LA VISIONE EUROPEA DEL MONDO AFROASIATICO

Luís César Bou

Europa-Asia-Africa

L'immagine, indubbiamente deformata, che l'Europa elabora riguardo all'Asia e all'Africa, ha un valore incommensurabile per la creazione di un'identità occidentale. Africa e Oriente costituiscono l'altro nel quale si cercano gli antipodi in tutti i sensi possibili. Per questo tale ricostruzione mostra il negativo dell'Europa o di ciò che si credeva fosse l'Europa in passato. Nell'immaginario europeo precedente al XIX secolo, l'Oriente affiora come il luogo dell'abbondanza degli alimenti; della ricchezza e del lusso dei suoi palazzi e del possesso di inesauribili fonti di metalli preziosi; del peccato, a causa di una fantasia sessuale sfrenata da parte di uomini e donne; e soprattutto dell'irrazionalità, poiché quello era il luogo in cui poteva accadere tutto ciò che in Europa era impossibile o inimmaginabile. Molte componenti di tale immagine persistono in qualche modo fino ai giorni nostri e in seguito ci soffermeremo analiticamente su ciascuno di questi temi. Ma ciò che mi interessa al momento è segnalare come questo luogo di alterità a) non è stato reciproco, poiché né in Oriente né in Africa compare alcuna disciplina specifica simile all'orientalismo o all'africanismo occidentali; b) è stato un elemento fondante dell'identità europea e come tale la cultura europea non potrà rinunciare facilmente ai suoi amari retaggi (Said, 1990).
Come vedremo più avanti l'instaurazione dell'altro ha implicato che quest'ultimo risultasse sempre diverso e inferiore. Già l'illuminista Voltaire riferendosi agli africani diceva:
Rappresenta un gran problema sapere se discendano dalla scimmia oppure se la scimmia discenda da loro. I nostri saggi hanno detto che l'uomo è stato fatto a immagine e somiglianza di Dio: ecco una comica immagine dell'Essere eterno, con un naso appiattito e con poca o nessuna intelligenza! (Voltaire: Lettre d'Amabed, t. XXI, cit.in Ki-Zerbo 1980: 316).
Voltaire si era opposto alla schiavitù in molti dei suoi scritti ma era anche un buon borghese che investiva i propri soldi nelle compagnie dedite alla tratta dei negri in modo tale da rimandare al futuro una possibile uguaglianza tra gli uomini. Questo genere di contraddizioni e opportunismi è molto frequente tra gli intellettuali "progressisti" dell'Occidente. Nel migliore dei casi, a partire dalla famosa spedizione napoleonica in Egitto, si esalta il passato remoto di queste culture (come non valorizzare l'Egitto, la Mesopotamia, la Cina?) ma si riconosce nei loro discendenti contemporanei un retaggio depravato, un residuo contaminato di un passato grandioso. Quando i beni culturali extraeuropei sono innegabili si attribuisce loro un'origine incerta. In questo senso è paradigmatico il caso delle lingue africane.
I linguisti europei dell'800 riscontrarono che in gran parte dell'Africa sub-sahariana si utilizzava un gruppo di lingue chiaramente imparentate tra di loro. Un inglese, W.H.I. Bleek, classificò queste lingue come appartenenti alla famiglia Bantù, termine che elaborò unendo il prefisso plurale ba con il termine ntù che in queste lingue significa persona. A partire da quel momento e fino ad oggi si è usato e abusato di questo termine ed è facile verificarlo quando incontriamo qualcuno che parla di "popoli bantù", "cultura bantù" e persino di "razza bantù". Questo termine di creazione europea è stato tanto fortunato che finirono per usarlo gli stessi africani, anche i nazionalisti. Tornando ai linguisti, essi riscontrarono che queste lingue avevano uno sviluppo simile a quelle europee: potevano esprimere perfettamente concetti, categorie di analisi e si adattavano ottimamente all'espressione delle speculazioni filosofiche più sottili. La conclusione logica fu che questa lingua non poteva essere stata creata dai neri, la sua origine doveva essere cercata altrove. Dove? In qualche cultura più o meno bianca (o, per meglio dire, considerata bianca in questo frangente) come quella d'Egitto, anche se per questo si dovevano creare parentele dove non c'erano e disegnare inediti itinerari linguistici. Ciò che questo linguisti non si sono mai preoccupati di spiegare è perché i neri dovrebbero utilizzare dei termini che, secondo il loro parere, non erano in grado di utilizzare.(Carme Junyent, 1998).
La considerazione europea del mondo afroasiatico compare, nel XIX secolo, chiaramente segnata dall'evoluzionismo. Come corrente etnologica del pensiero positivista, l'evoluzionismo sosteneva che le culture passassero per diversi stadi o tappe di evoluzione.
