SAGARANA: 9 ANNI
IL DILEMMA DELL’ARTISTA
Dal suo primo numero, nei primi mesi del nuovo secolo, e per quasi un decennio ormai, la rivista Sagarana continua a compiere fedelmente la sua missione, quella di rappresentare un pannello della vita culturale contemporanea, soprattutto quella italiana – ora più “mondializzata” che mai, in contrasto con gli ultimi episodi della storia del paese – nell’ambito della letteratura e del pensiero teorico, dell’arte e del cinema sperimentale. Nonostante la sua incessante affermazione, anche a livello internazionale, continuiamo a domandarci a che serve oggi una rivista come Sagarana, quale sia l’essenza della missione a cui facevo riferimento prima.
Credo prima di tutto che serva a bloccare la barbarie, il dilagare dei valori incivili incentivati da un sistematico e implacabile controllo dell’informazione. Serve a far ricordare ai nostri lettori e lettrici “chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno”, nelle parole di Italo Calvino. E poi a non permettere che, dietro il sipario di orrore fatto scendere sul nostro paese smarrito, con le nuove leggi e con il quadro politico che è prevalso, la nostra immagine scompaia e non rimanga davanti ai nostri sguardi increduli nemmeno l’ombra di quello che un giorno siamo stati e che credevamo in qualche modo di essere ancora.
Sappiamo che una pubblicazione culturale come Sagarana, che ora completa nove anni di esistenza, probabilmente non è in grado da sola di creare valori, ma sicuramente può riportare a galla squarci di riflessioni e opere artistiche che rappresentino valori altri e alti e li ripropongano in modo coerente e persistente, ognuno con i suoi strumenti espressivi. La priorità è quella di non permettere che le opere che rispecchiano una sensibilità in controcorrente all’egemonia del male, arrogante e coercitiva diventino invisibili o inaccessibili.
Sagarana è fatta da scrittori e da artisti, e oggi gli artisti italiani, quelli nati in Italia e quelli nati all’estero, si pongono un dilemma: vivendo all’interno di un regime “patrimoniale” e xenofobo, è lecito proseguire con lo sviluppo della propria arte come se la situazione fosse serena e normale? La creazione artistica, di per sé, contribuisce ad un atto di resistenza o al contrario serve come una legittimazione di questo regime, anche se magari è un avallo non desiderato dall’artista? Cosa significa presentare, anche all’estero, un prospetto brillante di una società che in verità si sta comportando in modo ignobile? È lecito offrire al pubblico la dimensione “bella” di un scenario tetro? Non avrebbe l’effetto di “sdoganare” l’orrore? Vale la pena ricordare qui che in Germania, ai tempi del Nazismo, tanti artisti e scrittori hanno sentito di dover abbandonare il proprio paese per poter proseguire la loro opera, e non solo quelli ebrei, ma anche alcuni tedeschi come Thomas Mann e Bertold Brecht.
Riflettiamo un po’ sul concetto di “successo” in un tale ambiente. Più di una volta il Capo di Governo, interrogato su cosa credesse fosse la motivazione di fondo di quelli che lo criticano, rispose: “Sarà invidia del mio successo. I miei oppositori sono solo malati d’invidia”. Successo. Invidia. Due concetti ordinari dei quali si fa uso per delegittimare le critiche e ridurle ad una condizione di mera patologia caratteriale. Resta il fatto però che in questo sistema il “successo” nel senso berlusconiano del termine è profondamente sospetto, sia nell’ambito letterario o in altri ambiti. È impossibile, lucidamente, non collegare il “successo” alla complicità, anche perché senza la “collaborazione” non arriva l’indispensabile beneplacito perché il successo si materializzi.
Quando l’artista vero testimonia questo genere di “successo”, i contratti redditizi, le onorificenze e le pubbliche pacche sulle spalle, la visibilità mediatica, i talk show in seconda serata nelle TV del padrone, non può fare altro che provare una nausea diffusa, come chi è costretto ad aspirare un tanfo dolciastro. Non può non provare vergogna e amarezza, perché in fondo sa che il successo sponsorizzato da tali poteri è una forma di tradimento.
