

- Julio da
dove vieni?
Quando
mi domandano qua da dove vengo io rispondo sempre: Rio de Janeiro. Ma
solo perché è più semplice. E' un punto di riferimento
e la gente identifica la mia provenienza, anche se poi in modo sbagliato,
perché lo fa servendosi di stereotipi caricati come il carnevale
e pochi altri. Però in realtà io vengo dall'area metropolitana
di Rio de Janeiro, vengo da Niterói, una città non soltanto
opposta geograficamente a Rio (perché c'è una grande baia
tra le città), ma addirittura sua rivale. C'è un lungo ponte,
il più lungo dell'America latina che collega le due città.
I cariocas (di Rio) ci chiamano "papa-goiabas", cioè
mangiatori di "guayava" e ci vedono come se fossimo un po' più
arretrati, mentre noi vediamo i cariocas come quelli che non lavorano
mai e se ne stanno tutto il giorno sulla spiaggia a bere la birra e a
fare la bella vita: per ogni vero intellettuale ce ne sono cinquanta che
si atteggiano così per non lavorare. Sono un po' fannulloni, un
po' perdigiorno.
Allora quando io rispondo che vengo da Rio non è poi così
spontaneo per me, ho dovuto un po' abituarmi, in Brasile non avrei mai
risposto così
Ma qua a che serve specificare
tutti mi
direbbero : "Da dove hai detto che vieni?"
- Julio, in
che condizione sociale, in che famiglia hai vissuto?
- Questa è una domanda interessante.
Io mi chiamo Monteiro Martins. Monteiro è la famiglia di mia madre,
Martins di mio padre. Due famiglie di origine portoghese, ma qui finiscono
veramente le cose in comune.
I Martins sono arrivati in Brasile solo tre generazioni fa, all'inizio
del XX secolo. Mio nonno è sbarcato in quella terra a quindici
anni, non aveva che pochi vestiti e da solo ha fatto una grande fortuna.
E' andato a fare il custode in una fattoria e ha scoperto che la terracotta
di quella fattoria, chiamata "massapê", era preziosa.
Sapeva che si poteva usare per fare porcellane e ha creato la prima fabbrica
di mattonelle decorative. Quando avevo 5 o 6 anni la famiglia Martins
era la più ricca di Niterói. Io avevo la villa più
bella della città
era un isolato.
Mio padre e suo fratello facevano le corse in macchina intorno al nostro
cortile. Quando mio nonno è morto (aveva quasi novanta anni) i
figli hanno diviso la fortuna con grandi liti, ma nessuno era in grado
di fare quello che faceva lui, nessuno era abbastanza creativo e il patrimonio
si è notevolmente ridotto.
Questa è la famiglia di mio padre. La storia dei Monteiro è
totalmente diversa. E' molto più antica. Questo capitano Antônio
da Silva Monteiro è venuto in Brasile quando le truppe di Napoleone
erano in procinto di entrare in Portogallo. Poca gente sa che Rio de Janeiro
è stata l'unica capitale di un paese europeo fuori dell'Europa,
e per quindici anni la capitale del Portogallo è stata Rio. Allora,
con il re del Portogallo, si è trasferita in Brasile tutta la sua
corte tra cui anche questo Antônio da Silva Monteiro che ha ricevuto
dal re un grande pezzo di terra, e il titolo di Barone di Campo Grande.
Insomma dopo tante generazioni siamo arrivati al mio nonno materno, l'uomo
che mi ha cresciuto. Mio padre mi ha avuto che aveva 21 anni. Ha continuato
a fare la vita di un ragazzo (una volta si è anche fidanzato, e
aveva figli!)
Mio nonno, un uomo molto austero, era un funzionario del Ministero delle
finanze. Viveva spostandosi in continuazione e imponendo l'uso delle imposte
sul reddito nelle diverse e lontane regioni del Brasile. Era come un "Capo
della guardia di Finanza". Mia nonna dopo la sua morte mi diceva:
"Il più grande orgoglio della mia vita è stato mio
marito: è entrato povero, ha lavorato per trentacinque anni, ed
è uscito ugualmente povero".