Il presupposto è che la tappa superiore corrisponda alla cultura europea e le inferiori, in diverse gradazioni, al resto delle culture, passate e presenti. In realtà tutte le culture extra europee sono più o meno arretrate o primitive, termine quest'ultimo che ancora oggi viene utilizzato per individuare i popoli del Terzo Mondo. Questo ritardo o evoluzione abbraccia tutti gli aspetti della cultura, e a tal proposito Sir James Frazer parlava di una sequenza di sviluppo che cominciava con la magia, proseguiva con la religione e terminava nella scienza. (Frazer 1985). Come se esistesse qualche posto al mondo in cui ancora oggi sia possibile trovare questi tre elementi separati tra di loro. Un altro etnologo evoluzionista Tylor, elocubrerà una sequenza dello sviluppo del pensiero religioso che parte dall'animismo o dal feticismo, continua con il politeismo e finisce nelle religioni monoteiste. Il feticismo trae il nome dal portoghese feicho, cosa fatta o elaborata dall'uomo. L'adorazione di idoli fabbricati dai fedeli, veniva visto come primitivismo, come se molte religioni considerate monoteiste non utilizzassero anch'esse oggetti di culto o feich di diversa natura (immagini, crocifissi, testi, ecc) (Brelich, 1979). Le culture dell'Asia e dell'Africa sono cimeli del passato, curiosità etnologiche degne di essere esposte alla curiosità dei "civilizzati". Così osserviamo che nelle principali cattedrali europee si organizzano "zoo umani" nei quali sono esposti gli africani, gli asiatici, o gli indigeni americani. Le grandi esposizioni internazionali della fine del secolo contavano su queste attrazioni per attrarre il pubblico:
L'attitudine del pubblico era uno degli argomenti più sorprendenti: molti visitatori gettavano alimenti o giocattoli ai gruppi che si esibivano, commentavano le fisionomie comparandole ai primati (riprendendo con ciò uno degli elementi della antropologia fisica, ansiosa di portare alla luce i "caratteri scimmieschi" degli indigeni ) o ridendo a crepapelle nel vedere un'africana malata tremante nella sua capanna. (Bancel, 2000).
Molti "ospiti" non sopportavano il cambiamento climatico e si ammalavano. O si ammalavano di umiliazione? La mortalità era alta, anche tra alcuni dei nostri indigeni della terra del Fuoco che passarono per l'Esposizione di Parigi. Tutto ciò si poteva fare senza alcun senso di colpa, poiché l'umanità stessa di questi esseri era discutibile. Nel migliore dei casi si pensava a loro come dei popoli infantili che non potevano essere lasciati soli, data la loro incapacità di sopravvivere senza esercitare la loro barbarie. In questo modo la condizione imperialista troverà una sua giustificazione scientifica, ma ciò che davvero spaventa è l'unanimità di questo pensiero in Occidente, perfino nei dibattiti della Seconda Internazionale nei quali anche i critici sociali più caustici giustificano, a partire da questa base scientifica, le politiche imperialistiche delle metropoli. In alcuni casi si va oltre la giustificazione, è il caso per esempio di Henry van Kol, rappresentante dell'Olanda, che sostiene:
Dobbiamo lasciar la metà della terra all'arbitrio di popoli ancora in uno stadio primitivo che non esplorano le colossali risorse del sole dei loro paesi, e lasciano senza coltivare le parti più fertili del loro pianeta? Oppure, nell'interesse dell'umanità, dobbiamo intervenire perché la terra che appartiene a tutto il genere umano conceda a tutti i suoi abitanti i mezzi per vivere? Per caso non si deve intendere per socializzazione dei mezzi di produzione il fatto che tutti i mezzi necessari per vivere e per lavorare devono appartenere a tutti? (Van Kol, 1978: 31).
Per questo signore il socialismo inizia non dall'espropriazione dei borghesi ma da quella degli indigeni. Questo modo di fare socialismo non era esclusivo di Van Kol ma era condiviso da molti altri partecipanti alla Seconda Internazionale. Per esempio, il social democratico inglese Richard Calwer che sosteneva a quel tempo:
Finchè sarò socialista, per una questione di principio, saluterò sempre come progresso verso il socialismo tutte le colonizzazioni capitaliste di un paese, anche quelle che si realizzano attraverso le forme più riprovevoli (Calwer, 1978: 12).
Non molti socialisti hanno sostenuto tanto apertamente posizioni simili. Il fatto è che tutte le scienze e le attività umane possono giungere ad essere contaminate dall'etnocentrismo, compresa la critica artistica e estetica, come nel caso dell'arte indiana. Per l'Inghilterra vittoriana l'arte indiana non poteva essere che depravazione. Basta pensare all'effetto che producevano i lingam (rappresentazione del fallo, simbolo di Siva) in quell'ambiente. Da lì la condanna generalizzata dell'arte indiana come cattiva, qualifica (o, per meglio dire, squalifica) sostenuta anche dall'assenza di determinati criteri estetici occidentali come la simmetria. Però non tutto nell'arte dell'India ha subito questa squalifica, l'eccezione è stata l'arte di Gandhara. In questo luogo gli archeologi europei hanno trovato forme d'arte accettabili per l'Occidente così Gandhara fu considerata come la culla della vera arte indiana, corrotta a posteriori, parallelamente alla corruzione della cultura indiana. Oggi sappiamo che Gandhara è stata un regno ellenistico residuo della conquista alessandrina. Quindi la sua arte era greca, con qualche influenza indiana. Insomma, ciò che era accettabile dell'India risultò essere proprio ciò che non era indiano.
Per concludere per il momento con questo tema non possiamo non ricordare che la medicina e la psichiatria hanno anch'esse avuto qualcosa da dire riguardo all'inferiorità scientificamente dimostrata dai non europei. Ricordiamo le considerazioni del professor Porot, per trent'anni alla cattedra di Psichiatria all'Università di Algeri, che segnala le caratteristiche dell'algerino:
- nessuna o scarsa emotività
- altamente credulone e suggestionabile
- testardaggine tenace
- puerilità mentale, privo dello spirito curioso del bambino occidentale
- soggetto a incidenti o a malattie psicosomatiche (Fanon, 1969: 277)

