CONEY ISLAND
Rachel Trezise
Al banco dell'immigrazione c'erano venti persone davanti a Meaghan. I suoi occhi freddi, resi più crudeli dal kajal sbavato tutt'intorno, vagavano disperati per l'aeroporto. Un uomo asiatico all'inizio della coda discuteva di carne di capra con la donna dietro il vetro. Dopo un po' fu scortato in un ufficio per un interrogatorio e Meaghan si sentì morire. Ma la coda incominciò a muoversi in fretta e lei decise che sarebbe andato tutto bene, il suo passaporto era legale dopotutto, e da quel che ne sapeva, la valigia di pelle che stringeva con le dita dalle unghie rosicchiate, azzurrognole, non era stata aperta. «Non devi dirgli che incontri qualcuno» aveva detto Denny. «Non dire niente. Sei in vacanza. E mettiti un po' di quel cazzo di trucco così sembri una ragazza in vacanza. Se ti beccano sei morta, May.»
Dalle finestre del terminal il sole picchiava sulla pista come un rullo di tamburo. Era un ottobre molto diverso da quello che aveva lasciato in Gran Bretagna. Là prometteva solo nevischio e un Natale senza carta crespa o mandarini. Nei bagni delle donne c'erano dei fori nelle porte grossi almeno cinque centimetri. Chiunque poteva guardare dentro e non c'era nessuno cui affidare la valigia, così la lasciò sulle piastrelle magnolia, sbirciando sospettosa la custode grassa nello specchio pieno di crepe per controllare che non se la fregasse o, peggio ancora, non si voltasse a guardare lei. La donna delle pulizie disinfettava i lavandini di ceramica svogliatamente, le trecce spesse che le dondolavano sulle spalle. Era nera, non color rame come Denny, proprio nera
come i ritratti dei minatori sulle pareti della Cymmer School. Il ciclo le era arrivato in anticipo per lo stress di quella missione illegale e internazionale. Infilò uno spesso strato di ruvida carta igienica color crema nelle mutande che erano già incrostate di sangue secco, marrone, sperando che potesse in qualche modo assorbire il pungente odore di pesce che il suo corpo riusciva a emettere e che la sorprendeva sempre. Esitando, smise di dare la colpa del suo mal di pancia al cibo dell'Air India.
Aveva diciassette anni ed era una ragazza piccola, minuta come un fiammifero. «C'è più grasso sulla zampa di un passerotto» le diceva sempre suo padre. Era una bionda naturale (ma non nel senso che una bionda naturale è meglio di una bionda da suicidio, perché aveva capito che una donna dagli occhi scuri e dall'aria esotica può essere una bionda da suicidio, ma una bionda naturale può essere solo pallida e strana, ordinaria nel migliore dei casi. Sull'aereo avrebbe voluto chiedere alla hostess un whisky perché desiderava far roteare il ghiaccio nel bicchiere, come faceva Denny quando rientrava la sera. Mentre la donna avanzava altezzosa con il carrello, Meaghan era incerta se andare fino in fondo con la sua richiesta o lasciar perdere e chiedere un succo di frutta. Una volta, dopo una vacanza con tutta la famiglia a Benidorm, sua madre aveva suggerito a Meaghan di fare domanda per diventare hostess di volo; era una carriera eccitante, da jet-set. «Di sicuro il look ce l'hai» aveva detto. Quel ricordo la riempì di disprezzo per sua madre e ordinò il whisky.
«Scotch. Per favore» disse decisa, anche se la donna stava già per prenderle una bibita. Si fermò con la mano in aria e poi, come ricordando che il cliente ha sempre ragione, sorrise e versò il superalcolico. Quel dettaglio convinse definitivamente Meaghan che era davvero un lavoro schifoso. Sarà stato eccitante farsi servire da una hostess tutta agghindata, con un bel paio di tette, ma essere quella che serviva era una cazzo di palla.
Nel juke-box febbrile che aveva in testa c'era Coming to America di Neil Diamond, la tastiera più potente di quanto fosse mai stata sul giradischi sfigato di suo padre, come se un bambino maldestro picchiasse sui tasti con le dita appiccicose. Per un attimo detestò tutto quanto: l'aereo che le aveva fatto venire il mal di pancia e ancora di più Denny per averglielo fatto prendere. Era nervosa per il lungo volo e per la destinazione ma non l'avrebbe mai ammesso, e quel mattino, quando lui l'aveva lasciata all'aeroporto di Cardiff, aveva detto: «Domani ci vediamo dall'altra parte del mondo». Le era sembrata una frase acuta, romantica, ma Denny le aveva risposto: «Sii seria, May. È una cosa seria, è lavoro», prima di baciarla distrattamente sulla fronte pallida. Dal finestrino vedeva soltanto una nebbiolina viscosa, eppure si aspettava di scorgere da un momento all'alto la Statua della Libertà, come era successo tanto tempo prima a tutti quegli irlandesi stremati. La cosa più alta di Porth era il decrepito edificio a tre piani della Corona Pop Factory. Era la città che segnava l'inizio della Rhondda Valley, una valle di miniere che stavano chiudendo e di uomini disperati, senza lavoro. Niente a che vedere con l'America e tanto meno con New York, forse più con il Selvaggio West, vecchi ubriachi fradici con la barba di giorni che litigavano per le strade, il blues che riecheggiava dagli sfiatatoi dei bar. Ironia della sorte, Jack Daniel, l'uomo che aveva dato così orgogliosamente il suo nome alla più famosa miscela del Tennessee, era originario di Treorchy, un po' più all'interno della vallata, ma allora lei non lo sapeva. Vivere in un posto dove il mondo era qualcosa che succedeva da un'altra parte, senza uscirne quasi mai, significava invariabilmente che quell'altrove era Manhattan, lo sfondo di milioni, trilioni di film, lo sfondo di una vita come si deve, una vita vera. Ed era lì che stava andando, con tutti i suoi trentotto chili di peso, da sola. Avrebbe voluto accucciarsi sulle fresche piastrelle bianche sotto il lavandino e piangere tutte le lacrime disperate che le si stavano gonfiando in gola come l'acqua di una diga. Ma non era possibile. Ce n'era solo una, di possibilità: lasciarsi alle spalle il Jfk e mettere piede in America come se quel cazzo di paese fosse roba sua.
