SU POETICHE AFRICANE

Julio Monteiro Martins

Seigneur, je ne veux plus aller à leur école
(Guy Tyrolien, Prière d'un petit enfant nègre, 1943)

Je changerai d'habitudes /
pour me crèer de plus inhabituelles habitudes
(Fatoumata Ba, Recommencer, 2000)


Non ho mai letto, nell'ambito della critica letteraria del nostro continente, un'opera così attenta e rispettosa della realtà africana quanto Poetiche africane di Armando Gnisci. Per uno scrittore di origine brasiliana come me è una grande soddisfazione trovare in Europa testi che promuovano un tale riconoscimento, presente già da qualche tempo in gran parte dell'ambiente degli studi culturali e antropologici in Brasile, che da Gilberto Freyre e Darcy Ribeiro in poi ha identificato nel sistema di pensiero e nelle mitologie africane le tracce determinanti del carattere nazionale, ancor più decisive di quelle lasciate dai colonizzatori portoghesi.
Il Brasile e i Caraibi (compresa l'area del Delta del Mississippi che oggi integra il territorio degli USA) sono pezzi d'Africa trapiantati nel Nuovo Mondo, e che nei sorprendenti risultati dell'alchimia prodotta nel contatto con altre culture, ha impregnato questo termine nuovo di un significato non più collegato agli eventi del passato, alle Scoperte dei conquistadores, bensì al futuro, alle esuberanti prospettive artistiche e di civiltà promesse da questo meticciato.
L'operazione, secondo me straordinaria, compiuta da Armando Gnisci in questo suo nuovo libro - seguendo le orme di Aimé Cesaire, Frantz Fanon e Edouard Glissant - è quella di trasformare la "colpa" e il "pentimento" dei crimini coloniali in un "progetto comune", un progetto nel quale la guida ideologica, estetica e addirittura morale va alle culture del Sud del mondo: una resa dell'Occidente di fronte all'evidenza della sua incapacità di correggere i minacciosi crescenti squilibri in corso, trasferendo così la responsabilità di farlo alle sua attuali vittime, a quella maggioranza imbavagliata che questi squilibri li conosce profondamente e in prima persona.
Ma non si tratta di una sconfitta dell'Occidente, o di una resa rassegnata e passiva, bensì di un'illuminazione, di una resa felice e piena di speranza verso gli altri e anche verso di sé, poiché i problemi interni dello stesso Occidente, certe patologie ideologiche, economiche e mediatiche, in fase di aggravamento, potranno essere anch'esse risolte attraverso questa nuovissima apertura. Il Sud, il cui sfruttamento era visto prima come una soluzione per l'economia allo stesso tempo avida e flaccida del Nord, e poi come un problema potenziale, perché genesi di ribellioni e di attentati terroristici, potrà diventare nuovamente - attraverso il miracoloso rovesciamento concettuale proposto da Gnisci - una soluzione, la fonte di equilibrio in un mondo post-sfruttamento.
Un'utopia? Sicuramente sì. E benvenute le utopie, da sempre le manifestazioni più coraggiose e generose della fantasia dell'uomo. Il mondo delle idee deve imparare a celebrare l'avvento delle nuove utopie con lo stesso senso di meraviglia con cui le celebrava, diciamo, nel XVII secolo. Oggi si sa che sono state proprio quelle utopie - penso a Tommaso Moro, a Hobbes, a Swift, e anche a Rousseau, a Erasmo, a Fourier - le vere società virtuali alternative che hanno gettato le basi del mondo moderno, e hanno fecondato le motivazioni degli Illuministi dal Settecento in poi.
Abbiamo bisogno disperatamente, nel Duemila, di nuove utopie. Solo pensieri dell'ampiezza di quelli portati a noi da Gnisci e dallo scirocco, se accolti con lo stesso entusiasmo di quelli del passato, potranno fecondare il futuro e permetterci di uscire dalla trappola in cui si è trasformata la globalizzazione neo-liberista.
Armando Gnisci è un furioso creatore di utopie, e le presenta nel suo stile caratteristico, la sua "poetica" come ama definirla (leggete per esempio il capitolo Adwa), uno stile in controluce, dove anche quelle più sofisticate e complesse sono presentate da dietro una ruvida tela di rabbiosa indignazione, una sorta di "ira santa", di atto di accusa contro i contemporanei, una collera simile a quella di Wilhelm Reich nel suo Ascolta, piccolo uomo, un libretto oggi dimenticato che ha segnato un'epoca di svolta tra i giovani della metà del Novecento. La rabbia critica di Gnisci prima sconvolge e poi trascina con sé il "senso comune" che sta portando tutti verso il baratro (anche quel "senso di moderazione" di una certa sinistra che vuole spacciare per "serenità" ciò che non è altro che una mal celata complicità col sistema dominante).
Diversamente dei suoi libri precedenti - penso in particolare modo a Una storia diversa - in questo Poetiche africane Gnisci non si esprime in prima persona, ma attraverso le voci plurali degli scrittori dell'Africa di oggi che lui apprezza, che - un altro suo grande merito - ha in gran parte scoperto lui stesso e ora presenta alla conoscenza dei non-africani. Sono Joseph Ki Zerbo, Ngugi wa Thiong'o, Fatoumata Ba, Pedro Miguel, Ali Mumin Ahad, Antjie Krog e Abdelfattah Kilito. La coerenza poetica/pratica è assoluta: il trasferimento dell'emittenza del discorso dal Nord a Sud è già presente nella struttura stessa del suo libro. Al di là di qualsiasi retorica sterile, Gnisci produce un fatto culturale, una vera e viva presenza, "avventurosa e sana" per usare le sue stesse parole.
Se mi è permessa una metafora, direi che Gnisci non parla delle proprietà o del percorso del gigantesco fiume chiamato Storia, ma ci mostra al di sotto della superficie i pesci che nuotano controcorrente, consapevole che prima o poi quel fiume dovrà cambiare corso, semplicemente perché non può essere diversamente.
Il fiume è un'immagine ricorrente, onnipresente nell'immaginario africano, nelle loro favole, un'immagine carica di significato. E prima o poi lo sarà anche per noi. C'è ancora tanto da imparare... Ma si può benissimo cominciare da queste riflessioni.

Lucca, 8 e 9 Marzo 2002




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