LA SCOMPARSA DEL DISSENSO
Nadia Urbinati
– Un'intervista a Antonella Marrone–
Professoressa Urbinati lei ha scritto qualche giorno fa su " La Repubblica " che l'Italia è un paese senza dissenso, una società democratica docile. Altri parlano di opinione pubblica inesistente, di società mucilllagine. Insomma, un agosto ricco di pensieri sulla democrazia nel nostro paese che lei definisce - anche - autoritaria e paternalista. Oltre che docile.
La società democratica è un concetto complesso e può stimolare due letture importanti. La prima si fonda sull'idea dell'unanimità e sul potere della maggioranza: la maggioranza regge il governo democratico in nome del popolo. Una visione che da un senso di compatezza, propone l'unità del "demos" attraverso la decisione.
Questa visone ha avuto una lunga tradizione, Carl Schmitt ne ha parlato come di un esempio di democrazia che viene da Rousseau. Accanto a questa visione ce n'è un' altra che ha avuto anch'essa una grande tradizione storica e che parte dalle rivoluzioni per i diritti (inglese, francese, americana). È una visione che possiamo definire conflittualistica, liberale, che poggia sui i diritti, che insiste sul processo formativo delle opinioni, plurale, aperto al dissenso. L'Italia di oggi assomiglia a una grande caserma, docile e assuefatta. Sia a destra che a sinistra i cittadini sono portati a pensare in un modo - lo stesso - che pare essere diventato naturale.
Dove c'è decisionismo non c'è gran democrazia, quindi....
La democrazia non è un semplice sistema di decisioni, ma un sistema di decisioni alle quali si arriva attraverso il libero confronto delle idee. Decisionismo vuol dire insistere sul momento finale, sulla decisione e sulla volontà. Se invece si vede l'intero processo politico - e non solo le regole che definiscono i modi delle decisioni - si da spazio a quelle misure che tutelano la libertà delle opinioni e quindi si lascia espressione libera al dissenso. Mi sembra che possiamo parlare di una visione molto più ricca e articolata della democrazia.
E noi dove ci collochiamo tra le diverse società democratiche, secondo lei?
Non ho la pretesa di fare analisi di tipo sociologico. Questo trend che prosegue da diversi anni - non è una cosa nuova - mi sembra che porti verso una visione molto riduttiva della democrazia, direi elettoralistica. Ovvero gli elettori vanno a votare e il resto viene fatto da altri, da chi governa. Il cittadino ha una funzione politica ridotta, che è soltanto quella elettorale. Ciò che viene fatto è fatto per via decisionista.
Manca il senso della visione complessiva, anche conflittuale, della democrazia.
Viviamo in una società omogenea dal punto di vista delle opinioni. Per questo parlo di docilità, che significa non avere una opinione diversa rispetto all'opinione preponderante, significa accettare pacificamente quello che l' opinione generale di una più o meno larga maggioranza, crede e vuole.
Società docile, opinioni omogenee: da più parti si denuncia un sospetto di fascismo.
È molto difficile dirlo. Mi spiego: Famiglia Cristiana ha parlato esplicitamente di fascismo. Ma così non credo che si colga il punto. Ci sono forme diverse per implementare una democrazia. Io dubito che una democrazia che imbavagli l'opposizione la si possa chiamare tale. Bisogna però vedere come la imbavaglia. Se le strade perseguite sono persecuzione e galera è ovvio che si colloca fuori da una dimensione di stato di diritto,è puramente fascista. Ma la nostra situazione è diversa. Questa nuova forma di omogeneità non passa più attraverso la coercizione delle azioni, ma attraverso una dolce trasformazione delle idee.
Ci sono forme diverse di addolcimento dell'opposizione o di neutralizzazione dell'opposizione.
Per me la parola fascismo denota ancora un regime particolare.
Quanto siamo vicini alla democrazia americana da un punto di vista formale?