Voglio chiarire che l'ultima osservazione significa che l'algerino cade facilmente in trans, come qualsiasi psicotico. Inoltre, Porot diceva che:
L'indigena nord africana, le cui attività superiori e cerebrali sono poco evolute, è un essere primitivo la cui vita, in essenza vegetativa e istintiva, è retta soprattutto dal diencefalo. (Fanon, 1969:278)
Il diencefalo costituisce la parte più primitiva del cervello, che è presente anche nei rettili. Questo è ciò che dovevano imparare a credere gli algerini che volevano diventare medici. L'Africano è puerile, suggestionabile, senza emotività. Perché non dire allora direttamente che è un idiota? Questa affermazione è stata fatta niente meno che da un esperto dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, il dottor Carothers, il quale, in un libro pubblicato nel 1954 che riassumeva i molti anni trascorsi in Africa, affermava:
L'africano utilizza pochissimo i suoi lobi frontali. Tutte le particolarità della psichiatria africana possono essere attribuite ad una pigrizia frontale.
E più avanti aggiunge:
L'africano normale è un europeo lobotomizzato. (Fanon 1969:280)
Ricordiamo che la lobotomia è stata una procedura molto in voga fino agli anni sessanta per il trattamento di quegli infermi mentali che mostravano aggressività. Consisteva in un raschiamento dei lobi frontali con il quale venivano distrutti. Il risultato era che l'infermo smetteva di essere aggressivo ma diveniva qualcosa di simile ad un vegetale per il resto della sua vita o, nel migliore dei casi, un idiota. Ciò che dice il dottor Carothers in altri termini è che l'idiota europeo è uguale ad un africano normale.


