LA TERRA DELL'ABBONDANZA
Hilário Franco Júnior
La fains enchace le louf dou bois.
Proverbes français, a cura di Morawski,
n.1000, p.37
Come tutta la società preindustriale, anche quella dell'Occidente medievale cristiano vedeva nella fame una delle minacce più gravi alla propria sopravvivenza. Una minaccia ben concreta, poiché nell'Alto Medioevo i periodi di scarsità alimentare si verificavano con frequenza ed investivano aree più o meno estese. Si conoscono diversi casi di cannibalismo, di antropofagia, di coprofagia, di ingestione di terra, di insetti e di animali immondi, tentativi disperati di sfuggire ai tormenti della fame. Anche dopo l'anno Mille, nonostante il progresso delle tecniche agricole e il miglioramento delle condizioni climatiche, le carestie non scomparvero. È anche vero però che la fame generalizzata che precedentemente colpiva gran parte dell'Europa cristiana aveva lasciato il posto a una fame regionalizzata, che colpiva aree più ristrette.
Tuttavia nel XII e nel XIII secolo - periodi di chiari progressi economici e di relativa stabilità politico-sociale - si ebbero 37 carestie; ossia a intervalli, in media, di cinque anni, una qualche regione occidentale conosceva serie difficoltà alimentari. Il folclore e la letteratura forniscono diverse testimonianze di questa presenza costante del fantasma della fame. L'esempio più chiaro e cronologicamente più vicino al fabliau de Cocagne è forse il celebre Roman de Rettaci , elaborato fra il 1170 e il 1250, in cui la maggior parte delle avventure del protagonista concerne la ricerca del cibo.
Ma al di là di cibo in quantità sufficiente e costante, la società medievale aveva bisogno anche di altri beni di consumo. Lo sviluppo della vita urbana e dell'artigianato, a partire dall'XI secolo, non supplì a quel deficit della produzione. II settore manifatturiero, monopolizzato dalle corporazioni dei mestieri, spingeva all'adeguamento del consumo alla produzione, non viceversa, sostenendo la scarsità ed i prezzi alti. Richard Roehl ha notato giustamente che, a causa delle limitazioni della produzione, tanto le fonti storiche quanto i lavori storiografici hanno sempre privilegiato l'offerta nello studio delle relazioni economiche medievali. Comunque, nell'analisi di quel quadro in cui la maggior parte della popolazione viveva al limite della fame, si dovrebbe tenere in ben maggiore considerazione la domanda. Ad esempio, il prestigio dell'individuo dipendeva dalla quantità di cibo di cui disponeva: veniva considerato ricco e potente chi poteva mangiare sino alla sazietà.
Dinanzi a una tale situazione si comprendono le varie utopie sorte per superare con l'immaginazione quella carenza. Fra esse, l'utopia dedicata più chiaramente a questo tema è Cuccagna . Rompendo la gerarchia sociale espressa dalla quantità di cibo, a Cuccagna l'abbondanza consiste nella possibilità da parte di tutti di prendere gratuitamente tutto il cibo e le bevande che vogliono. Questa terra immaginaria non si limita a garantire la sopravvivenza, ma capovolge la sequenza biologica necessità-desiderio-soddisfacimento in un'altra più culturale che naturale, basata sul rapporto desiderio - necessità indeterminata - soddisfacimento effimero - desiderio, L'abbondanza cuccagnana, più che una risposta alla fame, deriva da un insaziabile desiderio di mangiare. Il sogno di offerta illimitata, che genera una domanda illimitata, si trova all'origine di tutte le caratterizzazioni basilari di Cuccagna. Come ha osservato Mare Bloch, le caratteristiche alimentari aiutano a comprendere le reazioni emotive dei gruppi umani; nel caso di Cuccagna la smodatezza alimentare si può porre in relazione con la spossatezza (e di conseguenza con l'oziosità), con la spensieratezza (quindi con la giovinezza), con l'edonismo (quindi col sesso libero).
Innegabilmente l'alimentazione è un fatto culturale, nel senso antropologico, totalizzante della parola, dal momento che è il risultato della confluenza di fattori biologici, geografici, economici, ideologici, religiosi, semiologici, psicologici. In quasi tutte le versioni di quel paese perfetto, l'aspetto alimentare è sempre stato il più caratteristico, dal fabliau francese della metà del XIII secolo, sino al cordel brasiliano (1) Viagem a São Saruê , posteriore di sette secoli. Ma se l'abbondanza è una costante delle diverse versioni su Cuccagna, i cibi indicati variano a seconda delle epoche e dei luoghi. Come è già stato osservato, la storia dell'alimentazione riflette quella della società. O, più esattamente, la storia dell'alimentazione si sviluppa in armonia con altre storie «le determina e ne viene a sua volta determinata».
Una vera storia sociale comparata del gusto alimentare potrebbe essere compilata utilizzando testi e iconografie relative a Cuccagna. Ad esempio, mentre per la versione medievale francese le case di quella terra meravigliosa sono fatte di pesce e di carne, per un testo italiano del XVI secolo: «Le pareti sono di formaggio pecorino / Di ricotta sono dipinte», i muri delle prigioni sono di parmigiano. Un altro testo italiano della stessa epoca immagina gli edifici di Cuccagna con tetti ricoperti di sciroppo dolce e le strade lastricate con lasagne al formaggio.
Nelle versioni tedesche vengono menzionati formaggi, frutta, castagne, funghi, condimenti, latte, crema, burro, verdura, vino, birra, idromele e acquavite. Nella versione popolate raccolta dai fratelli Grimm all'inizio del XIX secolo, la casa è fatta di dolci e di pasticcini. Mentre il fabliau de Cocagne fa riferimento a vino bianco e rosso, paragonato ai cinque vini migliori allora esistenti,la versione inglese parla solo di chiaretto, e Boccaccio menziona soltanto vino bianco, in una versione spagnola della metà del XVI secolo vi è un fiume di miele, vi sono alberi le cui foglie sono manicaretti dolci, e si trovano ghiottonerie sparpagliate dappertutto.