In America è così ed è diverso nello stesso tempo. In Europa un elemento come il personalismo ha cambiato il modo di intendere la democrazia che si era sempre sviluppata per movimenti, partiti, organizzazioni collettive delle opinioni - anche per reagire ai fascismi che appunto personalizzavano la politica. In America c'è sempre stato un misto delle due cose: molti movimenti, una società molto in moto, dove i diritti - individuali e collettivi - sono una strategia di azione politica e non semplicemente un "oggetto" che viene usato qualche volta, o sempre, o solo dai giudici. Rappresentano veramente, i diritti, un progetto politico. In questo senso è una società molto più in moto, attiva e turbolenta, anche se non è una turbolenza che crea disordine. L'Italia in questo momento è pacificata, accetta con straordinaria, paurosa tranquillità l'idea che le regole o le ordinanze dei comuni possano interferire sulla vita privata delle persone. Cosa che in America non sarebbe accettabile. Qui ci sono situazioni nelle quali si accetta più facilmente la decurtazione dei diritti.
Non molto tempo fa, una delle tante indagini sul nostro vivere, descriveva gli italiani come un popolo che, pur di avere più sicurezza, avrebbe rinunciato volentieri ad un po' di "privacy".
La paura è stata alimentata ad arte e le misure di sicurezza accettate in modo incredibilmente pacifico. Eppure stiamo parlando di una situazione criminale individuale, ordinaria. Quindi una paura che non ha senso. Pensiamo agli anni Settanta con la strategia del terrore, quando l'Italia aveva certo ragione ad avere paura! Oggi questa paura serve per poter giustificare azioni di governo che sono ai limiti della legittimità dello stato di diritto. Il nostro paese giustifica fenomeni di razzismo, e di interferenza con i diritti individuali universali, che è pauroso.
Riproporre il dissenso, il conflitto: il mondo del lavoro può essere la chiave per tornare ad una democrazia di "opinioni" non omogenea, né docile?
Può esserlo, secondo me, solo ad una condizione: che torni ad essere un valore e non solamente una "prestazione d'opera" che serve per avere un salario. Il lavoro ha subito una trasformazione epocale, una svalutazione totale. È stato trasformato in semplice prestazione d'opera - e già l'uso di queste parole, di questa frase, toglie senso al lavoro come responsabilità, fatica, impegno - rendendo tutto generico ed uguale.
Al lavoro è stata tolta la caratteristica di forza integrativa della società, il suo essere strumento che guadagna diritti, e spende benessere e diritti. Così si è avuta una progressiva scrematura delle organizzazioni che potevano difendere i diritti del lavoro, si sono create situazioni di contrasto tra lavoro occupato e non occupato, giovani e vecchi. Insomma una situazione che ha contribuito a rendere il lavoro veramente vulnerabile a tutti gli attacchi possibili e recentemente anche a questa straordinaria facilità di licenziare per ragioni alcune volte giuste, altre volte assolutamente faziose, pretestuose. Il lavoro potrà essere la chiave che lei dice, ma ci vuole tempo. Perché al lavoro, come alle forme di vita pubblica, sono stati tolti valori etici.
L'opinione pubblica, ci dicono i giornali, non è comunque interessata a questo... ammesso che abbia un senso parlare di "opinione pubblica"
Non mi soddisfa parlare di queste cose. Da una parte, come dice lei, l'opinione pubblica, detta così non significa nulla. Dall'altra parte, visto che l'opinione pubblica è il giudizio politico in generale, occorrerebbe tornare a pensare a quali sono gli strumenti di formazione, a come vengono gestiti e che ruolo ha il pubblico nella regolamentazione di questi strumenti per la formazione.
Un'opinione non è un fatto privato, l'opinione politica, nella democrazia rappresentativa, è una componente della sovranità. La scheda nell'urna - il semplice gesto di andare a votare - è espressione della volontà. Ma io non vado semplicemente a votare.
La scheda nell'urna - ecco perché la democrazia deve essere completa - viene alla fine di un processo di formazione delle opinioni, ovvero di una funzione del giudizio.