“Dove devi andare, dolcezza?” L'uomo con la faccia di cuoio al volante del taxi giallo richiuse il suo spesso giornale.
Non sapeva di poter essere descritta come una cosa dolce, ma sapeva bene di essere l'unica persona nell'auto, così disse: «Avenue of the Americas», e si tenne più vicina la valigia, stringendola al petto come un orsetto di peluche.
“Signorina” disse l'uomo, gli occhi raggrinziti dal sole che la puntavano nello specchietto retrovisore, “Avenue of Americas è al centro di New Yawk. Se vuoi che arrivi a Manhattan bisogna pagare il pedaggio. Devi dirmi anche la perpendicolare. È una strada lunga, quella lì.”
“È al numero milleduecentoundici.”
“Ripeti un po'” fece lui.
“Uno due uno uno?” disse Meaghan.
“Così va bene, signorina.” Entrarono in città, accompagnati solo dal ritmo della musica che usciva dalle altre macchine. Durante il percorso il traffico cominciò ad aumentare intorno a loro, finché il taxi fu solo uno in mezzo ai tanti, in un'eterna gara tra calabroni che si superavano e si tagliavano la strada senza vincere nessun premio. Il dito medio del tassista era piantato dritto in aria, le imprecazioni gli rotolavano dalla bocca come piselli. In un'ora Meaghan aveva imparato undici parolacce nuove. “Somaro” era la sua preferita, perché era scherzosa e innocua. Avrebbe potuto chiamare Denny somaro la prossima volta che le avesse fatto una pernacchia sulla pancia ricoperta di nei. Appoggiò la guancia sul vetro tiepido del finestrino e chiuse gli occhi, immaginando le dita di Denny sulle sue grandi labbra. Formava una V con l'indice e il medio e poi la sfregava delicatamente finché si inumidiva. A volte la baciava lì. A lei piaceva leccargli la punta delle dita. Alla scuola elementare la maestra aveva raccontato che i neri e i bianchi erano uguali, che venivano tutti dall'Africa, dove c'era un lago in cui tutti si lavavano per diventare bianchi. Erano rimasti neri solo quelli che erano arrivati quando l'acqua miracolosa si era già prosciugata, e si erano lasciati cadere in ginocchio per lo sconforto, così le palme delle mani e le piante dei piedi erano diventate chiare. A Denny quella storia non piaceva, ma suo padre era davvero nato in Africa, in un posto che iniziava con la N. “I bianchi e i neri non sono mica uguali. May, certe volte non capisci proprio un cazzo” diceva, ma a lei piaceva leccare i punti in cui la tonalità della sua pelle cambiava, come se le parti scure fossero cioccolato al latte che non si sarebbe esaurito mai. Le piaceva quando lui la toccava così, e solo al pensiero si sentiva le farfalle nella pancia, appena sopra l'ombelico. Però due volte l'aveva presa da dietro, e lei aveva sperato di essersi pulita bene l'ultima volta che era andata in bagno. Non aveva mai pensato a quella parte del corpo come a qualcosa di sessuale, era solo utile, ma aveva capito che era pulita quando lui si era drizzato in ginocchio a guardarla e aveva detto: »Mmm piccola. un buco stretto come questo vale il tuo peso in platino».
Stavano insieme da cinque settimane. Il giovedì sera – aveva iniziato la quarta superiore da pochi giorni – aveva preso un treno per Cardiff all'ora di punta invece di tornare a casa a piedi con Linda. II suo malconcio ombrello blu lottava contro il vento forte, la borsa di scuola puzzava sempre di pioggia. Era seduta alla stazione dei bus del National Express e aspettava la coincidenza per London Bridge, con le gambe nude che pungevano sotto l'orlo della minigonna scozzese. Le insegne al neon dei pub su Mary Street si unirono in un ammasso sfocato quando i suoi occhi incominciarono a lacrimare per il freddo. Sfogliò distrattamente il quaderno di biologia, chiedendosi a cosa le sarebbero serviti gli appunti sulla fotosintesi tra le strade della grande città fumosa.
