UN RARO STRUMENTO SCORDATO
homo faber e la coltivazione
dei campi di parola
- una nota critica -
Tiziano Fratus
Nel mondo letterario e culturale si fa a periodi alterni un gran
parlare di crisi epocale dell'essere umano: viene messa in seria
discussione qualsiasi definizione di entità, i valori scartati
dai mutamenti geopolitici (caduta del muro di Berlino, susseguente
frana degli imperativi categorici sostenuti dalle ideologie, apertura
di profonde lacerazioni nei modus operandi dei partiti politici
socialisti e comunisti, spaesamento della collocazione sociale
dei sindacati dei lavoratori) che come in un domino ha coinvolto
ampi settori della società contemporanea, innanzitutto
occidentale ma con ripercussioni significative anche nel resto
del mondo (la buona novella "globalizzazione"). Appare
inevitabile, e facilmente dimostrabile, constatare che l'essere,
il sentirsi, il pensarsi uomo dipenda direttamente dalle variazioni
di rotta, dai mutamenti di prospettiva. In un mondo dove la quotidianità
è dominata dall'etica liberista del lavoro, dove l'uomo
è soprattutto ciò che fa, ciò che riesce
a fare, e dove la volontà spesso è reputata più
delle reali capacità (come non pensare a copiosa produzione
cinematografica e narrativa statunitense, o alle superstar pop
del mercato discografico), questa crisi di valori non fa che spingere
in avanti l'importanza dei valori legati alla valutazione, alla
classificazione, all'agonismo. L'uomo non vale più per
ciò che può esprimere, ma per quello che può
produrre. C'è stato un tempo in cui masse di studenti e
intellettuali scendevano in piazza gridando "basta parole,
vogliamo i fatti".
Le mille anime insite e ribollenti nel movimento no-global, dai
riformisti alla Naomi Klein agli integralisti dei centri sociali,
dagli anarchici ai presenzialismi di Fausto Bertinotti, richiamano,
come si è visto anche recentemente a Porto Alegre, a "miti"
della storia novecentesca, a valori di umanità che riporterebbero
al centro del mondo l'essere uomo, piuttosto che il fare uomo,
la netta opposizione a qualsiasi forma di guerra, contrariamente
a quanto giustificano i politici di mezzo mondo, Bush (il texano
dagli occhi di ghiaccio), Blair (il belloccio di Down Street),
Berlusconi (il patron di nostra signora dei vittoriosi), Ciampi
(Mr intanto va tutto bene).
Come porsi di fronte a questo nuovo vento di rivoluzione? Esiste
davvero un senso comune? Esistono realmente delle questioni per
cui vale la pena mettere a soqquadro la pace necessaria di un
mondo sull'orlo della guerra nucleare? Per combattere il terrorismo
è meglio una bomba atomica su Bagdad o un fiore gettato
per protesta contro Carlo d'Inghilterra?
La cultura, sia essa fatta nei salotti letterari, nei forum in
internet, sulle colonne di Repubblica, all'ennesimo convegno di
intellettuali e professori, è comunque coinvolta in questo
calderone. E' suo compito occuparsene, ed è compito di
chi scrive (scrittori, giornalisti, editorialisti, poeti, saggisti,
critici, drammaturghi, artisti, ecc.) prendere una posizione.
Fosse anche una posizione superficiale come quella assunta da
Alessandro Baricco nel suo ultimo "Next". Sia pure il
qualunquismo di Ferrara e dei giovani radicali. Un tempo Frantz
Fenon scriveva "I dannati della terra", narratori come
Jean-Paul Sartre, Primo Levi, Elio Vittorini, Albert Camus, Francis
Scott Fitzgerald, John Roderigo Dos Passos, John Steinbeck, Mario
Vargas Llosa e João Guimarães Rosa, poeti come Robert
Lowell, Ezra Pound, drammaturghi come Arthur Miller, Clifford
Odets, Carlo Terron, Ugo Betti, Heiner Müller, Rainer Werner
Fassbinder, si impegnavano personalmente in una lotta delle parole
per sostenere la necessità di un mondo migliore, di un
mondo che poteva ancora essere legato all'umanizzazione dei processi
di produzione. Oggi dove sono finiti gli scrittori?