I miei nonni hanno avuto due figlie: mia madre, la più grande,
era una donna bellissima, corteggiata da tutti. Una ragazza per bene ma
di classe media. Però ha studiato, ha fatto l'Università
trasferendosi dal suo nonno, e subendo i maltrattamenti dalle cugine ricche.
Ha fatto Lettere, ed è diventata una professoressa ordinaria di
Letteratura Nord Americana, anzi è stata proprio lei a tenere in
Brasile il primo corso di Letteratura nord Americana. Ha scritto tra i
lavori più importanti sull'opera di William Faulkner.
Vedi, io ho assorbito l'interesse per la cultura, che mi viene dalla famiglia
di mia madre, ma sento ugualmente il mito dell'uomo "che si fa da
solo" che è invece propria della famiglia di mio padre.
Io sono proprio una sintesi di queste due famiglie.
Il matrimonio tra queste due persone così incompatibili è
avvenuto quando mia madre è rimasta incinta. Ricordo che mio nonno
mi diceva sempre: "Ma guarda come sei cresciuto bene, chi l'avrebbe
detto che sei prematuro!"
Io, in realtà, non ho mai avuto un padre. Avevo pochi anni, mia
nonna portava un piatto fondo con pasta e fagioli e io e mia madre mangiavamo
insieme in quel piatto
non c'era altro. Quando poi mio padre si decideva
a tornare prendeva un camion, andava in tutti i negozi di giocattoli e
faceva il suo arrivo. Era proprio squilibrato. Aveva delle macchine americane,
importate, ma quando si rompevano le lasciava sulla strada e non le vedeva
mai più
.era un irresponsabile.
Chi sono io? Sono stato figlio unico fino a nove anni (poi mi è
nato un fratellastro da un padre diverso, Fernando, oggi un neurochirurgo),
sempre trattato come un lord, protetto dai barbari: la famiglia di mio
padre.
- Quando sei
venuto via dal Brasile?
- Ma, la mia vita è stata un continuo spostamento dal Brasile
all'Estero per motivi di studio. La prima volta è stato quando
avevo sedici anni e mi sono trasferito a Parigi per seguire un corso di
Letteratura Comparata e di Letteratura Francese alla Sorbonne. La città
viveva un momento straordinario. Era il '71, '72, e si sentivano ancora
gli strascichi del '68
C'erano tante manifestazioni teatrali, musicali
- Perché
proprio Parigi?
- Parigi era "il posto" per studiare. Tutti i grandi
scrittori latino americani vivevano lì, era "l'ombelico del
mondo"
. Lì ho cominciato a scrivere racconti (fino a
quel momento solo poesie). Dopo Parigi sono tornato in Brasile, ho vissuto
gli anni settanta in modo molto intenso: dal '75 al '78 si è verificato
un fenomeno straordinario di cui io ho pienamente goduto: il boom letterario
di questo paese.
Per tre anni, non so spiegare perché, i brasiliani sono impazziti
per i libri dei giovani scrittori connazionali. In quegli anni ho lavorato
tantissimo. Ero diventato come un cantante pop. Tutte le ragazze più
belle erano le mie fidanzate. Questo è durato per tre anni poi
tutto si è normalizzato.
Nel '78 ho pubblicato un romanzo intitolato Barbara: il libro migliore
da un punto di vista tecnico, il libro più atipico che io abbia
mai scritto. Questo romanzo è uscito al termine del boom letterario,
ed è passato in silenzio, nonostante che fosse notevolmente superiore
agli altri. La mia delusione è stata tanta che ho deciso di lasciare
il Brasile. Ho intuito che non serviva a niente stare lì e nel
'79, approfittando di un invito nell'Iowa, mi ci sono trasferito, ho lavorato
all'Università e mi sono sposato. Sono tornato in Brasile qualche
anno dopo quando mia madre si è ammalata.
Se escludo un mio viaggio in Giappone, sono rimasto in Brasile dal 1981
al 1994: tredici anni!