La scenata familiare da cui stava fuggendo non era dovuta solo ai suoi nuovi buchi nelle orecchie; era proprio come quando sfili un bastoncino durante una partita di Shanghai e tutti gli altri rotolano giù. Da mesi sua madre era sempre più gelosa di lei, era innegabile, anche se le sembrava assurdo. Suo padre aveva perso il lavoro alla fabbrica di biancheria intima e ora, a quanto pareva, passava tutto il suo tempo al Black Rock. I soldi erano pochi e sua madre voleva che si iscrivesse al corso per parrucchieri al Pontypridd Tech, ma Linda non ci sarebbe andata, e durante l'estate Meaghan aveva deciso che voleva diventare chirurgo veterinario, cioè che avrebbe continuato gli studi, cosa che sua madre non aveva fatto e non apprezzava. Il sabato precedente Meaghan era andata alla gioielleria su Hannah Street con Linda, e aveva scelto un paio di orecchini dalle scatole imbottite di corone nella vetrinetta. Al ritorno le sembrava di danzare sulla scorciatoia dietro la Coop, come se fosse sulla passerella dì una sfilata. Si sentiva affascinante, matura. E non le aveva nemmeno fatto male. Ma in casa, invece di meravigliarsi per quella novità, sua madre le aveva afferrato le orecchie strappandole via un cerchietto, e l'aveva chiamata “piccola troia” più volte, come in preda a un delirio, con il viso porpora dalla rabbia. Con gli occhi color ardesia, ne aveva approfittato per rimproverarla dei bottiglioni di sidro vuoti che aveva trovato in fondo al giardino e del succhiotto della forma e delle dimensioni di una farfalla sotto il colletto dell'uniforme di scuola. All'inizio sua sorella Rhian, che aveva tredici anni, l'aveva difesa, sostenendo che anche le sue compagne di classe avevano gli orecchini, e più grossi, ma dopo un po' aveva decisamente preso le parti dì sua madre, e la litigata era finita sul pavimento della camera da letto, con Meaghan accucciata vicino ai drappeggi verde acido del copriletto, con le sue parenti più strette che la colpivano sugli arti rannicchiati. Non le piaceva nemmeno, il sidro.
II trambusto di Central Square diminuì finché Meaghan non si ritrovò con altre due persone soltanto, e la luce del sole stava calando in fretta. La gente sgattaiolava via dalla stazione c scompariva nei crepacci neri della città, i volti privi di espressione. Quando l'autobus arrivò non ebbe il coraggio di salirci. Per tutto il giorno aveva pensato che sarebbe arrivata a Piccadilly Circus entro la mezzanotte, a un intero paese di distanza da sua madre, e aveva persino comprato il biglietto. Fece roteare gli anellini che al mattino aveva infilato di nuovo nei buchi che si stavano cicatrizzando, ma nemmeno la sensazione confortante del metallo prezioso le diede la forza di alzarsi. Aveva i nervi a pezzi, e Londra le sembrava l'idea più stupida che le fosse mai venuta in mente. Le altre due persone stavano già aprendo il South Wales Echo ai lati opposti dell'autobus. L'uomo anziano al volante scrollò le spalle nel blazer bordeaux, ma Meaghan si voltò verso l'orario sulla parete dietro di lei, come se cercasse un'altra meta. E comunque doveva andare per forza da qualche parte, non poteva tornare a Porch dopo aver speso i soldi del pranzo di tutta la settimana. La portiera si chiuse con un tonfo e l'autobus resuscitò con uno sbuffo, come se qualcuno gli avesse fatto la respirazione bocca a bocca. Guardò il retro dell'enorme veicolo bianco che scivolava pian piano fuori dal deposito, ma starnutì mentre voltava l'angolo. Quando riaprì gli occhi, con la saliva fredda nel pugno, l'autobus era sparito. Al suo posto era parcheggiata un'auto sportiva rossa con il motore acceso, e al finestrino elettrico che si stava abbassando l'aspettava il sorriso dal dente d'oro di Denny.
Capì subito che le piaceva, perché era di Cardiff e perché non aveva mai visto degli occhi così. Anche se aveva ventinove anni e sembrava persino più vecchio. Le sue pupille erano di un marrone morbido, femminile, e il bianco non era affatto bianco ma del colore polveroso dei tasti di un pianoforte.
«Ehi ragazzina, cosa ci fai qui con 'sta pioggia?» le aveva detto in tono pratico, e lei non aveva risposto, si era limitata a un debole sorriso. La macchina si allontanò e Meaghan si pentì di non avergli parlato, ma nel giro di pochi minuti era ricomparsa con un cheeseburger, patatine fritte e un doughnut alla cannella e noce moscata in un sacchetto di carta del Burger King della staziona «Posso portarti da qualche parte a mangiare?» le disse. Mentre si chinava per salire sull'auto bassa, le passarono nella testa cose spiacevoli tipo omicidi, ma il pensiero di sua madre, gonfia e con gli occhi a fessura sulla soglia di casa, era ancora peggio. «Come ti chiami?» le chiese.
«Meaghan» fece lei brusca, per sembrare forte. Era molto brava a dare l'impressione di essere sicura di sé solo con la voce. Il fatto di essere così minuta la rendeva il bersaglio preferito dei bulletti della scuola, e aveva imparato a parlare con una disinvoltura che spaventava le persone.
«May» disse lui «io sono Denny», e da allora nessuno l'aveva più chiamata Meaghan.