Il "terzomondismo"

La critica alla visione etnocentrica è ancora oggi è in un processo di elaborazione, poiché prosegue trovando nuovo aspetti di essa che, per essere creduti secondari, sono stati in principio lasciati da parte. Comunque sia, ciò che è certo, è che gli inizi sistematici di questa critica sono presenti a partire dal secondo dopo-guerra, periodo durante il quale si è realizzata anche l'indipendenza della maggior parte del mondo coloniale. Nelle colonie ed ex colonie, così come nelle metropoli, comincia un movimento intellettuale di rivalutazione delle culture afroasiatiche. Il terzomondismo costituisce una parte integrante del pensiero di sinistra degli anni '50 e '60 e implica un impegno nei confronti delle lotte nazionali in Asia e in Africa.
Il termine terzo mondo è stato coniato da Alfred Sauvy, eminente demografo francese e primo direttore dell'Istituto demografico delle Nazioni Unite. Sauvy ha utilizzato questa parola per definire un insieme di paesi con caratteristiche comuni, come quella di essere state colonie di potenze europee, di aver subito una dominazione economica, di essere produttori di materie prime ed alimenti, di avere determinate caratteristiche nell'ambito della crescita della popolazione, del reddito pro capite, della scolarità ecc. Non ha mai parlato di un primo mondo né di un secondo mondo, per la sola ragione che non era ciò che gli interessava di scrivere e anche per il significato che cercava di dare a questo concetto. Si tratta di una parafrasi del concetto di terzo stato, così caro alla Francia di quei giorni. Sauvy aveva molto presente la famosa definizione data nel 1789 dall'abate Sieyès :
Cos'è il Terzo Stato? Tutto.
Cos'ha significato fino ad oggi nell'ordine politico? Nulla.
Cosa chiede? Di diventare qualcosa.

Il contesto delle guerra fredda darà un altro significato al concetto. Nel 1955 si riunisce la famosa conferenza di Bandung, pietra fondante del movimento dei paesi non allineati con pretese di terzismo in questa disputa. Molti leaders politici dell'Asia, Africa e America Latina parlano delle vie nazionali del socialismo materializzate molte volte in politiche pendolari che portano a frequenti inversioni di alleanze nell'ambito internazionale. Questo era possibile in un contesto conflittuale tra USA e Unione Sovietica che offriva a queste regioni un'inedita importanza politica nell'ambito internazionale. Terzo mondo implica in questo caso un'equidistanza nelle dispute est-ovest.
In questo stesso contesto, qualche anno dopo, Mao Tze Dong elaborerà la sua teoria dei Tre Mondi. Il Primo, formato dalle due super potenze in conflitto, USA e Unione Sovietica, il Secondo dai paesi industrializzati di alto livello di vita, Europa, Canada, Giappone ecc. Per Mao il Terzo Mondo è prima di tutto il mondo contadino dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina che, in una strategia di assedio da parte della campagna alle città, simile a quella portata avanti dal movimento comunista cinese, nel lungo termine dovrà diventare la protagonista della Rivoluzione Mondiale.
La fine della guerra Fredda ha provocato la bancarotta delle politiche di non allineamento. Il mondo afroasiatico finì per essere terreno di disputa tra le super potenze e, quindi, ha perso rapidamente la maggior parte della sua importanza politica. Gli antichi difensori delle vie nazionali verso il socialismo si sono convertiti in molti casi in paladini del libero mercato e contano di guadagnarsi un posto più vicino possibile al vincitore, a volte senza grande successo. Da parte sua parte, la Rivoluzione Cinese, subito dopo la morte di Mao, ha seguito lo stesso percorso. Oggi i cinesi considerano il Maoismo un pensiero di un'altra epoca e, che, come tale, debba occupare solo un luogo della memoria. E' significativo come, negli anni '90, si siano verificati profondi cambiamenti di costumi da parte non solo dei gruppi politici ma anche delle istituzioni volte alla cooperazione con il Terzo Mondo, quelle stesse che, rapidamente, cancellarono queste due parole dal loro nome.
A mio giudizio la bancarotta del Terzomondismo non invalida in assoluto il concetto di Terzo Mondo nel senso in cui ne parlava Alfred Sauvy. Al contrario, nel frattempo, la distanza tra ricchi e poveri si allarga a dismisura e, nell'ambito internazionale, il termine acquisisce una sempre maggiore validità. Chissà che oggi il Terzo Mondo non coincida con i confini degli stati di cinquant'anni fa. Può essere anche che si debba includere in esso i sempre più numerosi esclusi dal mondo sviluppato.


