanto si ricrea ancora un'altra gerarchia. Credo che, come dicevi tu, ci sia proprio un movimento mondiale di attacco al Royal English, un movimento di scrittori afroamericani, angloindiani, che stanno facendo questo lavoro sulla lingua. Rispetto invece all'esperienza di questi scrittori qui oggi, di cui abbiamo parlato in questi giorni e che comunque scrivono in italiano e quindi hanno sia il confronto con gli scrittori italiani madrelingua sia con quegli che scrivono in inglese come lingua seconda, si ricrea ancora una situazione di egemonia. Visto che tu dicevi di scrivere in inglese perché rimanere all'interno della cultura serbo-croata significa un po' ghettizzarsi in una cultura nazionalista.
Dal punto di vista di un'italiana che studia la letteratura italiana, per me questi scrittori sono un po' una manna dal cielo, nel senso che modificano un po' questa chiusura della lingua e della cultura italiana. Forse però, come dicevi tu, per loro continuare a scrivere in italiano significa rimanere sempre in minoranza, anche se, come diceva Deleuze: "Non c'è niente di più rivoluzionario che essere minori". Però, visto che tu dicevi che preferivi scrivere in inglese, allora volevo capire come vedevi questa cosa.

Jasmina Tesanovich- È sempre una risposta molto personale, perché io veramente non mi trovo bene nella letteratura serba. Le cose che ho scritto in serbo e pubblicato in Serbia, non sono mai entrate nella mainstream, nonostante avessi un gran pubblico e i miei libri si studiassero all'Università. Perché, non lo so, non chiedermi il perché. Il mio posto all'interno della letteratura serba è al di fuori della mainstream. Quindi, io non voglio essere una scrittrice serba né americana, però di solito le culture sono chiuse. Loro sanno benissimo quello che va bene, e se uno è un pochino fuori e scrive cose diverse-nel mio caso forse perché sono femminista, o scrivo delle cose personali- non rientra tra gli scrittori principali. Comunque, la letteratura serba è bellissima, con poesie bellissime, non scrivono con voci piccole, quindi io non trovo posizione nella più alta tradizione serba. Credo che anche nella letteratura italiana ci sia una mainstream, se tu ci appartieni va tutto benissimo, se non ci appartieni tanto vale tu scriva in inglese, insomma.

Julio Monteiro Martins: Grazie per essere intervenuta ed avere apportato al seminario un punto di vista così originale.


Nella foto: Stephanie Damoff e Jasmina Tesanovich