Anche questa è parte della sovranità, non è un fatto privato. Le nostre leggi e le nostre costituzioni sono sguarnite su un punto che ha indicato molto bene uno studioso norvegese, Jon Elster. Scrive Elster che nessuna costituzione dei paesi occidentali si preoccupa della pluralità dei mezzi di informazione.
Pluralità dei media e, dunque, delle opinioni. È vero, perché sono tutte costituzioni scritte prima della rivoluzione mediatica. Quando si parla di opinione pubblica si parla di questo. E su questo occorre lavorare. Del resto mi sembra che venti anni di discussioni non hanno portato a nessuna soluzione legislativa che avrebbe potuto rendere il nostro paese meno problematico da queso punto di vista.
È ancora vero che le "idee della classe dominante sono le idee dominanti"?
Occorrerebbe uno studio approfondito. A me sembra che ci sia una trasformazione della democrazia, anche se la parola democrazia purtroppo è generica. Ci sono democrazie dirigistiche, dove l'esecutivismo è molto più accentuato ed è evidente l'erosione del ruolo delle decisioni collettive dei parlamenti, in tutta Europa. Da noi la democrazia interna ha avuto delle evoluzioni che si accompagnano alla de-politicizzazione della società civile e anche di molte decisioni.
Pensiamo, per fare un esempio, alle commissioni bipartisan in parlamento. Ce ne sono tantissime, come se fosse davvero possibile risolvere questioni di tipo pubblico da un punto di vista "non politico", in altre parole: come se ci fosse una visione scientifica, oggettiva di una verità. Sono forme di de-politicizzazione. La politica ridotta ad una cosa volgare che si basa su opinioni opposte. Difficile da comprendere questa democrazia.
Nanni Moretti, tanto per restare nel mood agostano, parla da tempo di una classe politica - di sinistra - che non fa più bene il suo mestiere. Sintomo o causa del malessere della democrazia?
Non c'è bisogno dei massimi sistemi per analizzare la crisi della sinistra. Sappiamo benissimo quanto sono importanti le leadership. La classe dirigente di oggi è povera, povera dal punto di vista culturale e ideale, parlamentarizzata. L'opposizione non incalza. Andrebbe fatta una bella analisi sociale della trasformazione delle classi dirigenti tenendo conto anche della loro funzione sociale. E tenendo conto di come sia cambiato il linguaggio politico con la presenza massiccia della televisione.
L'Italia è stata attraversata da un euforico vento di cambiamento, di innovazione, di "gioventù". Di cui si vedono i segni anche in parlamento, dove un'intera generazione politica è stata spazzata via...
Non sono così sicura che cambiando si possa recuperare quello che non si ha più. Le idee politiche hanno bisogno di tempo per sedimentare. Se si cambia troppo facilmente si perde l'identità
Identità è parola grossa e anche abusata, oggi. Non c'è il rischio che il dialogo politico si atrofizzi tra tante "identità"?
Allora diciamo questo: io non so che cosa sia identità. Ma non è l'identità, a mio parere, che limita il dialogo e il confronto. A meno che l'identità non diventi una sede dogmatica.
Torniamo al punto di partenza. Società docile, dissenso inesistente, opinione pubblica senza strumenti per "formarsi". C'è da sperare in una "mutazione" generazionale che arrivi quanto prima.
È disarmante perché è veramente finito un ciclo.
I ragazzi e le ragazze con cui a volte ho discussioni non amano né il dissenso, né visioni progressiste. È già un mutamento. Penso che Gramsci sia ancora importante e attuale: è un mutamento di egemonia.
La cultura egemonica politica non è quella progressista quella radicale o di sinistra. Non lo è, si tratta di prepararsi ad un lungo periodo di difficile dialogo e accettazione della realtà usando quegli strumenti che si sono sempre usati nelle democrazie: giornali, movimenti, parlamento.... Non credo ad una breve durata. Questo è un mutamento molto molto profondo.
(Intervista tratta dal gionale Liberazione on-line [agosto 2008])
Nadia Urbinati è docente di Teoria Politica alla Columbia University di New York.
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