Andarono a casa sua, in una parte della città che non riconosceva. «Roath« la chiamava lui, che faceva rima, ironia della sorte, con Porth. Era buio quando accostò, e sembrava di essere in una strada qualsiasi della Rhondda Valley, le case in file azzurrognole e il marciapiede illuminato dalla luce arancio dei lampioni ronzanti. In soggiorno c'era una stampa in bianco e nero di un grattacielo, mentre le uniche immagini a casa di Meaghan erano i poster di Jason Donovan in camera sua. Era la prima volta che entrava nell'appartamento di un uomo che viveva da solo. Si sedette educatamente su una poltrona di pelle e mangiò educatamente, un boccone dopo l'altro. Mandò giù persino i cetrioli grinzosi a fettine, tappandosi il naso per non sentirne il gusto. Denny era al telefono e parlava principalmente di un'auto che voleva, e a volte diceva un «ecco» che le sembrava un'abbreviazione per qualcosa che voleva tenerle nascosto. Quando entrambi completarono le loro attività e non rimase nient'altro da fare che guardarsi, lui disse: «Mi sembri nei guai May, quindi rimani qui a dormire se vuoi. Lei gli lanciò uno sguardo vacuo, così lui si spiegò meglio. «Voglio dire sul divano. Il mio letto non lo do a nessuno.»
Meaghan rimase, ma non riuscì a dormire per quasi tutta la notte. Le ore erano punteggiate da pensieri di Rhian costretta a spiegare al professore che sua sorella non era rientrata a casa la sera prima. Quando si svegliò, alle dieci, Denny non c'era, ma vide una banconota da venti sterline spiegazzata come carta straccia sull'angolo del tavolino vicino al divano. Andò alla finestra e sbirciò dalle persiane la strada sconosciuta. Dalla parte opposta, vicino a una vetrina piena di animali esotici, c'era un negozio di tatuaggi con dettagliati disegni di draghi sui vetri opachi. Non voleva andarsene di lì e ripercorrere il tragitto verso il centro nella sua sudaticcia uniforme scolastica, la gente avrebbe di sicuro pensato che fosse una ragazzina problematica, che marinava la scuola. Sapeva anche che, se fosse rimasta, sua madre non l'avrebbe mai trovata, non sarebbe mai riuscita a rintracciarla a quell'indirizzo, così tornò al divano e dormì ancora un po' dopo essere andata in cucina a rubare un Kit Kat da una scatola di biscotti vicino al bollitore elettrico e aver fatto altre due puntatine alla finestra; i serpenti nella vetrina del negozio di animali le sembrarono meno strani e più eccitanti. Quando Denny ritornò, aspettandosi di non rivedere più la ragazza né i soldi, li trovò entrambi, come soprammobili, allo stesso posto.
Meaghan perse la verginità quella notte. Dopo un altro cheeseburger offerto da Denny, questa volta senza il doughnut per dessert, si sedettero sul divano a guardare un programma di quiz alla tele, passandosi uno spinello come se fosse un oggetto pesante che nessuno dei due voleva reggere per troppo tempo. Chiacchierarono di chimica, l'unica materia che aveva passato, le spiegò Denny, parlando piano, con disinvoltura; non ci provava troppo esplicitamente, come facevano i ragazzi della sua età che allungavano le mani prima di finire una frase. Era completamente fumata quando Denny la portò in camera da letto e la spogliò. Gli ci vollero quarantacinque minuti in tutto per penetrarla, arcuando ripetutamente il corpo flessuoso contro la sua pelle rosa, elastica, la testa rasata dura e levigata contro il suo viso. Quando si aprì non le fece male, il corpo esausto sembrava solo inondato da una sensazione paralizzante, una specie di formicolio, e scivolò facilmente nel sonno, nuda, sul piumino umido, appiccicoso.
Il giorno dopo era sabato e lui la portò in città a comprare un intero guardaroba nuovo da Dorothy Perkins su Queen Street, persino raffinate mutandine francesi di satin e reggiseni di pizzo imbottiti, molto diversi da quelli che faceva suo padre in fabbrica. Sfilava banconote multicolori da un rotolo di soldi che teneva nella tasca dei jeans. Meaghan non si era mai immaginata che la vita potesse essere così facile senza la guida dei genitori. Aveva la vaga sensazione di aver subito una specie di perdita ma non immaginava che Denny potesse c'entrare. Era il suo soccorritore sexy e ricco, e lei era già innamorata.
“Sono quarantacinque dollari” disse il tassista, facendo stridere le gomme contro il marciapiede, mentre una donna anziana con un barboncino in miniatura si spostava di scatto per evitarli. «E la mancia, dolcezza.» Meaghan infilò le dita nella coppa del reggiseno dove la pelle era umida ed estrasse una banconota da cento dollari. Sembrava falsa, come quelle dei giochi da tavolo, la frase In God We Trust stampata sulla parte verde. «Grazie» disse l'uomo, prendendo i soldi con le dita a forbice, «e buona giornata». Meaghan rimase sul marciapiede con la sua preziosa valigia e lo guardò scomparire in una delle quattro corsie intasate da macchine identiche. Aveva temuto che qualche newyorkese dalla faccia dura e dalla pelle spessa capisse al volo che era una semplice ragazzina di campagna e la spennasse prima ancora che uscisse dall'aeroporto. Quella paura si era realizzata pienamente.