La caratteristica alimentare di Cuccagna traspare nello stesso nome del paese. Sebbene siano state proposte varie etimologie del termine, quasi tutte fanno riferimento a tale aspetto. La parola può provenire dal latino coquere (cucinare), o dal provenzale cocagna o coucagno , che deriva forse da coca , coque , ossia buccia d'uovo o di certa frutta. O anche dal provenzale coca , brioche, pan dolce. O anche dal tedesco medio kokenje , oggi kuchen , dolce, focaccia dolce, imparentato con l'olandese medio cockaenge , derivante da coek , pasticcio. O anche dall'antico irlandese cucainn (cucina, razione alimentare), che sarebbe passato nell'inglese (dalla fine del XII secolo varianti di questa parola si trovavano in cognomi) e da questo al francese e alle altre lingue europee.
L'ipotesi più probabile è che il francese cockaigne sia sorto alla metà del XII secolo da un'origine latina, con o senza intermediazione provenzale. Da questo derivano l'inglese cokaygne o cockaigne (fine del XIII secolo o inizio del secolo successivo), l'italiano cuccagna (XV secolo) e lo spagnolo cucaña . In questa lingua la parola ha due accezioni: una, della prima metà de] XIV secolo, «inganno»; l'altra, del XV secolo, «palo unto di grasso» sul quale ci si deve arrampicare per ottenere il premio, consistente generalmente in cibo collocato alla sua cima.
Anche altre accezioni di Cuccagna rivelano la forza della sua caratterizzazione alimentare: in olandese è chiamata Luilekkerland , «terra della pigrizia e della gola»; in alcune versioni italiane e francesi dell'età moderna è concepita come un regno il cui sovrano è conosciuto come Panigon, che deriva dall'italiano panicone, «mangione».
Qual che sia la sua corretta accezione, essa è legata all'importanza che si dava alle attività alimentari nelle società preindustriali. Importanza che non dipendeva soltanto dalla continua pressione fisiologica causata dalla scarsità della produzione di alimenti, ma anche dal carattere sacro che presentava l'atto del mangiare. La frequenza annuale dei giorni di digiuno e di astinenza nel Medioevo - circa settanta - non confuta questa ipotesi, anzi la rafforza. Mangiare è atto sacro, per cui mangiare sempre significa profanare l'evento. Nella linea del sacrificio alimentare, in certi banchetti medievali, un fagiano vivo era collocato in una torta, sì che, aprendola, l'uccello ne usciva volando e compiendo in tal modo la sua funzione di intermediario, funzione pressoché sacra, fra il mondo umano e il mondo celeste.
Al di là di costituire una necessità corporale, indice di stato sociale, fonte di piacere sensuale, come in ogni epoca, nel Medioevo il mangiare era un atto di socializzazione, non solo con gli altri esseri umani, ma anche con Dio. Il prototipo del mangiare era l'eucarestia. Mangiare Dio era la forma più autentica di incontrarlo. Per tal motivo il mangiare era un tema di carattere spirituale alla fine del Medioevo, soprattutto per le donne, che ebbero un ruolo decisivo nell'origine e nello sviluppo della festa del Corpus Domini . Festa che sorse nelle Fiandre, vicino alla Piccardia, nel 1246, nello stesso periodo in cui il racconto su Cuccagna veniva trascritto in questa regione.
Naturale e sacra, l'alimentazione in età medievale era definita dal ciclo stagionale. Nel XII e nel XIII secolo erano diffusi i calendari - ottanta di questi, francesi - che associavano ciascun mese a un determinato compito agricolo. Nelle sculture di un portico della cattedrale di Amiens, della stessa epoca e della stessa regione del fabliau de Cocagne , il mese di gennaio, a causa della rigidità dell'inverno, è un periodo di ozio; febbraio, tempo di dissodare il terreno; marzo, di preparare la terra per la semina; aprile, di cacciare (per i nobili) e di potare la vigna (per i contadini); maggio, col suo clima dolce, è una sorta di intervallo prima dei duri lavori dei mesi successivi; giugno e luglio sono i mesi della mietitura; agosto, della trebbiatura; settembre, della raccolta dell'uva; ottobre, della preparazione del vino; novembre, della semina; dicembre, dell'uccisione del maiale e della lavorazione della sua carne. Capovolgendo i dati della realtà concreta, mentre nella società medievale si hanno due pasti giornalieri - il primo (pranzo), fra le dieci e le undici di mattina, il secondo (cena), fra le sedici e le diciannove -, nel paese di Cuccagna, dove non si hanno attività produttive né variazioni climatiche, si mangia sempre.
Il mangiare rimane comunque un atto sacro. Quella è una terra benedetta «da Dio e da tutti i suoi santi», e nella quale, al di là di questo dato, o proprio per questo, la Quaresima cade soltanto ogni vent'anni e non comporta digiuno. È bandita da quella terra meravigliosa la Quaresima «traditrice [...] molto odiata dai poveri», come la definisce un testo contemporaneo e conterraneo del racconto relativo a Cuccagna, La bataille de Caresme . In questo periodo, quando l'abbondanza non è interrotta, «Si mangia quello che Dio dà / Came, pesce o altra cosa». Il poeta di Cuccagna non accetta pertanto un confine fra il mangiate legittimo ed il mangiare peccaminoso. Il precetto del digiuno periodico era comunque ben fissato nel cristianesimo sin dai suoi primordi. Nell'epoca carolingia la violazione del digiuno veniva punita con pene pecuniarie o corporali, e persino, in certi casi, con la morte.
Considerando questi precedenti dottrinali, il peccato di gola era ben definito nel XII e nel XIII secolo. Mentre la cultura greco-romana valorizzava l'equilibrio (sophrosyne) e quella dei celti e dei germani esaltava l'eroe vorace, quella cristiana medievale - forse per contrapposizione - raccomandava l'ascetismo, l'astinenza. La gola è «l'appetito disordinato di mangiare e di bere», è «la concupiscenza di mangiare», diceva Tommaso d'Aquino alcuni anni dopo la trascrizione del fabliau . Si aveva, nel pensiero ufficiale medievale, un insieme di pratiche riprovevoli collegate al mangiare e al bere al di là delle necessità fisiologiche: farlo prima del momento opportuno ( praepropere ), smodatamente ( nimis ), con avidità ( ardente ), consuma-re pietanze raffinate ( laute ) o preparate con cura eccessiva ( studiose ). Si aveva quindi, nei confronti dei piaceri della tavola, una visione molto critica, soprattutto da parte ecclesiastica, ma adottata in parte anche dalla cultura laica, come mostra un proverbio del XIII secolo: il «ghiottone non è mai sazio, vuole sempre di più».