- Quando e perché
hai deciso di venire in Italia?
- Prima dell'Italia mi sono trasferito un po' nel Portogallo.
In Brasile, grazie all'esperienza americana, avevo creato alcuni Workshop
di successo e sono stato invitato in questo paese per creare un'iniziativa
del genere. Vivevo in un palazzo meraviglioso, il Palácio Fronteira.
Lì ho conosciuto una ragazza di Lucca, Cristiana, che faceva l'Erasmus
. L'ho incontrata ad un festival di film brasiliani
lei ha sempre
amato il Brasile
il film era noioso ed io gli ho chiesto di andare
fuori a fare due passi. Lì è iniziato il nostro rapporto.
Sono andato da lei una sera e il padrone di casa l'ha cacciata perché
aveva saputo che un uomo aveva dormito lì. Io non solo ho litigato
con lui ma l'ho portata con me al palazzo. Abbiamo vissuto insieme per
sei mesi. Poi io sono tornato per un po' in Brasile e quando sono giunto
in Italia era già per sposarla. Sono "un importato d'amore".
La Toscana, Lucca, non è stata una scelta: se lei fosse stata di
Catanzaro io certamente sarei andato là!
- E ora, come
vivi in questo nuovo paese?
- Io credo che le strade del Signore siano imprescrutabili
ma
non casuali. Se lei non fosse stata toscana forse non avrebbe vissuto
con tanta passione l'amore per il Portogallo, per il Brasile
non
sono coincidenze.
Io sono qua da sei anni ed io divido così il mio soggiorno: i primi
due anni e i quattro restanti.
I primi due anni non ho fatto nulla: non parlavo la lingua, leggevo, scrivevo,
andavo in giro
ho proprio vissuto la Toscana, ho conosciuto la Garfagnana
ed altre zone
Dopo ho creato l'evento "Scrivere oltre le mura"
e in quello stesso anno ho anche cominciato ad insegnare all'Università
di Pisa.
Adesso qui mi sento, come si dice in Brasile, "un pulcino nella spazzatura",
sono proprio contento matto
- E non hai
nostalgia del tuo paese?
- No. Io non sento la benché minima nostalgia del Brasile.
- Hai vissuto
bene il tuo allontanamento?
- Direi proprio di sì, anche perché è stato
preparato dai trent'anni precedenti in cui ho sempre viaggiato
non
è stata una rottura ma la tappa finale di un divorzio ampiamente
maturato.
- Ma la tua
famiglia è ancora in Brasile?
- Ma, veramente sono tutti morti. E' rimasto un padre con cui
non ho contatti da almeno venti anni (e non sono nemmeno sicuro che sia
ancora vivo), e mio fratello Fernando con il quale parlo ogni due mesi
per telefono: la mia famiglia è solo lui.
- Come mai senti
il bisogno di staccarti in modo così radicale dal tuo paese?
- Ma ti sembro brasiliano? Sono quasi svizzero, così puntuale,
preciso
.In fondo la famiglia di mia madre era originariamente europea
ed io mi sento a casa proprio in Europa. Non capire male: io amo il Brasile,
ma non come una patria o come un padre. Io amo il Brasile come si ama
un figlio adolescente, ribelle, drogato.
- Hai detto
che senti di appartenere all'Europa. Ma qual è la tua lingua?
- La mia lingua è quella nella quale dirò parolacce
quando domani mi pesteranno un piede. E' la lingua con la quale penso
il discorsetto che voglio fare a quella ragazza che mi piace
Ora
è l'italiano. La mia prima lingua è quella del tempo presente,
l'unica dimensione che realmente esiste. Nel '72 la mia lingua era il
francese, quando ho scritto i miei libri in Brasile era il portoghese,
quando ho scritto Racconti italiani era ovviamente l'italiano.
- Questo vale
anche per i paesi in cui hai alternativamente abitato?
- No, è un po' diverso .Una volta ho letto un dialogo avvenuto
nel Medioevo tra due preti. Uno disse: "Benedetto quello che si sente
in patria ovunque". E l'altro rispose: "No, ti sbagli, benedetto
quello che si sente straniero ovunque".
