L'UMANESIMO E I BOTTEGAI

Alain Accardo




Di questi tempi, si è parlato di rivalutare lo studio del greco e del latino. Sarebbe il caso di rallegrarsene, sperando di poter avere, in prospettiva, un maggior numero di laureati - e quindi di membri delle nostre élite dirigenti con l'impronta di una cultura umanistica fondata su una prolungata consuetudine con gli studi classici.
Purtroppo, anche qualora questa intenzione portasse a decisioni suscettibili di rafforzare un insegnamento divenuto oggi residuale, c'è da dubitare della loro reale efficacia. Non basta introdurre nei programmi scolastici "specialità" nuove o rinnovate per far sorgere, in maniera del tutto volontaristica, la relativa domanda. Per quanto succulente, le nuove pietanze potranno risultare invitanti solo a condizione che l'avventore provi per esse un reale appetito. Il quale però non può sorgere per decreto ministeriale. Sul piano della soggettività individuale, questo appetito è infatti espressione di una condizione storica della società e, nel caso specifico, del ceto medio, principale beneficiario di una relativa democratizzazione dell'insegnamento secondario e superiore.
È inevitabile e legittimo che le famiglie, confrontate con i diversi percorsi offerti dal mercato della formazione scolastica, si pongano una domanda molto pragmatica: "a che serve?". Se un tempo si attribuivano agli studi umanistici classici le virtù del sapere "disinteressato", è proprio questo "disinteresse a deteminare lo scarso interesse di oggi. Nell'epoca in cui erano appannaggio delle élite borghesi e costituivano la via maestra verso i posti di potere, gli studi umanistici suscitavano un potente "interesse per la matéria", che generalmente andava di pari passo con un "interesse materiale".
Erano ancora i tempi in cui il bon ton imponeva di sostenere che la vera ricchezza fosse quella spirituale, mentre gli appetiti rivolti al potere temporale erano costretti a trasfigurarsi per risultare socialmente accettabili. In altri termini, i corsi di retorica servivano non tanto a produrre qualche Erasmo contemporaneo, quanto a consentire alle classi possidenti e alle loro più modeste alleate di dimostrare al mondo e a se stesse che i loro più eminenti rappresentanti, in particolare quelli usciti dall'Ècole normale per entrare direttamente nei vialoni del potere, non erano volgari bottegai, ma spiriti profondi e brillanti, impregnati dei valori espressi nelle opere dell'Antichità classica, e quindi meritevoli di regnare.
La cultura veicolata dalle lettere classiche, inseparabilmente filologica, storica e filosofica, contribuiva a questo processo di mobilitazione. Ma, mentre versava il suo lubrificante simbolico negli ingranaggi dei meccanismi sociali, non poteva evitare - bell'esempio di "effetto perverso" di gettarvi anche qualche manciata di sabbia, sotto forma di quell'ideale umanistico e utopico oggi tacciato di arcaismo dagli esponenti del realismo modernista, che però non sono ancora riusciti a spazzarlo via del tutto. Così, ancora per qualche tempo - almeno finchè si è potuta integrare nelle strategie di riproduzione sociale dei gruppi dominanti - l'eredità degli studi umanistici ha potuto essere preservata.