Ma infine, che cosa mangiano i ghiottoni di Cuccagna? Inizialmente richiama l'attenzione quel che essi non mangiano. Fra queste assenze sorprende soprattutto quella del pane, l'alimento base della società medievale, di cui ciascuno consumava giornalmente per lo meno mezzo chilo. Razione che nel caso dei monaci della metà del XII secolo saliva nei giorni festivi a un chilo e mezzo. Il pane forniva la maggior parte delle duemila calorie giornaliere ingerite dai più poveri, mentre la dieta del contadino medio arrivava a tremila calorie, e quella dei membri delle classi superiori a quattromila.
Il pane costituiva inoltre un fattore civilizzatore importante; la preghiera recita: «dacci oggi il nostro pane quotidiano». Nell'XI secolo veniva definito parassita sociale chi «vive del pane altrui»; nel XII secolo sorse l'espressione: «guadagnarsi il proprio pane». Se nel VII secolo Isidoro di Siviglia affermava che «il pane si chiama così perché accompagna ogni tipo di alimento [poiché] in greco "tutto" si dice pan», sin dal IX secolo si parlava di companagium per designare il cibo che accompagnava il pane. Da complemento diveniva l'alimento centrale. Se la Grecia classica aveva conosciuto 72 diversi tipi di pane, l'Europa medievale ne aveva anch'essa una grande varietà.
Risulta pertanto strana l'assenza del pane a Cuccagna, soprattutto perché vi sono campi di frumento. Ma forse in tal modo si voleva soltanto sottolineare la ricchezza del paese. Nel Medioevo i ricchi non mangiavano tanto pane come gli altri, in quanto lo utilizzavano come supporto della carne, e quindi davano del pane inumidito dal sugo ai cani o ai poveri. Altra spiegazione possibile dell'assenza del pane è proprio la sua presenza quotidiana sulle tavole medievali. Essendo una terra di sogno, di cose straordinarie, sarebbe fuori luogo a Cuccagna un alimento così comune. Assenza che rimane comunque strana, se ricordiamo le etimologie che dicono che Cuccagna deriverebbe dal provenzale «pane dolce» o dal tedesco »pasticcio», o «focaccia», prodotti della panificazione anch'essi non citati dal fabliau .
Sembra pertanto che la presenza del frumento, il cereale nobile per eccellenza, sia un simbolo della fertilità di Cuccagna più che un alimento ivi realmente consumato. Inoltre, essendo la coltura del frumento importante per la Piccardia, regione d'origine del fabliau , li il frumento non doveva essere oggetto di tante fantasie alimentari. Tuttavia la farina di grano è uno degli ingredienti dei budini consumati nella Quaresima di Cuccagna. Ma questi non sono prodotti dagli uomini, sono mandati da Dio, e cadono sotto forma di pioggia in quella terra meravigliosa. Dinanzi a questo fatto, l'ipotesi più probabile è che l'assenza di pane sia stata una critica alla crescente clericalizzazione della società occidentale: sin dalla metà del XII secolo la comunione sotto duplice specie (ostia e vino) diveniva esclusività dei sacerdoti. I laici si comunicavano soltanto col pane (assente da Cuccagna) e non più col vino (abbondante in quella terra).
Anche legumi, verdura e frutta non vengono menzionati dal fabliau de Cocagne . A quel tempo accanto al pane e alla minestra, tali alimenti componevano il menu quotidiano dei contadini, maggioranza assoluta della popolazione nel Medioevo. I nobili dal canto loro mangiavano pochi vegetali, soltanto frutta fresca all'inizio dei pasti e frutta secca alla fine, ed alcuni legumi nei giorni di digiuno. Forse proprio per questo motivo questi cibi non venivano indicati da quella narrazione. Se alcuni tipi di frutta entravano nel menu aristocratico (mele, pere, ciliegie, uva), tuberi come le carote e verdure come cavoli e spinaci venivano esclusi, essendo considerati cibo dei poveri. Anche frutti di piante che toccavano il suolo, come la fragola e il melone, non godevano di buona fama trai ricchi. Di fatto nell'alimentazione medievale è molto più chiara la differenza fra le classi sociali di una stessa regione che quella fra una regione e l'altra. Comunque in generale i tipi di prodotti richiesti variavano in base alle condizioni sociali.
A fianco dei fattori sociali vi erano ancora problemi di ordine culturale. La purea di piselli, piatto quaresimale secondo un testo della metà del XIII secolo, veniva considerato dalla letteratura dell'epoca, cibo per pazzi. Sino al XVI secolo la medicina considerava i vegetali alimenti di difficile digestione, adatti solo ai rudi stomaci dei contadini. Persino nei paesi mediterranei di maggior produzione di frutta, come il Portogallo, alcuni tipi di frutta erano considerati poco sani. Si deve inoltre ricordare che il fabliau , come ogni letteratura di evasione, non pretendeva di essere un ritratto fedele del presente; cercava piuttosto di tracciare un profilo idealizzato della società. E pertanto livellava la qualità alimentare dall'alto. Ecco il motivo per cui non si citavano i legumi, abbondanti in Piccardia. A quel testo non interessava ricordare dati concreti, cibi che non fossero eccezionali. Preferì menzionare cibi meno comuni, ma nobili, cosa che non esclude, tuttavia, dalla terra dell'abbondanza, i piatti più popolari, visto che ciascuno lì può mangiare «tutto quel che il suo cuore desidera».
Altra assenza è quella dei formaggi, di uso corrente nella cucina contadina, sebbene in quantità limitata. In ogni modo il formaggio costituiva un alimento importante per quel gruppo sociale, in quanto rappresentava un complemento proteico alla sua dieta povera di carne. A partire dall'XI secolo i formaggi incominciarono ad essere consumati in quantità sempre maggiore, al naturale o in piatti più elaborati, anche in Piccardia, dove sin dal secolo precedente si segnalava il maroilles . In ogni caso la produzione medievale di latticini era esigua, a causa del basso rendimento degli animali. Un autore del XIII secolo calcolò che una vacca produceva in primavera e in estate, stagioni favorevoli, latte per meno di 44 chili di formaggio e per 6 chili di burro. Molte volte la capacità produttiva era ancora minore: in una abbazia dell'Inghilterra occidentale, ciascuna vacca, nella stessa epoca dell'anno, permetteva di produrre solo 14 chili di formaggio e 2 di burro.