Io mi sento straniero ovunque. Non ho più un paese. Il mio è
un estraniamento esistenziale, perché funziono in modo sempre diverso
dalla maggioranza. Mi sento diverso ed estraneo a molti brasiliani ma
ugualmente da tutti quegli italiani che prima del TG guardano il quiz
per diventare miliardari.
Consideriamo poi che i confini nazionali stanno scomparendo e crescono
tutta una serie di atteggiamenti culturali che non hanno più confini
geografici. La mia rivista nasce da questa nuova realtà in cui
si perde l'idea della regione e della nazione.
- Julio, tu
sei tra gli ideatori e gli organizzatori di questo seminario: quali i
motivi che ti hanno spinto a sostenere tale evento?
Vedi, questo primo seminario di scrittori migranti ha avuto luogo
fin troppo tardi, nel senso che se tu osservi gli altri paesi europei
già da una decina di anni hanno riconosciuto, nella scrittura migrante,
la più ampia fonte di rinnovamento letterario. Mi riferisco per
esempio agli scrittori magrebini che risiedono in Francia, agli scrittori
dello Sri Lanka, del Pakistan e dell'India in Inghilterra, a quelli di
origine turca o curda in Germania. L'anno passato, alla fiera del libro
di Parigi, il cui paese ospite era la Germania, trovavi tutto tranne che
scrittori tedeschi
erano tutti autori di origine straniera che rappresentavano
la Germania. L'Italia ha una situazione molto particolare, forse privilegiata.
Non ha colonie, o, quanto meno, si è sempre trattato più
di piccole avventure, che non di una vera e propria storia coloniale.
Così questi scrittori stranieri sono molto diversi. Faccio un esempio.
L'inglese è oggi una lingua letteraria dell'India o dello Sri Lanka,
mentre l'italiano non è lingua letteraria in nessun altro paese
se non in Italia. Ecco che allora le persone che vengono presentano un
più ampio ventaglio di origini, non ci sono regioni privilegiate
trovi
sud americani come magrebini, scrittori dell'Africa occidentale, orientale,
e sono tutti uomini che hanno scelto questa cultura e non l'hanno ereditata
per "vie coloniali". Ciò fa una grande differenza perché
in questo caso la conoscenza e l'approccio nei confronti di una lingua
nasce da un'empatia, da un elemento amoroso, da una forte dose di affettività.
Cose che ho percepito ben presenti durante il seminario. Non ho avuto
né captato negli altri un sentimento di sottomissione nei confronti
della cultura italiana, ma ho osservato un rapporto paritario, sano, tra
tutti questi scrittori che hanno scelto di essere tali in italiano. Non
è un fare
bisogna capire questo. Scrivere è un essere,
e questa è la scelta di diventare qualcosa. Diventare, nella dimensione
letteraria del tuo essere, italiani.
- Vedi nella
scrittura dei migranti un serbatoio di innovazioni a livello linguistico?
Lo vedo a livello linguistico
ma ne scorgo soprattutto l'immenso
potenziale di innovazione in senso più ampio. Per ora l'universo
in cui si muovono gli scrittori migranti è appena sbozzato e si
riduce a poche timide persone che non sanno come questa cultura saprà
accoglierli. E' una posizione di difesa, ben comprensibile. E' un processo
embrionale, ma è quello con il più ampio potenziale di innovazione
linguistica, psicologica. E' ciò che permetterà di fare
della letteratura italiana una letteratura cosmopolita, universale, per
rompere la visione di autoriferimento che oggi, più di quanto sia
avvenuto in passato, limita l'Italia. Il rinnovamento e l'apertura, ecco
il ruolo di questa letteratura: conto su di essa. L'Italia ha bisogno
del resto del mondo
ha bisogno cioè di conoscere e farsi conoscere,
la qual cosa sarà possibile grazie a questa letteratura. Per far
sì che ciò accada è necessario che le opere vengano
ricevute e distribuite in modo degno.