All'hotel la receptionist sorrise senza guardarla, la linea del rossetto rosa perla troppo marcata, tanto che le sue labbra sembravano gonfie, come se l'avesse punta un insetto; le ragazze che a volte si riunivano nel corridoio di Denny avevano le labbra così, ma naturali. “Posso aiutarla?” disse, senza nemmeno dischiuderle.
«Meaghan Davies» fece lei «dal Galles. Ho una camera riservata.»
«Vuole dire che ha una prenotazione, signorina, nessun problema.» Schiacciò distrattamente un campanello sul bancone di marmo. «Le serve una mano, cara» disse, facendo un cenno a un ragazzo che camminava a piccoli passi sul pavimento lucido dell'atrio, color olio. Era in giacca rossa e pantaloni bianchi, sembrava uno di quegli animatori dei villaggi vacanze a Barry Island. Fece un mezzo inchino a Meaghan e si protese per prenderle la valigia. Meaghan aumentò subito la presa, e si ritrovarono entrambi a strattonare il manico, lei che digrignava i denti, finché il ragazzo indietreggiò di scatto e, in preda al panico, guardò la receptionist che alzò gli occhi dalla lima per le unghie.
“Vuole che le porti la valigia o no, signorina?” disse, annoiata.
Meaghan seguì il facchino fino all'ascensore e guardò i piani evaporare sotto di lei. Alla porta, il ragazzo infilò la sua tessera nella fessura ed entrò in fretta nella stanza per aprirle le tende. Appoggiò la valigia sul letto con eccessiva premura e restò immobile sulla soglia.
«Quanto?» chiese Maeghan.
«Quanto vuole.»
Prese cinque dollari dall'umido rotolo di banconote e li allungò nella mano impaziente del ragazzo. Vedendo il sorriso che si formava sul suo viso capi di avergli dato troppo e lo congedò con un cenno deluso. Se Denny fosse stato lì, avrebbe riso di lei o bestemmiato.
Si sedette pian piano sul letto, accanto alla valigia, le gambe accavallate scomodamente, e la fissò guardinga, quasi potesse esplodere e ustionarle il viso, come grasso da una padella sfrigolante. Il profilo bianco lungo i bordi divenne beige, e le parole della canzone di Sinatra, making it there, making it anywhere , continuarono a riecheggiare finché non senti più il traffico da fuori. Dopo un'ora, in un angolo sfocato della sua visuale, notò una pianta di papiro e incominciò a sperare che fosse vera.
Non avrebbe voluto lasciare l'hotel, ma doveva andare in farmacia. Percorse il marciapiede della Quarantaduesima tenendo basso il mento appuntito, gli occhi che sfrecciavano da una parte o dall'altra come la sua vecchia bambola della Donna Bionica quando schiacciava un tasto sulla schiena di plastica. Era come se temesse di farsi male solo posando lo sguardo su un qualsiasi oggetto, e Midtown Manhattan sembrava pervasa da un ronzio cacofonico. Camminava così in fretta che superò due farmacie senza accorgersene, chiedendosi se anche in America si chiamassero tamponi, con le cosce tanto sudate che i jeans si appiccicavano e i follicoli le prudevano. Dopo aver percorso tre isolati dalle porte girevoli dell'hotel, si era adattata al caldo e alla folla intorno a lei. Un uomo cercò di tirarla da parte per venderle il suo orologio e lei sgusciò via fingendo di non vederlo. Era una zona squallida, pericolosa. Le prostitute stavano appoggiate ai muri ad accarezzarsi piano le calze a rete, su e giù. Le insegne al neon pubblicizzavano i Live Sex Show e gruppetti di uomini sporchi mostravano i denti marci. Persino i graffiti la intimorivano: erano mascolini, misteriosi e violenti, molto diversi dalle parole infantili scarabocchiate dietro la Coop. Guardò il cielo sperando che le avrebbe suggerito una via di fuga, e vide un'insegna della Coca-Cola sul Iato di un palazzo, con la bottiglia verde che si inclinava e si raddrizzava di continuo versando il suo contenuto zuccheroso. All'improvviso si fermò perché riconobbe quella zona.