Ecco il motivo per cui i formaggi venivano prodotti principalmente con latte di pecora: dieci di questi animali producevano la stessa quantità di formaggio e di burro di una vacca. La produzione di formaggi che richiedevano grandi quantità di latte (nel XII secolo, gruyere ed emmenthal in Svizzera; alla fine del XIII secolo, parmigiano in Italia e comté e beaufort in Francia) rese necessario che si operasse mediante cooperative; il che diede a questo alimento un carattere comunitario, poco simpatico alle classi sociali più elevate. Forse per questo motivo il formaggio veniva associato dalla letteratura medievale ai pazzi, e considerato dai trattati della medicina del XIII secolo alimento poco sano. Il reblochon , creazione del XIII secolo, mostra già nel nome tale forma di rigetto, visto che viene dal termine dialettale savoiardo reblocher «fare una cosa per la seconda volta». Esso veniva infatti prodotto con latte di seconda scelta e sul quale il contadino non pagava tasse ai signori.
È anche vero però che i formaggi non erano sconosciuti alle mense nobiliari e borghesi. Il roquefort è citato sin dall'XI secolo nell'abbazia di Conques; nel 1217 la contessa di Champagne regalò al re Filippo Augusto 200 pezze di brie ; nel XIV secolo il maroilles piccardo veniva venduto a Parigi. In alcune regioni, soprattutto montagnose, i formaggi occupavano un posto importante nelle case signorili: alla corte del signore feudale di Murol, nell'Alvernia, alla fine del Medioevo ciascuno ne consumava poco più di ventisette chili l'anno. Ciononostante, in generale, nell'epoca dell'elaborazione del fabliau de Cocagne il formaggio continuava ad essere un alimento socialmente poco valutato.
Se nel disprezzo per il pane, le verdure e il formaggio, il fabliau rivela un aspetto aristocratico, d'altro lato, curiosamente, non si preoccupa di inserire nei piatti di Cuccagna i condimenti di lusso che tanto attraevano nobili e borghesi. Se non parla di pepe - di cui si parla spesso in La bataille de Caresme et de Charnage -, è a causa della sua grande popolarità, che lo rendeva poco usato nella cucina aristocratica. Ma non menziona neppure il chiodo di garofano, la cannella, la noce moscata, lo zenzero e altre spezie d'origine orientale, molto apprezzate in tutti i piatti e in molte bevande, come l'ippocrasso (vino profumato e addolcito con spezie) e la stessa birra (il cui sapore veniva migliorato con cannella, menta o altra sostanza aromatizzante). Spezie, queste, che, al di là di ragioni strettamente culinarie, contribuivano a una cucina considerata afrodisiaca, cosa che poteva essere importante in quel paese della libertà sessuale.
La spiegazione di questa assenza può trovarsi nel carattere medicinale delle spezie. Più che semplici ingredienti culinari, esse erano considerate farmaci. Reputate di origini paradisiache, il loro uso alimentare poteva migliorare la salute fisica e spirituale delle persone. Quindi non venivano usate spezie a Cuccagna in quanto non necessarie; la Fonte della Giovinezza manteneva i corpi giovani e in salute. Quest'idea è confermata dall'impero del Prete Gianni, la cui fonte della giovinezza ha il «sapore di tutte le spezie». Secondo un testo italiano del XVI secolo, «chi va vecchio torna giovinetto» dalla terra meravigliosa, grazie al muschio, allo zenzero e alla cannella. La Fonte della Giovinezza equivaleva a un insieme di spezie.
Nel fabliau non si fa riferimento neppure agli apprezzati condimenti agrodolci a base di vino, aceto, succo di limone e spezie, eventualmente arricchiti con pane, mandorle, noci, tuorlo d'uovo, fegato d'uccelli o sangue. Non è citata neppure la salsa verde (veri savor) usata con carne di maiale e con pesce d'acqua dolce, alimenti esistenti a Cuccagna. In questo senso la culinaria di Cuccagna si avvicina apparentemente a quella dei contadini. Se l'assenza di spezie sembra indicare un tratto non nobile, si potrebbe per lo meno attendere la presenza di condimenti europei, usati dalle persone più semplici, come cipolla, timo, maggiorana, lauro, coriandolo, menta, prezzemolo, mostarda. Ma neppure questo accade. L'unica eccezione è la «salsa bianca d'aglio» che ricopre le oche arrosto, e che in La bataille de Caresme viene usata col pesce.
Non vi è neppure olio in quella terra dell'abbondanza. Oltre ad essere un prodotto tipicamente meridionale, l'olio veniva largamente usato nel Nord della Francia, e continuò ad essere un ingrediente della cucina aristocratica sino alla fine del XVI secolo, quando venne sostituito dal burro. Non viene menzionato neppure il sale. La spiegazione della mancanza di condimenti sofisticati o semplici si trova forse nell'origine meravigliosa dei piatti di Cuccagna, che non sono confezionati dall'uomo, ma gli vengono offerti dalla stessa natura già pronti, completi, senza bisogno di ingredienti che li rendano più saporiti. Una spiegazione complementare potrebbe forse trovarsi nel clima primaverile di Cuccagna, visto che il mondo medievale associava il consumo delle spezie soprattutto all'inverno.
A Cuccagna non si mangia zuppa, fatto strano, perché tale pietanza era così importante nell'alimentazione medievale che tra il XII e il XIII secolo il verbo souper divenne sinonimo di "mangiare" (Rey, 1992, vol. II, p. 1993). Ma la spiegazione è semplice. La zuppa rappresenta la sintesi delle assenze alimentari cuccagnane, in quanto tale pietanza riunisce diversi ingredienti che non si trovano in quel paese. È il caso dell'acqua: a Cuccagna il fiume è di vino, la pioggia è di budini; ed il testo non indica quale liquido sgorghi dalla Fonte della Giovinezza. Anche un altro liquido utilizzato nelle zuppe medievali non viene menzionato: il latte. La mancanza della zuppa a Cuccagna è dovuta tra l'altro alla mancanza di verdure e di spezie, e soprattutto di pane, base della zuppa, come indica la stessa parola soupe , sorta attorno al 1195, e derivante da s oppe (metà del XII secolo), a sua volta derivante dal latino suppus , da supinus , «sdraiato, disteso», indicante il pezzo di pane gettato nel fondo della pentola e sul quale si spargeva il brodo caldo fatto con i vari ingredienti.