Per questo la Sagarana è stata orgogliosa di presentare, insieme
con Portofranco e "La Sapienza" di Roma, questo importante appuntamento.
- Quali contrasti
hai vissuto più intensamente all'interno del seminario?
Io vado subito al contrasto più eclatante. C'è stato
uno scontro nel momento in cui ho voluto sottolineare la differenza, a
mio parere esistente, tra lo "scrittore migrante" e il migrante
scrittore. Cosa voglio dire
le prime a scrivere in lingua italiana
sono persone giunte in questo paese a lavorare, che non avevano mai pensato
di fare gli scrittori. Ma hanno vissuto dei traumi, scontri e incontri
che li hanno portati a scrivere sulla loro esperienza: questi, a mio avviso,
sono i migranti divenuti scrittori. Ma c'è stato un secondo movimento,
nel quale rientro anch'io insieme a molti altri: si tratta di coloro che,
già scrittori nel loro paese di origine, hanno scelto di migrare
per poter continuare a fare la loro carriera dentro un universo linguistico
diverso. Questo è il caso degli scrittori migranti. Due fenomeni
che partono dunque da motivazioni diverse. Il fatto, secondo me, è
che non si può negare una situazione evidente: le opere dei migranti
scrittori hanno come fine principale la denuncia e la testimonianza, mentre
le opere degli scrittori migranti hanno come scopo principale il proseguimento
di un percorso di creazione artistica.
- Tu rientri,
secondo la tua ipotetica suddivisione, nella categoria di coloro che,
già scrittori nel loro paese, se ne sono allontanati proseguendo
sulla strada della letteratura. Riesci a ricostruire il percorso poetico
che ti ha portato dai primi romanzi alla scrittura attuale?
Vorrei ripetere che non è solo il mio caso
Gezim ne
è un altro esempio..
Io ho fatto un percorso che si lega a due distinte trasformazioni. Quella
mia personale, e cioè di un ragazzo di 19 anni che cresce fino
a divenire un uomo maturo di quasi cinquanta (e non voglio dire che in
questo tempo si acquisisca e basta perché a volte tendiamo più
semplicemente a irrigidirci), e quella storica: dal '74 ad oggi. Erano
gli anni della guerra fredda, era un mondo che divideva i giovani tra
idealisti e comunisti da una parte, pragmatici e capitalisti dall'altra.
Se fai un paragone con il mondo di oggi (pensa, fra i grandi cambiamenti,
alla caduta del muro di Berlino e al nuovo concetto di mercato come ideologia
dominante) ti accorgerai dell'abisso. Inoltre io vivevo all'interno di
una dittatura militare in cui ciascuno scrittore serio doveva mettersi
a rischio e scrivere dei racconti pesanti di denuncia. Era un dovere morale,
non una scelta estetica e stilistica. Tutto questo è cambiato e
con essa la mia letteratura. Da quel periodo in poi direi che è
divenuta meno collettiva e più legata all'individuo, all'uomo solo
di fronte alla vita: questo percorso non è stato interrotto con
il cambiamento del paese e della lingua, ma il mio è forse un caso
particolare. A molti altri capita di chiudere il percorso anteriore in
coincidenza con il cambiamento di lingua. Io scrivo oggi in italiano un
libro che parla delle stesse cose di cui avrebbe parlato se fossi stato
in Brasile. Allora gli anelli della catena continuano a rimanere legati,
per quanto la catena sia uscita dall'acqua e sia entrata nell'aria.
- Cosa hai pubblicato da quando sei arrivato in Italia?
Quando sono arrivato la prima cosa che ho scritto (e mai stata
pubblicata), è stata, ispirandomi al mondo del calcio, Cronache
di glorie e disperazione. Come una partita di calcio aveva 90 piccoli
testi di cui 45 ( I tempo) erano piccole storie del calcio brasiliano
e i restanti 45 (II tempo) erano costituiti da riflessioni generali sul
mondo contemporaneo. Quello che volevo, quando ho scritto questo testo,
era semplicemente collaudare la lingua italiana .
- Direttamente,
o sei passato attraverso la fase dell'autotraduzione?