La situazione italiana oggi, da questo punto di vista, è ben diversa da quella di una dittatura militare, come quelle che esistevano durante la mia gioventù in Brasile e in altri paesi del continente sudamericano, perché allora il popolo brasiliano, che non aveva diritto al voto, era una vittima tanto quanto gli artisti e gli intellettuali torturati, esiliati o assassinati. Così eravamo tutti insieme dall’altra parte della barricata, e proprio questa unione alla fine ci ha permesso di ripristinare la democrazia. Oggi in Italia succede invece qualcosa di ancora più perverso e opprimente: il popolo italiano vota e offre il proprio consenso a questa iniquità. Come ha ben osservato Ilvo Diamante su La Repubblica, gli oppositori a questo stato di cose sono già tutti in esilio, perché sono diventati stranieri in patria. E noi artisti, se non altro per semplice senso di decenza, dobbiamo rifiutare questo modello di “patria”. Sarebbe anche lecito non sentirci a nostro agio nel creare opere artistiche e letterarie di valore che arricchiscono culturalmente un periodo della storia in cui la patria si tramuta in anti-patria.
Gli artisti, forse non consapevolmente ma per puro istinto, soffrono in queste circostanza di un’inibizione creativa, e non potrebbe essere diversamente. Mi ricordo bene che dopo la Rivoluzione dei Garofani che ha messo fine alla lunga dittatura di Salazar nel Portogallo, i cassetti erano vuoti, le opere “clandestine” semplicemente non esistevano, non erano mai state scritte, perché da molto tempo la censura implacabile si era trasformata in autocensura. Come qualcuno che cerca di accelerare con il freno a mano tirato, uno sforzo inutile, che non fa avanzare il veicolo e rischia di danneggiarlo. L’autocensura, l’inibizione a cui facevo riferimento, è questo “freno a mano” inconscio.
I partiti che stanno al potere in Italia vorrebbero infantilizzare il popolo, anche o soprattutto quello che li vota, trasformando tutti gli ex-cittadini in comparse di un reality show, in bambini creduloni, consumatori acritici di favole costruite ad hoc per ogni evenienza, come quelle che hanno creato la paranoia del “criminale immigrante”. Bambini manipolabili, che lavorano obbedienti per qualche spicciolo e poi, a casa, si commuovono davanti ai cartoni animati. Bambini sempre in attesa delle spiegazioni, delle ramanzine e degli ordini degli “adulti”. Vogliono forse applicare agli italiani l’ironico consiglio di Cesare Zavattini: “diamo a tutti un cavallino a dondolo”. La mia domanda è: come può creare liberamente l’artista in un tale contesto, dove la realtà della forma – una forma rozza e ipersemplificata – è stata sovrapposta alla realtà del merito? Dove lo sguardo del lettore è stato anch’esso condizionato da questa infantilizzazione forzata, e di conseguenza lo spessore di un’opera non è più percepito come un pregio ma come un intralcio alla sua fruizione?
L’inibizione e il blocco dell’artista, secondo me, avranno un solo modo di essere superati, ed è quello di mettere la creazione al servizio del cambiamento e della denuncia, proprio come hanno fatto in circostanze simili gli scrittori latinoamericani negli anni più bui. Solo così, nel rifiuto ad un potere razzista, pornografico e barbarico, ad un potere che addirittura processa i giornalisti e gli scrittori che ad esso si oppongono richiedendo risarcimenti milionari per intimidirli (e per farli giocare – e perdere – nel proprio terreno di gioco, chiaramente sottomessi alle loro regole) potrà l’artista dei nostri giorni ritrovare, magari potenziati, la motivazione e l’estro creativo. Perché la storia dell’arte insegna, da Goya a Picasso, da Remarque a Cortázar, da Byron a Primo Levi, che bisogna prima di tutto credere nella forza trasformatrice dell’arte e della letteratura e ricordarci che niente è più in grado di nutrire l’artista che una causa giusta e un sentimento forte.
Lucca, 15 Ottobre 2009
Julio Monteiro Martins