Che cosa si mangiava quindi nel paese di Cuccagna? I cibi indicati dal poeta formano quattro gruppi. Il primo e più importante comprende la carne. Era così grande il suo peso nell'immaginario medievale, che la parola «carne» (viande) aveva il significato generale di «cibo», come appare nel titolo del più antico manuale francese di cucina conosciuto, scritto attorno al 1300, Enseingnemenz qui enseingnent a appareiller touter sorter de viandes . Grande ne era il consumo, ma variabile in base alle condizioni locali. Nella corte del conte d'Auvergne, al Centro-Sud della Francia, verso la fine del XV secolo si mangiavano novecento grammi di carne a testa nei giorni leciti, quindi 187 chili l'anno. Nella stessa regione e nella stessa epoca, nella corte della signoria di Murol, se ne mangiavano seicento, e quindi 126 chili l'anno. A Cuccagna si mangiava carne tutti i giorni e a tutte le ore. Persino durante la Quaresima, che prescriveva un solo pasto giornaliero con esclusione della carne. Quest'unico pasto si sarebbe dovuto consumare di notte, secondo alcuni teologi, mentre secondo altri l'ora migliore era la nona (le tre del pomeriggio). Quest'ultima interpretazione prevalse nell'ambiente che vide nascere il fabliau de Cocagne , visto che ivi si sostiene che nella terra dell'abbondanza si può mangiare «dalla mattina sino all'ora nona».
Fra le varietà di came, la più consumata nella Francia medievale era quella di maiale. Scelta comprensibile: tale animale ha bisogno di meno spazio di bovini, ovini o caprini; è utile solo da morto (sino alla metà del XIII secolo si mangiava poca carne di bue, animale da traino, o di pecora, fornitrice di latte), se ne mangiano praticamente tutte le parti, si riproduce con facilità, richiede poca cura. Per tali motivi si allevavano maiali dappertutto, persino in città, come succedeva a Parigi nella prima metà dei XII secolo, quando quegli animali venivano sepolti per strada. Nella stessa città, alla fine del XIV secolo si uccidevano annualmente più di trentamila maiali. Considerando quindi che la popolazione parigina a quel tempo era di ottantamila abitanti, un maiale forniva in media fra gli ottanta e i cento chili di carne, ogni abitante doveva consumare circa 34 chili di carne di maiale l'anno. Se escludiamo da questo calcolo alcuni gruppi che per motivi di età, di salute, di religione ed economici (lattanti, monaci, ebrei, mendicanti) non ne mangiavano, il consumo pro capite era di circa cinquanta chili.
In generale i suini uccisi avevano un anno e mezzo, in quanto venivano abbattuti fra la festa di Tutti i Santi e il Martedì Grasso. In questo periodo l'inverno rendeva più difficile nutrire l'animale, vi erano meno mosche che potessero compromettere la conservazione della carne e si aveva bisogno di quel cibo ricco di calorie per affrontare il freddo. A nord della Loira, durante la festa di San Nicola (6 dicembre) si consumavano le interiora fresche di animali appena uccisi. Il midollo, considerato rigenerante, veniva dato ai più anziani; il cuore ai parenti ed agli amici più stretti; il fegato e i polmoni agli altri. Le parti nobili dell'animale venivano lavorate per produrre non meno di sedici diversi tipi di insaccati.
L'importanza del maiale nella civiltà medievale la si vede dal fatto che viene rappresentato nel 90% dei calendari italiani e nel 100% di quelli francesi. Anche in Piccardia, dove nella cattedrale di Amiens la scena scultorea che apre il ciclo dei mesi del Capricorno, mostra l'uccisione del maiale. Non risulta pertanto strano che a Cuccagna, fra i cinque tipi di carni menzionate nel testo, tre siano suine: lardo, salsiccia e prosciutto. Mentre la came di altri mammiferi, come il cervo, e degli uccelli (come l'oca) è «arrosto o in zuppa», quella di maiale è affumicata (lardo), bollita e condita (salsiccia), salata e arrostita o affumicata (prosciutto). Ossia, carni ben naturali per quanto concerne i metodi di preparazione (fumo, sale, fuoco), e ben culturali per quel che concerne i risultati (alimenti di lunga conservazione).
Questo ruolo materiale svolto dal maiale era rinforzato e prolungato dal suo ruolo nell'immaginario. Era questo il caso, ad esempio, del culto di sant'Antonio Abate, vissuto nel IV secolo. Secondo una certa tradizione, essendo riuscito ad ingannare il diavolo, il cui simbolo era il maiale, quest'animale era condannato ad obbedirgli e a seguirlo. Secondo un'altra tradizione, la relazione di dipendenza era sorta dal fatto che un animale malato era stato curato dal santo. Per l'una o per l'altra ragione sant'Antonio divenne il protettore del maiale e, per estensione, degli animali domestici. Da qui il fatto che l'iconografia lo mostra sovente con a lato questo animale, come fecero ad esempio Pisanello in un dipinto del 1422, La Vergine con san Giorgio e sant'Antonio (Londra, National Gallery), e Bosch, all'inizio del XVI secolo, nel dipinto La tentazione di sant'Antonio (Madrid, Museo del Prado).