Oggi viene dato per assodato il fatto che ogni produzione artistica,
si tratti delle poesie di Wyslawa Szymborska, dell'ultimo cd di
Eleni Kareindrou, di un'installazione di Maurizio Cattelan, sia
un prodotto, sia produzione artistica, o meglio, prodotto culturale
(Umberto Eco). In una nottata di qualche giorno fa Enrico Grezzi
(noto per le sue idee progressiste
?) ricordava che la nascita
del cinematografo da parte dei fratelli Lumiere, nella celebre
notte tra il ventotto ed il ventinove dicembre 1899, inaugurava
l'intrattenimento a pagamento: si entrava al cinema per vedere
una proiezione pagando un biglietto. In soldoni: tutte le opere
figlie dell'intelletto (non del genio) sono fatte per vendere.
In Italia, nel corso degli ultimi venti-trent'anni, si sono create
delle sacche di produzione anomala: la drammaturgia e la poesia.
La progressiva latitanza dei mezzi di comunicazione, la sudditanza
di critici e organizzatori allo strapotere di poche persone dalle
idee strumentalmente originali, l'isolamento che ha pervaso in
crescendo i drammaturghi e i poeti, hanno avuto quali maggiori
conseguenze la solitudine, ed il consolidamento di un sentimento
di gruppo elitario, di chiusura esterna. Tranne sporadiche eccezioni,
i poeti e gli autori teatrali si sono chiusi nelle loro stanze.
Tasto dolente di questo stato di cose è l'istruzione, che
nega prospettiva e validità allo scrivere: quale ragazzo
oggi sarebbe mai così pazzo da scegliere una vita da poeta
o da drammaturgo invece di una professione sicura, come il bancario,
l'avvocato, l'amministratore delegato, al limite il professore
o il prete?
Prendo in esame un campo a me familiare, quello della recente
drammaturgia italiana, essendo per me un campo al contempo di
ricerca espressiva, di insegnamento, di promozione.
I drammaturghi italiani che si sono messi a scrivere per il teatro
negli ultimi quarant'anni (almeno) l'hanno fatto a proprio rischio
e pericolo. Tranne commissioni sporadiche, o celebrati scrittori
che si sono messi per il proprio diletto a scrivere piéces,
i drammaturghi italiani hanno scritto mirando al più ai
concorsi (il che vuol dire nei migliori dei casi un modesto premio
in denaro), molto meno ad una effettiva produzione. Questo a causa
di una stortura tutta italiana che non sto qui ora a spiegare.
Non è un fatto incomprensibile che i più riconosciuti
autori teatrali italiani siano stati essi stessi registi e/o interpreti,
come Luigi Pirandello, Edoardo De Filippo, Dario Fo, Franca Rame,
Dacia Maraini. Caso a sé fu quello di Pier Paolo Pasolini,
che è stato, probabilmente, il più dirompente (senza
dubbio il più attivo) intellettuale italiano del secondo
Novecento.
Ma la drammaturgia italiana presenta, a partire dei primissimi
anni Ottanta, un fiorire di autori, una ripresa della produzione
di valore, un vociare polifonico di linguaggi, storie, personaggi,
intrecci. Uno sbocciare che ha coinvolto tutte le regioni, che
ha visto una ripresa sensibile dell'attenzione degli stessi teatranti
verso il contemporaneo. E' a mio avviso certo che sta per scoppiare
una moda verso la drammaturgia italiana, avvenimento che in verità
non so se qualificare come positivo o negativo. Si vedrà.