Oggi però tutto è cambiato. La libido dominandi, la volontà di potenza temporale, formidabilmente demoltiplicata dall'accumulazione dei capitali, ha ormai libero corso e può essere ostentata nell'assenza di qualsiasi freno morale. In effetti, non ci si chiede più se sia legittimo cercare di arricchirsi, o se esistano modi più o meno buoni per farlo. Al vizio non si domanda ormai neppure di rendere ipocritamente omaggio alla virtù, dato che esso stesso si è tramutato in virtù. Il denaro è divenuto il bene in sé, a un tempo mezzo e scopo di ogni attività, segno del successo sociale e motivo d'orgoglio. Roma non si trova più a Roma, ma a New York. La rappresentazione occidentale del mondo poggia oramai su un triplice, indiscutibile fondamento: filosoficamente sul neoliberismo, economicamente sul capitalismo finanziario, geopoliticamente sulla sottomissione alle strategie congiunte del Pentagono e di Wall Street.
Non si tratta di idealizzare la grandezza delle società antiche per contrapporle al filisteismo dell'epoca attuale. Gli storici ci hanno ampiamente chiarito le idee a questo riguardo. Sappiamo bene, ad esempio, che i ceti medi di Atene o di Roma non erano affatto insensibili alla seduzione del guadagno, e approfittavano volentieri dello schiavismo. L'avidità di lucro e di piaceri imperversava, né più né meno di oggi. Ma almeno i nostri lontani predecessori non vi vedevano il fine ultimo di ogni esistenza; e tra i grandi testimoni della coscienza civile si è sempre levata qualche voce autorevole - come quella di Ovidio - per stigmatizzare queste derive, constatando con sdegno: "Ciò che conta oggi è il denaro. Il denaro procura gli onori, il denaro procura le amicizie. Dovunque il povero è calpestato".
Oggi, chi aspira al dominio non ha alcun motivo per allungare il percorso passando attraverso gli studi umanistici classici. La piccola borghesia ha già visto aprirsi altre vie d'accesso alle sfere del potere. Il greco e il latino non possono essere di reale utilità per chiunque aspiri a far carriera in una società freneticamente dedita alla gestione economica e commerciale. A riprova di quest'inversione di valori, a tutto svantaggio di quelli umanistici della cultura classica, oggi le attività commerciali (e in genere il vendere e il comprare, il mondo delle merci e delle attività bancarie) a lungo disprezzate e dichiarate addirittura "non nominabili", sono oramai professioni apprezzate, valorizzanti e persino celebrate, che i ceti medi privilegiano in massa per i loro figli.
In un contesto del genere, che mai possono ancora dire di importante i grandi classici? Quali opere non possono essere vantaggiosamente sostituite dalle dichiarazioni dei direttori generali dell'Fmi o dal coro degli editorialisti della stampa, i nostri attuali professori di retorica? Che mai possono farsene i ceti medi di una cultura umanistica che esalta i valori dell'otium o della scholè, lo studio praticato per gusto e per diletto e le attività dello spirito, mentre definisce negotium cioè lavoro da schiavi - le occupazioni remunerate o lucrative? Le classi medie, preparatorie all'ingresso (molto aleatorio) alla grande borghesia, non sono forse fondamentalmente figlie del negotium? E la loro sorte non è sempre stata tributaria dello sviluppo dell'economia mercantile, della monetarizzazione degli scambi commerciali, della lotta spietata per la conquista dei mercati, del risparmio, del credito bancario?
Avremmo ovvianente tutte le buone ragioni per rallegrarci che il lavoro salariato abbia soppiantato quello degli schiavi, se non dovessimo purtroppo constatare una forma moderna e insidiosa di alienazione, in cui il lavoratore accetta di essere posseduto (in tutti i sensi del termine) da un sistema capace di rubargli la sua anima mentre compra la sua forza lavoro. Abbiamo cambiato universo per avere altre catene.
Il denaro regna sovrano. E i nostri ceti medi, oltre a non avere più un Ovidio per dolersene, sono incitati in permanenza dalle loro "élite" a lasciarsi sempre più coinvolgere nel funzionamento di un sistema che di fatto sarebbe ridotto all'impotenza senza la loro compartecipazione. Come farebbero i nostri manager, i nostri politici, i direttori dei nostri media e le altre eminenze della nostra aristocrazia di stato e d'impresa a proporre in tutta serietà all'ammirazione del loro pubblico i personaggi della cultura classica? Come Attilio Regolo, che secondo Cicerone "per impegnare la sua parola non conosceva vincolo più forte di un giuramento"; o come Aristide, il quale - come scrive Plutarco - considerava suo dovere essere utile alla patria senza attendere denaro né onori? Chi può pretendere oggi in Francia di propinare alla gente precetti del genere, mentre i media ossequiosi tessono instancabilmente le lodi di personaggi d'ogni risma, ma accomunati dall'ambizione arrivista, dalla sete di privilegi e dall'arte dei voltafaccia, erette a virtù cardinali e decantate con termini quali "capacitá d'adattamento", "creatività", "dinamismo" o "efficienza "?
Ogni epoca ha le sue figure leggendarie. Le hanno anche i ceti medi francesi di oggi. Uno degli eroi che i media si compiacciono di incensare è il "carismático"Jean-Marie Messier, amministratore delegato della Vivendi, sempre sulla cresta dell'onda. "Pendolare" tra Parigi e New York, dove si è appena comprato un "duplex" con vista sul Central Park, pagato varie decine di milioni di dollari ben guadagnati (realizzando a tambur battente operazioni di riscatto e fusioni di imprese con i relativi patti sociali), per la nostra edificazione Messier trova anche i il tempo di venire a scambiare con l'eccelso scrittore e pensatore Philippe Sollers quattro squisite e urbanissime chiacchiere sulla fortuna che abbiamo di vivere in un'epoca come questa. E di poter lasciare l'esempio di siffatti giganti alle generazioni future.


(Testo pubblicato recentemente su Le Monde Diplomatique)






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