Ogni primo dell'anno lei e Rhian si sedevano sul divano foderato di velluto, nauseate dal tacchino, le vacanze sempre più noiose, mentre un conduttore mostrava i festeggiamenti di Capodanno da tutto il mondo. A Trafalgar gli ubriachi saltavano nelle fontane gelide, mentre qui, a Times Square, la gente veniva schiacciata. Piroettò stupita per guardare le pubblicità sopra di lei. Uno dei barboni lanciò qualcosa nel fuoco che ardeva nel bidone metallico, e per un attimo la cenere svolazzò nell'aria come neve. Rhian non ci avrebbe creduto. Mentre guardavano insieme la tele, a Porth, le era sembrato che quelle persone di tutti i colori che vivevano tra grattacieli altissimi non avessero niente a che fare con la loro vita. Meaghan non si sarebbe mai immaginata di avere un ragazzo nero o di andare a New York, e aveva comprato il biglietto dell'autobus per Londra solo perché era quello che facevano tutti i fuggiaschi della soap Coronation Street. Fin da piccola si era aspettata soltanto di passare le giornate a schivare la pioggia, e persino nelle sue fantasticherie più sfrenate si vedeva al massimo a tagliare le unghie ai cani o a castrare gatti randagi. Rendersi complice di un crimine non era mai rientrato nei suoi progetti. Le sembrava che le persone incominciassero a notarla e si affrettò a ripercorrere la strada da cui era venuta. Uscendo da una farmacia vicino all'hotel superò il bancone di un Dunkin' Donuts e stava contemplando una ragazza della sua età che ci lavorava, pensando che avrebbe potuto diventare la Madonna del futuro, quando il fastidioso sibilo di vapore che si levava da un tombino la fece voltare. Dall'altra parte della strada un branco di persone, una mandria con grossi toraci, braccia, gambe ma senza tratti distinti, uscì da una stazione marciando verso di lei, incurante del semaforo pedonale, come un'enorme massa di carne in movimento. Ai loro piedi, sul marciapiede, un ragazzo era inginocchiato vicino al suo amico ricoperto di sangue. «Aiutatemi.» Meaghan leggeva le parole dalle sue labbra, in lontananza. «Aiutateci, c'è bisogno di un medico.» Nessuno abbassava Io sguardo. Nessuno li aiutava. E Meaghan si voltò e proseguì verso l'hotel, con l'odore della città – cibo dolciastro e spazzatura marcia – intrappolato in bocca.
II giorno dopo, New York si svegliò con la colonna sonora di un film, sirene della polizia e pompieri che correvano verso le disgrazie degli uomini e della natura, netturbini che pulivano, fattorini della FedEx che facevano le consegne. Meaghan si svegliò di soprassalto e si mise a frugare nella valigia con cui aveva condiviso il letto, i capelli ingarbugliati in fini nodi timidi, gialli. Nella luce fioca tastò i pacchetti di plastica dei soldi, allineati come mattoni sotto le magliette di corone. Si rilassò. Studiò la mappa che le aveva dato Denny per pianificare il suo viaggio. Prendi il treno sulla Quarantaduesima, la linea F, quella arancione, e scendi a Stillwell Avenue. «Sarà la cosa più facile che tu abbia mai fatto» le aveva detto, e Meaghan si ricordava che non le era piaciuta quella frase al passato, come se consegnare soldi fosse l'unico motivo per cui aveva bisogno di lei. Per mezzo secondo prese in considerazione l'idea di tenersi la valigia, ma non avrebbe saputo dove andare, né come cambiare le sterline in dollari. Fuori c'era ancora un gran caldo per essere ottobre. Meaghan fece quello che un turista non dovrebbe mai fare a New York. Guardò in alto ancora una volta. Il sole era oscurato da un grattacielo – pensò che potesse essere l'Empire State Building – e il ciclo era azzurro. In metropolitana faceva fresco. I pacchi di copie del New York Times erano impilati all'entrata delle edicole che vendevano dolci invece del cioccolato e bagels invece dei panini. Non era mai stata in metropolitana, nemmeno a Londra. La gita scolastica annuale al Museo delle cere di Madama Tussaud si era fatta con un autobus a cinquantotto posti da Ponrypridd, che l'aveva lasciata dietro casa un venerdì sera. Si mise in coda per il biglietto fino a Brooklyn, con la valigia che sembrava più pesante ogni minuto che passava. Dei ragazzi neri e portoricani si scambiavano biglietti accovacciati a terra; uno le si avvicinò tanto che se lo ritrovò a un paio di centimetri dal naso.
«Perché non compri uno dei miei, ragazzina?» Fletté i muscoli delle spalle, che spuntarono dorati dalla canottiera da basket. «Ti costa cinquanta centesimi, non i due dollari che ti chiede quella stronza negra dietro il vetro.» A Meaghan piaceva quell'odore sano, sudato, del ragazzo, e cercò di farglielo capire squadrandolo con interesse. Lui si mise a parlare con gli altri in uno spagnolo a mitraglia, ma senza staccare gli occhi da uno dei suoi orecchini. Meaghan sapeva bene cosa si provava a farseli strappare, così si voltò verso la donna nel cubicolo fingendo di non averlo sentito. «Stronza di inglese del cazzo» disse il tizio, come se ce l'avesse stampato in fronte a mo' di tatuaggio, e si allontanò scalciando cacche di ratto sul binario sotto di lui.
Vicino a Greenwood Cemetery, dove il treno saliva in superficie e il calore incominciava a colpire i finestrini, un'adolescente ispanica ululava seguendo il ritmo della musica negli auricolari, con gli occhi strizzati dalla concentrazione. Meaghan era l'unica bianca rimasta sul treno. Si mise a leggere le pubblicità che aveva di fronte. Una offriva mille dollari a chiunque fosse stato testimone dell'omicidio di un poliziotto, la scritta a lettere maiuscole, nera, sullo sfondo bianco chiazzato da finte macchie di sangue.
Incominciò a chiedersi se Denny avesse mai ucciso un poliziotto.