La più diffusa associazione del santo col maiale si ebbe nell'ambito della malattia allora conosciuta come «male degli ardenti» o «fuoco di sant'Antonio». Da un lato, poiché alcuni anni dopo il trasferimento delle reliquie di sant'Antonio attorno al 1070 da Costantinopoli al Delfinato, regione centro-occidentale della Francia, gli si attribuirono guarigioni miracolose da questa malattia. Dall'altro, in quanto fu. osservato che applicazioni di lardo sulle eruzioni cutanee provocate da questa malattia alleviavano il dolore. Questa duplice soluzione era molto ricercata dalle migliaia di consumatori annuali di orzo o di segala, i cereali più economici ma a volte portatori del fungo tossico provocante ergotismo (herpes zoster), malattia la cui prima manifestazione è la comparsa di una macchia scura che sembra bruciare, da cui il nome di «male degli ardenti» o «fuoco di sant'Antonio». La malattia provocava quindi forti contrazioni muscolari che deformavano le membra, con deficienza nella circolazione periferica: il che produceva cancrena e perdita dell'estremità degli arti.
Attorno al 1095, alcune persone curate con lardo e con l'intervento del santo fondarono l'Ordine laico degli Antoniani, che si sarebbe clericalizzato nel 1297 e avrebbe adottato la Regola agostiniana. Suo obiettivo era di prendersi cura di chi era affetto da questa malattia, e per avere lardo e risorse economiche sufficienti allo scopo, l'Ordine si specializzò nell'allevamento dei suini. Quindi ricevette dal potere pubblico il privilegio di condurre le mandrie per le strade dei villaggi e delle città per alimentare gli animali con i rifiuti domestici. Contrassegnati con un sigillo attaccato al collo, i maiali appartenenti agli Antoniani circolavano liberamente dappertutto, persino al centro delle grandi città, come Parigi, sino al XV secolo, o Londra, sino al secolo successivo.
Il maiale era anche simbolo di fertilità presso varie società, e difatti appare sia in una versione greca del mito di Demetra, secondo cui la terra ingoiò Kore e una verga per maiali, come nel racconto russo di Nesmejana . Poiché la gestazione del maiale dura tre mesi, tre settimane e tre giorni, alcune tradizioni medievali vedevano in ciò un segno di perfezione. Inoltre un animale affine, in cinghiale, era considerato sacro da celti e germani. Il re di Cuccagna, secondo una versione del XVI secolo, indossava abiti e un mantello di pelle di maiale e aveva una pancia enorme, elementi che alludevano a quell'animale. In un'incisione del XVII secolo il re di Cuccagna appare sul dorso di un maiale, e in un'altra, dell'inizio del secolo successivo, Cuccagna viene localizzata in Porcolandia. In sintesi Cuccagna è, sia da un punto di vista concreto che metaforico, la terra del maiale.
Per quanto concerne la carne di volatili, il poeta anonimo ne indica solo un tipo, l'oca, e, visto che parla di «grasse» oche, ci si poteva attendere un riferimento al foie gras . Però, nonostante fosse apprezzata da greci e romani, da bizantini e musulmani, tale pietanza non era consumata nell'Occidente medievale se non come medicina. Perché dunque citare l'oca e non un altro volatile più raffinato e più apprezzato all'epoca, come il pavone o il cigno? Sorprende ancora il fatto che venga menzionato solo un volatile, mentre si sa che un testo della stessa epoca ne cita 34 fra i piatti prelibati della terra dell'abbondanza. È vero che l'oca era un uccello molto presente sulla mensa medievale, visto che, ad esempio, dati archeologici mostrano come nel monastero cluniacense di Charité-sur-Loire nell'XI e XII secolo la sua carne venisse consumata più di quella di pollo. Ma la migliore spiegazione starebbe nel fatto che il termine «oca» venga usato come sinonimo di volatile in genere e non si riferisca a uno in particolare. E quanto suggerisce l'etimologia della parola oie , oca, derivata da oiseau , uccello, proprio all'epoca dell'elaborazione della narrazione di Cuccagna.
Per quanto concerne la cacciagione, il poeta parla solo di due carni. Quella di cervo - oggetto in quella seconda metà del XIII secolo di una composizione anonima normanna, Chasse du cerf - e quella di un «uccello volante», ossia un uccello selvatico. Per un ambiente gastronomicamente così aristocratico (carne, vino, tavoli con tovaglie, bicchieri di metalli preziosi) questi soli riferimenti possono a prima vista sembrare strani. Però, più che un mezzo di sussistenza, la caccia era un rituale, un'attività di differenziazione sociale. Costituiva soprattutto un esercizio preparatorio alla guerra, una pratica iniziatoria dei giovani aristocratici, un elemento costitutivo dell'autocoscienza del cavaliere, un'attività ludica per quella categoria sociale. Quando Tristano caccia per svago, viene elogiato, ma quando, vivendo nascosto con Isolda nella foresta, caccia per necessità, viene considerato un selvaggio che si allontana dal modello aristocratico.
In termini economici e culinari, la caccia sembra non aver meritato nel Medioevo l'importanza che per molto tempo si è pensato avesse avuto. Con la crescita demografica che si verifica fra l'XI e il XIII secolo e la conseguente deforestazione, la caccia di grossi animali tendeva a scomparire. Nell'Italia settentrionale della fine del XIII secolo, la documentazione non parla più di cervi e di cinghiali; poco tempo dopo, l'irrigidirsi della legislazione contro la caccia di uccelli da parte dei contadini mostra che anche questa specie subiva una diminuzione. L'analisi archeologica del villaggio di Dracy, in Borgogna, mostra che dal XII al XV secolo non si cacciavano gli uccelli, e che la caccia in genere rappresentava soltanto il 4,6% delle ossa degli animali ritrovati. Questi dati sono confermati dalla piccola quantità di cacciagione presente alla mensa dei conti d'Alvernia alla fine del XIV secolo.
Il secondo gruppo dei cibi di Cuccagna è costituito dal pesce. La piscicoltura era così importante nell'alimentazione nel periodo fra l'XI e il XIII secolo, che vennero scavati molti bacini a danno di terre coltivabili. Cosa che accadde, ad esempio, nella piccola regione di Dombes, in Borgogna, dove nel XIII secolo furono costruiti diciotto serbatoi per l'allevamento di pesce. In Francia si pescava tanto che, a partire dal 1289, una serie di ordinanze reali tentò di evitare la pesca predatoria pregiudizievole alla ricchezza dei fiumi. Il salmone, abbondante in Normandia intorno al 1260 allorché il suo prezzo si avvicinava a quello del maiale, nel 1410 valeva più del doppio della carne suina. La grande richiesta di questo pesce era dovuta al fatto che solo i pesci d'acqua dolce venivano consumati freschi. Quelli di mare, anche in zone costiere, venivano salati e/o affumicati per le mense medievali.