La critica e le categorie analitiche vigenti

Quelli che nel secolo XIX pretesero di inoltrarsi nello studio del mondo afroasiatico, lo hanno fatto con gli strumenti che avevano allora a loro disposizione. Successe, quindi, che certe categorie analitiche create per lo studio della storia europea furono applicate senza una revisione critica. Per esempio: nello studio del mondo islamico si assimila il Califfo Ottomano a un Papa della chiesa cattolica, i giudici islamici alle autorità ecclesiastiche, le Moschee alla Chiese ecc. Dovrà passare ancora molto tempo perché si arrivi a comprendere che nel mondo islamico non esiste nessuna struttura simile alla chiesa cattolica. Ancora oggi è frequente trovare il termine sacerdote per fare riferimento agli esperti coranici. E anche per la mancanza di altri termini in lingua occidentale si continua a parlare di monaci e monasteri buddisti. Oggi sappiamo che l'uso di questi termini è scorretto e, nel caso che sia inevitabile, è necessario mettere le virgolette. Ma non sempre si è avuta questa stessa idea riguardo all'approccio teorico delle società extra europee. Per esempio, l'idea di stato- nazione è tipicamente europea come anche l'idea nazionalista che in Europa è comparsa solo nel secolo XIX. Nella storia del mondo afroasiatico le tradizioni degli stati sono molto diverse da quelle europee. Se è vero che sono esistiti stati-nazioni equiparabili a quelli europei, è anche vero che ci sono state società senza stato, o società in cui varie formazioni statali condividevano lo stesso territorio. L'idea stessa di un confine tra stati è alle volte assente, alle volte esasperata. Credere universale il concetto europeo di stato, di politica, e di governo è condannarsi a non capire, o a capire in modo schematico ed equivocabile, gran parte della storia dell'Africa e dell'Asia.
E' il caso dell'uso del concetto di "feudalesimo". Per molti anni si è veduto feudalesimo dappertutto. Questo in connessione col fatto che, per lo stalinismo, si trattava della tappa immediatamente precedente allo sviluppo del capitalismo, in modo che dove non c'era un capitalismo propriamente sviluppato la soluzione era etichettare quella società come feudale. La questione della diversità dei fenomeni che in Europa erano conosciuti con questo nome, veniva sottolineata da un secondo concetto che delineava la sua specificità, e così sono nati il feudalesimo autoritario, feudalesismo nomade, feudalesismo africano, asiatico, giapponese, ecc. Sempre nel caso del Giappone, più simile a quello europeo, le differenze dal modello sono enormi e indiscutibili, quando non si ha l'intenzione di dissimularle. (Anderson, 1983).La questione in questi casi è che negli studi storici uno trova quel che cerca e ciò che si è cercato è stata la somiglianza con il conosciuto, formula sicuramente inadeguata per capire il diverso.
Diversa è anche - per concludere al momento con questo argomento - la forma che nel mondo afroasiatico ha assunto e assumono i fenomeni religiosi. In primo luogo ci sono culture in cui semplicemente non si riconosce il religioso come una cosa distinta dal resto delle attività umane, la qual cosa è evidenziata dal fatto che in queste culture non esiste un termine come "religione". Solo in Occidente e in pochi altri luoghi, si riconosce la differenza tra il sacro e il profano e, dunque, si distingue il concetto di "religione" (Brelich, 1979). In questo contesto, definire la religione come l'oppio dei popoli, non sempre è corretto: molte volte le manifestazioni religiose sono servite e servono ancora per assumersi la responsabilità di rivendicazioni nei confronti di coloro che appartengono a società più sfortunate.


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· Worsley, Peter (1974) El Tercer Mundo. Siglo XXI, México.
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