La vita a Roath era diventata routine come il suo orario di scuola. Denny non c'era praticamente mai. All'inizio aveva pensato che lavorasse in una banca perché maneggiava i soldi come se non finissero mai, sparpagliando spiccioli per tutta la casa come bottoni inutili. Suo zio, che aveva lavorato alla Zecca Reale di Llantrisant, non raccoglieva mai le monete da terra perché al lavoro era vietato, e gradualmente ne aveva dimenticato il valore. Ma un giorno si era resa conto che Denny usciva sempre di casa in vestiti casual, jeans e camicie di cotone che probabilmente costavano più di un completo da lavoro. Quando lui non c'era lei si metteva a guardare Mtv mangiando Mars, con le gambe che penzolavano dal bracciolo del divano. Una volta era così annoiata che pensò di chiedere al negozio davanti a casa quanto costava farsi tatuare uno di quei grossi draghi cinesi sul fianco, per fare una sorpresa a Denny. Quando c'era, gli preparava tè e sandwich al pollo. «Un giorno ti deciderai ad alzare il tuo bel culetto?» le aveva detto, apparentemente senza motivo, un lunedì sera burrascoso, e allora lei per stupirlo aveva preparato i panini e il tè, premendo la bustina contro il lato della tazza finché le nuvole di fluido rossiccio si erano gonfiate come tempera da un pennello immerso nell'acquaragia. Denny non la ringraziò né si lamentò mai, così lei ripeteva quel rituale tre volte la settimana, sempre pollo freddo e tè dolce. Ogni sabato c'erano settanta, ottanta sterline sul tavolo e Denny le diceva: “Comprati qualcosa di nero”, o “Comprati una cosina rossa”, oppure “Più frivola questa settimana, May, prenditi un qualcosa con dei cazzo di fiori, sembri già vecchia troppo presto”.
La terza settimana c'era stato un allarme bomba dell'Ira su Western Avenue e Meaghan era rientrata presto e aveva trovato la casa piena di donne asiatiche. In seguito Denny le aveva detto che erano bengalesi. Quando Meaghan aveva aperto la porta, le donne stavano ridendo, vestite in eleganti tailleur pantalone con le spalle imbottite. Avevano rossetti opachi e fondotinta costosi ma i loro occhi erano tristi, come se dovessero andare a un funerale e il fascino fosse un obbligo, non un piacere. Denny era al centro della stanza e loro lo fissavano con un misto di ammirazione e paura.
«Guardate, questa è la mia piccola» disse mettendole le mani sulle spalle, come se fosse sua figlia. «La mia piccola May.» Le donne la osservarono con tiepida simpatia.
Quella notte era a letto con addosso la sua cosina rossa quando aveva sentito delle voci concitate al piano di sotto.
«Non può più lavorare, Den» stava dicendo qualcuno «è al quarto mese.»
«Metà delle mie ragazze lavora fino al quarto, quinto, settimo mese.» Quello era Denny, che ridacchiava.
«Ma così non va. Voglio prendermi cura di lei come si deve, e i negozi in città hanno le telecamere e tutta quella merda ormai, e io non riesco a fare soldi.»
Per un po' ci fu un silenzio palpitante. Poi la voce di Denny lo spezzò con freddezza. Sembrava sua madre.
«Per come la vedo io, Fab, tu non lavori, la tua ragazza non lavora, non hai bisogno di nessuna pistola. La lasci qui e mi paghi una sterlina alla settimana coi soldi del sussidio. Magari pensi che sono un cazzo di pagliaccio. Ti sembro un cazzo di pagliaccio?»
Più o meno un minuto dopo, la porta si chiuse con violenza e tutte le altre porte della casa tremarono. Meaghan pensò che Denny fosse uscito con la persona che parlava con lui, perché sentì due auto che venivano messe in moto. Aspettò sei o sette minuti, guardando i numeri verdi che cambiavano sul videoregistratore digitale, poi scese in punta di piedi, saltando l'ultimo gradino perché scricchiolava. C'era una pistola sul tavolo, così piccola e lucida che pensò fosse un giocattolo. Denny era stravaccato sul divano, a gambe aperte, con la lampada che faceva luccicare il metallo nella bocca spalancata in un ghigno.
Un ragazzo e una ragazza poco più giovani di Meaghan si stavano sbaciucchiando in fondo alla carrozza sferragliante, e lei non riusciva a staccare gli occhi da loro. Il modo in cui le dita del ragazzo danzavano con naturalezza, pian piano, sul sedile di plastica alle sue spalle e i guizzi delle loro lingue porpora la fecero sentire abbandonata. Fissò la sciarpa a righe della ragazza. Aveva gli stessi colori della sua cravatta di scuola, e si chiese se Linda fosse rimasta con Tomos, il ragazzo che le aveva morsicato il collo, o se fosse passata a James, che si sedeva sempre all'inizio della mensa e i cui occhi sembravano muoversi tra i tavoli in mezzo all'odore di verdure bruciate e disinfettante. Per la prima volta sentì la mancanza della Rhondda Valley e ccrcò di scacciare quella sensazione deprimente ripetendosi che era fortunata, che si era guadagnata la libertà, ma stringeva la valigia di pelle contro il petto come se fosse un essere umano e si rese conto che l'unica cosa che aveva erano i soldi.