Il principale e il più consumato di questi pesci era l'aringa, perché poteva essere conservata anche per un anno: cosa che portò Robert Delort a considerare l'Occidente cristiano, per lo meno sino al XVII secolo, una «civiltà dell'aringa». Altri pesci essiccati erano oggetto di un importante commercio nel Nord d'Europa, dominato dagli scandinavi sino alla metà del XII secolo e poi dai tedeschi, la cui Lega anseatica aveva nel pesce una merce di grande rilievo. Fresco o salato, il pesce costituiva un importante alimento per la società medievale, che proibiva il consumo di carne per lunghi periodi dell'anno. Ecco dunque che Ildegarda di Bingen poteva elencare nel XII secolo 36 specie di pesci. E La bataille de Caresme et Charnage elencava fra i vari piatti, magri e grassi, 29 tipi di pesci d'acqua salata, 8 d'acqua dolce, 4 molluschi, per un totale di 41 specie: più, dunque, di ogni altro tipo di alimento.
Piatto principale dei giorni e dei periodi quaresimali - poiché eccitava meno le passioni carnali che i prodotti derivanti da animali a sangue caldo (Summa Theologica, II-II, q. 147, a. 8) -, il pesce veniva consumato nei 146 giorni magri dell'anno, soprattutto il mercoledì. Ciononostante è strano che la pesca risulti assente dalle rappresentazioni iconografiche dei calendari francesi e appaia soltanto nel 17% di quelli italiani, sempre a febbraio, all'inizio della Quaresima. Nella Piccardia medievale, per la ricchezza della costa della Manica e dei pantani del fiume Somme, si consumava sia pesce d'acqua salata che d'acqua dolce. Delle quattro specie citate dal fabliau - barbi, salmoni, cheppie, storioni -, il primo è di mare, gli altri sono migratori, poiché vivono nell'acqua salata ma periodicamente risalgono i fiumi per deporre le uova. Nei territori dell'abbazia piccarda di Saint-Vaast de Arras, dall'inizio dell'XI secolo si commercializzavano: (oltre l'aringa) lo storione, il salmone e la cheppia, pesci di lusso presenti a Cuccagna.
II terzo gruppo è quello dei vini. Se ne bevono in grande quantità a Cuccagna, forse a causa dell'enorme consumo di carne. In effetti i 4/5 della carne che si mangiava in età medievale era salata, e non solo per necessità di conservazione, ma anche per obblighi religiosi. Per la Chiesa medievale l'alimentazione a base di carne non era impura, purché il sangue dell'animale fosse stato eliminato, e per fare ciò era necessario salare la carne. Per evidenziare forse l'importanza del vino nella società cuccagnana, il fabliau non parla di nessun'altra bevanda esistente in quella terra. E neppure dell'acqua. In realtà in età medievale l'acqua non era considerata una bevanda di cui ci si potesse fidare, in quanto le condizioni naturali e culturali dell'epoca sovente ne compromettevano la potabilità. Solo i contadini, che abitualmente non bevevano vino, ricorrevano all'acqua, alla birra o al latte. Oltre a questo motivo, il fabliau non parla dell'acqua, perché in Piccardia, regione di tanti fiumi e zona paludosa, l'acqua era un impedimento, in quanto doveva essere racchiusa in bacini, incanalata, drenata e quindi disciplinata.
Mentre nelle città medievali si consumavano in media venti litri d'acqua giornalieri per abitante, a Cuccagna neppure la Fonte della Giovinezza è chiaramente una fornitrice d'acqua. Nel descrivere la fonte, il poeta non dice che tipo di liquido ne fuoriesce, né come debba essere utilizzato. Così come La bataille de Caresme et Charnage , il fabliau de Cocagne rappresenta la vittoria del Carnevale (festa, cibo saporito, sesso) sulla Quaresima (raccoglimento, silenzio, digiuno). Rappresenta pertanto la vittoria del vino sull'acqua. E in disaccordo quindi con l'elogio all'acqua contenuto in un testo anonimo scritto alla fine del XIII secolo, ma già esistente in forma orale, La desputoison du vin et l'iaue .
In questo testo, l'acqua, sorta di pubblico ministero che sostiene l'accusa contro il vino, afferma che questo è malefico, provoca litigi, omicidi, furti, diffamazioni. Lo accusa d'essere orgoglioso, in quanto non capisce che l'acqua è veramente necessaria, poiché irriga alberi e prati, pulisce i corpi, cucina i cibi, trasporta le navi, estingue la sete. Infine, dinanzi a questa argomentazione, il verdetto del tribunale presieduto da Dio, e composto da vini famosi di tutto il mondo, conclude che i diversi vini, ciascuno a suo modo, sono utili in certi momenti, mentre l'acqua è una necessità universale. Il fabliau de Cocagne non accetta queste argomentazioni, visto che parla di una terra in cui la pioggia è di budini e il ruscello è di vino.
L'elogio del vino contenuto nel fabliau accentuava soltanto un dato reale. La società medievale aveva nel vino la sola bevanda tonica esistente, ad eccezione di pochi liquori non commercializzati, prodotti dai monasteri per il consumo interno. Questa bevanda era quindi l'unica fonte calorica, soprattutto nelle regioni e nelle stagioni più fredde. Forse per questo la saggezza popolare affermava che "chi ha buon vino sulla tavola non si ammalerà mai". Era di grande importanza anche la funzione sociale di questa bevanda, in quanto era di aiuto nel riunire i vassalli, i parenti, gli amici, i vicini. Come recitava un proverbio del XIII secolo, "vi sono più parole in una dose di vino che in una d'acqua". E l'importante funzione religiosa e culturale svolta da questa bevanda la rendeva una delle mercanzie più richieste.
Per questo motivo si trovavano in un territorio corrispondente alla Francia attuale circa trenta santi a protezione del vino nelle diverse tappe della sua produzione. Alcuni proteggevano la crescita delle vigne (san Vincenzo e san Paolo), altri evitavano che fossero distrutte dalle gelate (san Gualtiero e san Veniero), altri ne favorivano la maturazione (san Lorenzo e san Rocco), altri collaboravano alla vendemmia e alla fermentazione (san Remy e san Sergio). I bottai erano devoti di san Nicola; gli acetai, di sant'Amando; i trasportatori di vino, di sant'Eustachio; i mercanti di vino, di san Martino, e così via. In parte per questa ragione, il fabliau afferma che Cuccagna è, più di qualsiasi altro paese, benedetta da «Dio e da tutti i santi».