Tra gli autori più noti (non al grande pubblico, diciamo
al contenutissimo pubblico dei teatri e ai teatranti medesimi)
ci sono Giuseppe Manfridi, Edoardo Erba, Raffaella Battaglini,
Ugo Chiti, Roberto Traverso, Roberto Cavosi, Franco Scaldati,
Franco Brusati, Enzo Moscato, Roberto Cappuccio, poeti come Mario
Luzi, Edoardo Sanguineti, Biancamano Frabotta, Mariangela Gualtieri,
la nota inconciliabile del teatro vagante di Giuliano Scabia,
il teatro politttico di Marco Martinelli, e ancora Enzo Siciliano,
Vincenzo Giannì, Rocco D'Onghia, Alberto Bassetti, Manlio
Santanelli, Umberto Marino, Angelo Longoni, Furio Bordon, Cesare
Lievi, Sonia Antinori, Renato Sarti, Giorgio Pressburger, Antonio
Moresco, Antonio Syxty, Antonio Tarantino, Raffaello Baldini,
Alessandro Trigona Occhipinti, Marcello Isidori, Luigi Gozzi,
Annibale Ruccello, Federico Tiezzi, Pier Mario Fasanotti, Pia
Fontana, Massimo Bavastro, Gianni Guardigli, Giampaolo Spinato,
Marcello Cotugno, Leonardo Capuano, Virginia Consoli, Franco Farina,
l'insolita ricerca di Daniela Nicolò dei Motus, i giovani
Ascanio Celestini, Fausto Paravidino, Riccardo Mini, Letizia Russo.
Molti di questi autori hanno scritto del tempo di oggi, attraverso
i loro personaggi hanno tracciato linee nuove e ricalcato vecchi
sentieri, ma tutti hanno ricercato con metodo e ossessione una
qualche definizione di uomo. Sembra curioso, ma probabilmente
le ricerche più pregnanti, negli ultimi dieci anni almeno,
sono state condotte nella semioscurità dell'anonimato:
il teatro, la drammaturgia, la poesia.
E forse è nelle stesse condizioni che hanno mosso i primi
passi le avanguardie di inizio Novecento, che si sono sviluppati
il futurismo, il dadaismo, i movimenti pittorici, le grandi ondate
culturali che hanno poi segnato (microscopicamente) la storia
dell'umanità.
L'uomo si ritrova, alle soglie di un'era comunque nuova, dove
la tecnologia segna i tempi del convivere, come uno strumento
scordato gettato in un angolo, ai margine, impolverato, confuso.
Troppe idee circolano ad una velocità insensata, ogni giorno
il mondo dovrebbe essere segnato da qualcosa di storico, di decisivo.
Un passo che non sta portando poi tanto lontano, visto che la
salute del pianeta peggiora, il numero degli abitante cresce in
maniera vertiginosa, le barriere politiche, sociali ed economiche
si fanno più massicce.
La parola, vivificata attraverso la scrittura, scrittura intesa
non soltanto come lo scrivere, l'incidere, il tracciare, ma soprattutto
come intervallo di riflessione, capacità di fermarsi e
riflettere, approfondire, prendere coscienza per poter agire.
Forse non saranno né la politica, né l'economia
di mercato, né i new media ad arricchire il futuro
dell'uomo: pensare cosa potremmo diventare se i campi oggi dismessi
venissero coltivali a parole.
Tiziano
Fratus (Bergamo, 1975) ha fondato nel 2000 ManifatturAE - Bottega
di Ricerca Poetico Drammaturgica. Ha scritto pièces teatrali,
poesia, narrativa, collabora con le riviste Sagarana (Lucca),
Tribù Astratte (Palermo), Dramma.it (Roma), con Outis -
Centro Nazionale di Drammaturgia Contemporanea (Milano). Sta lavorando
al suo spettacolo "L'autunno per Eleni", nel solco di
un teatro di poesia, che andrà in scena a Torino dall'8
al 17 maggio..
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