No, questo mai. Sapevo che sarebbe stata una trappola. Se ti autotraduci
non ti immergi mai completamente nella lingua nuova. Se tu devi tradurre
nella lingua nuova concetti della lingua originale, non userai mai le
parole della lingua nuova che non hanno corrispondenti in quella originale.
Torniamo ai testi. Dopo Cronache di glorie e disperazione ho scritto
un libro intitolato Il percorso dell'idea che illustra, attraverso
foto bellissime di Enzo Cei, un evento che ho creato a Lucca nel'96: Scrivere
oltre le Mura. In questo libro ci sono piccole poesie in prosa, genere
poco coltivato in Italia (per quanto Calvino ne sia maestro), e apprezzato
invece in Brasile e in Francia. Il valore simbolico è quello della
poesia.
Un altro passo, dunque, a cui è seguito un libro di racconti: Racconti
italiani, pubblicati dalla Besa Editrice. E lì è iniziata
per me una vita editoriale normale, come quella che ho avuto in Brasile.
Adesso ho terminato un altro libro di racconti, Pane bianco, il
pane dei ricchi nell'800. E' un libro con un numero inferiore di racconti
che sono tuttavia di più ampio respiro. E si va avanti, in questo
percorso, navigando in acque abbastanza tranquille.
- Con quali
problemi editoriali ti sei scontrato?
Con tanti, ma non è un problema italiano.
- E non è
nemmeno un problema di "letteratura di migrazione"?
- No, tutto questo aggrava, ma i problemi sono sempre gli stessi.
Aggrava anche il fatto che il genere che io amo coltivare oggi è
il racconto e non il romanzo
Però cerco di affrontare tutto
ciò in modo stoico: se quello che io scrivo esprime in modo originale
e intelligente le cose che i lettori hanno bisogno di sapere, allora ci
sarà un modo per arrivare. Se c'è un desiderio da una parte,
e l'oggetto di quel desiderio dall'altra, l'incontro si farà. Qual
è il ponte? Il mondo editoriale. Io non do molta importanza se
in un momento ho successo a livello editoriale e in un altro no: niente
è cambiato nella mia creatività, non mi sono mai lasciato
condizionare. In Brasile, ad un certo punto, è diventata di moda
una letteratura mistica ed esoterica e nessuno più leggeva e comprava
libri di narrativa
Ma io sono andato avanti e non cambiando lo spirito,
ho cambiato il paese
Ho, credo, una grande padronanza del romanzo ( alcuni di quelli che ho
scritto, hanno avuto un grande consenso del pubblico), ma ora non ho più
voglia di scriverli (anche se l'ambiente editoriale li privilegia ). Il
racconto è più in sintonia con il mondo contemporaneo. L'uomo,
oggi, non vuole l'evasione del romanzo, ma la comprensione del racconto.
Non vuole più scappare dalla vita reale ma arricchirla anche attraverso
la letteratura.
I racconti producono questo effetto: due, tre racconti al giorno, magari
di autori diversi, ti aprono orizzonti diversi senza che tu rinunci alla
percezione del reale come richiede il romanzo. Anche la mia rivista segue
questa linea.
- Quali sono
i progetti futuri per restituire prossimamente alla letteratura migrante
il posto di primo piano che le spetta?
Insieme al Prof. Armando Gnisci, dell'Università "La
Sapienza" di Roma, ho intenzione di organizzare, per il Luglio del
2002, il secondo seminario degli scrittori migranti. Speriamo solo di
trovare partners e sponsor che ci aiutino. Non nego che comincio anche
a pensare ad un primo incontro europeo di scrittori migranti, per capire
che Europa è questa che ha convocato alcune delle menti più
creative di tutto il mondo perché spieghino e interpretino la realtà
di questo paese. Ma le cose devono ovviamente maturare un po' di più
perché si possa pensare realisticamente ad un evento del genere.
Se tutto andrà come spero...tra poco tempo ci impegneremo anche
in questa sfida.
L'intervista è
stata rilasciata alla Dott.ssa Francesca Macchioni

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