La Coney Island autentica era un luna park sulla costa di Brooklyn, circondata su tre lati dall'Oceano Atlantico. Le giostre erano chiuse ma l'odore acre del cibo – pretzel, hot-dog e zucchero filato – era ancora dappertutto. Passeggiò sul molo ampio in quella direzione, la giacca troppo pesante per la giornata luminosa, il sole che rendeva la sabbia di Brighton Beach incandescente. Sulle panchine davanti alle bodegas erano sedute signore eccentriche che parlavano in russo, con abiti e cappelli neri e terrier dal muso schiacciato vicino ai tacchi. Gli uomini erano impegnati in gare di scacchi che andavano avanti tutto l'anno. Mentre avanzava verso l'entrata dietro l'acquario notò un'immagine di Ronald Reagan tagliata malamente dal National Enquirer e appiccicata con il nastro adesivo su una parete del tiro al bersaglio. Sembrava tutto troppo tranquillo.
La copia di Coney Island era un luna park a Porthcawl, dove uno studente della sua scuola, più giovane di lei, era morto sugli scivoli ad acqua per un difetto dell'impianto. A quel punto lei e Rhian non ci andavano già più da anni, ma quando i suoi nonni c'erano ancora ce le portavano ogni bank holiday, e ricordava ancora l'odore forte, salato del mare e delle paratine fritte nelle narici. Adesso non capiva perché una fosse vera e l'altra finta. La Coney Island di New York non era molto diversa da quella gallese. Negli anni venti aveva raggiunto il massimo della raffinatezza, era li che i ricchi andavano a spendere soldi, ma la patina di gloria si era consumata.
Aspettò vicino alla ruota panoramica, come le aveva detto Denny, sbirciando i graffiti colorati tutto intorno al luna park. Dalla cancellata vide passare un uomo con uno stereo portatile sulla spalla e per un istante il luogo si rianimò, ma la musica ben presto svanì e si senti soltanto la brezza e il ronzio di un televisore dimenticato. Nella guardiola del portiere c'era un uomo che la guardava imbronciato, i piccoli occhi penetranti sotto il berretto da baseball, ma quando lei gli restituì lo sguardo lui si voltò. Era lì da dieci minuti quando notò un'altra persona vicino al chiosco della chiromante sprangato, che la fissava con i malconci jeans a sigaretta strappati sulla pelle livida. Meaghan guardò a terra e incominciò a mordersi le unghie, allungando il piede per avvicinare la valigia. Ascoltò attentamente ma non riuscì a sentire le signore che spettegolavano in russo. L'uomo nella guardiola la stava ancora fissando.
Il tempo passava lentamente, ma ben presto vide un altro uomo, un portoricano basso, che fumava con un braccio peloso appoggiato al cancello; il sole si dileguò verso Manhattan e tutto diventò sinistro, gelido, e lei incominciò a sentirsi come Dorothy che si aggira nella Città di Smeraldo quando i Rotanti stanno per attaccare. Alzò il braccio per guardare l'ora, alle undici in punto aveva detto Denny, ma colpì qualcosa di carnoso con il gomito. L'uomo dai capelli grigi accanto a lei indossava un caffettano bianco. Era così alto che si faceva fatica a guardarlo, e lei si fermò al petto, incerta se desiderasse davvero scoprire cos'aveva negli occhi. L'uomo non apri bocca ma si avvicinò, con la pelle spessa, logora, che le sfiorava la peluria bionda sul collo. Sapeva di noce di cocco, un odore che Meaghan detestava. Si scostò, trascinando
sul cemento la valigia, ma altrettanto facilmente lui le scivolò più vicino, toccandola. Lei si irrigidì prima di spostarsi ancora, sicura che la morte fosse vicina; e di tutti i posti del mondo proprio a Coney Island, come il ragazzo della sua scuola. Non avrebbe mai contrabbandato armi dall'America passando dal Canada e tornando a Cardiff sana e salva per raccontarla. La sua vita sarebbe finita in un maledetto luna park.
In un attimo, cinquantamila sterline le sembrarono davvero poche e stava per mollarle all'hippy vicino a lei e mettersi a correre verso l'acqua. L'adrenalina le stava scoppiando nelle vene quando vide Denny che camminava disinvolto verso di lei sul marciapiede che costeggiava la fiera. Se ne accorse anche l'uomo vicino a lei, si scostò e Meaghan vide il suo viso amichevole.
“Sei una ragazza molto, molto fortunata” disse, e intorno a lei gli sconosciuti si allontanarono come corvi. L'uomo fece una risata ambigua e si avviò pian piano, con le mani in tasca. Fu solo in quel momento che Meaghan incominciò a tremare.
“Che succede, May?” disse Denny impaziente, mentre prendeva la valigia e se la gettava allegramente sulla spalla. “Andiamo a comprare un po' di pistole.”
(
Tratto dalla raccolta di racconti Giostre, Puzzle e altre storie , Beit editrice, Trieste, 2008. Traduzione di Gioia Guerzoni.)
Rachel Trezise è nata a Cwmparc, nella Rhondda Valley (Galles) nel 1978 e ha studiato alle università di Glamorgan e di Limerick. Il suo primo romanzo, La mia pelle sporca (2004) l'ha fatta conoscere al pubblico inglese e italiano. Con Giostre, puzzle e altre storie ha vinto il premio Dylan Thomas del 2006. Vive e lavora a Treorchy.
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