Vista la deficienza, nel Medioevo, delle tecniche di conservazione del vino, si cercava di consumarlo nello stesso anno di produzione, soprattutto nel Nord d'Europa, dove si deteriorava più rapidamente. Nelle zone mediterranee, il "vino vecchio" di oltre un anno si conservava bene ed era apprezzato. In ogni caso il vino non poteva essere conservato per molto tempo (l'imbottigliamento in recipienti di vetro risale al XV secolo, con tappo di sughero è della fine del XVII), e così se ne beveva molto nel XII e nel XIII secolo. Non è un fatto sorprendente quindi che a Cuccagna scorra «un ruscello di vino», simbolo di vino nuovo e abbondante. Visto che sino alla metà del XIII secolo le mense aristocratiche preferivano il vino bianco, è questo a predominare nella terra dell'abbondanza: vino simile a quelli di Auxerre, La Rochelle e Tonnerre. Solo a partire da allora, forse per influsso esercitato dalla borghesia, crebbe il prestigio dei vini rossi, presenti anche a Cuccagna, di qualità paragonabile a quello di Beaune e a quello importato.
Per tutti questi motivi, il vino a Cuccagna elimina la presenza di qualsiasi altra bevanda, come la stessa birra, abbastanza diffusa in alcune regioni nelle quali veniva bevuta soprattutto dalle donne, dai più poveri, e quando il vino mancava o era molto caro. Nell'esprimere questo carattere popolare della birra, un testo allegorico dice che essa venne «scomunicata» da un sacerdote inglese che aiutava il re di Francia a sostenere i buoni vini. La maggior parte dei primi testi relativi alla birra, invenzione fiamminga del IX o del X secolo, proviene dall'Artois, dalle Fiandre e dalla Piccardia. La birra era quindi ben nota e diffusa nella regione ove fu composto il fabliau de Cocagne . Ciononostante in questa terra dell'abbondanza non esiste questa bevanda, probabilmente perché considerata molto volgare per questo paese delle meraviglie. La mancanza di birra a Cuccagna, così come quella del pane e delle verdure, rivela il desiderio di andare al di là del quotidiano, del banale.
Pertanto, nonostante l'esistenza di vini di gran nome prodotti in Piccardia (a Laon, Soissons e Beauvais), quelli di Cuccagna sono paragonati ai migliori del tempo. Sono paragonati al vino di Beaune, che nel XIII secolo era il preferito dal papa; nel XIV secolo era preferito dal poeta Eustache Deschamps; nel XVI secolo era considerato sinonimo di vino. Sono paragonati a quelli d'oltremare, espressione che doveva riferirsi al vino di Cipro, sorta di moscatello, al tempo piuttosto apprezzato: in un testo composto poco dopo il 1223, quando il re Filippo mandò a cercare «i vini migliori che si trovassero in qualsiasi terra», il primo fu quello
cipriota. Sono paragonati a quello di Auxerre, considerato di qualità così buona da essere nominato dai più capo dei vini dell'Ovest della Francia. A dimostrazione della popolarità goduta da questo vino, nel XIII secolo nacque l'espressione «bevitori di Auxerre». Quando il cronista francescano Guglielmo di Rubrouck, nel narrare il suo viaggio in Oriente (1253-1255), vuole elogiare il vino di riso prodotto dai Mongoli, afferma che non era possibile distinguerlo da quello di Auxerre e di La Rochelle. In una cronaca che ha termine nel 1287, un altro francescano che aveva abitato ad Auxerre quarant'anni prima, egualmente elogia il vino della regione.
Il quarto e ultimo gruppo alimentare di Cuccagna è quello dei dolci. Molto apprezzati nel Medioevo, chiudevano in molte varietà il pranzo dei nobili. La bataille de Caresme et de Charnage ne cita sedici tipi diversi. Generalmente fatti di pasta (torte, focacce, paste), venivano dolcificati con miele, vino liquoroso, mosto o frutta secca, più che con zucchero di canna, prodotto orientale costoso, conosciuto in Provenza dalla metà del XII secolo ma introdotto nella culinaria francese solo nel XIV secolo. Fino al XV secolo sembra che gli inglesi e gli italiani apprezzassero lo zucchero più dei francesi. Forse per questo il fabliau de Cocagne menziona un solo tipo di dolce, il flaon , la cui eccezionalità consiste nel fatto che durante la Quaresima cadesse dal cielo in forma di pioggia. È un dolce celestiale. Ma è un dolce quaresimale solo per ironia, in quanto faceva pane degli alimenti grassi, carnevaleschi. In effetti, per lo meno a partire dall'XI secolo e certamente nel XIII, i latticini e le uova erano proibiti durante la Quaresima 6, e gli ingredienti diquel dolce erano farina, uova e crema di latte.
Ma mentre per alcuni studiosi quel che si produceva con questa ricetta era un pasticcio dolce, per altri era una torta salata. Se chiarito, questo problema apparentemente di minore importanza, potrebbe rafforzare o smentire le etimologie che legano il nome di Cuccagna a kuchen/coek (pasticcio). In ogni modo in quella ricetta doveva entrare, possibilmente, un po' di zucchero. Questo, però, più che un alimento era considerato una medicina, e dall'XI secolo figurava nella farmacopea della scuola di medicina di Salerno e poi della scuola di Montpellier. Per Ildegarda di Bingen, nel XII secolo, doveva essere usato per persone con problemi al cervello a al petto. Nella Francia del XIII secolo era usato contro la tosse e l'acidità di stomaco. Alla fine del pranzo si cercava di servire piatti zuccherati, in quanto si pensava che facilitassero la digestione, ragione per la quale Tommaso d'Aquino non ne proibì l'uso in Quaresima. Tutte queste applicazioni e la sua rarità rendevano lo zucchero un prodotto molto caro e ricercato, assente da Cuccagna come tutte le spezie, non per ragioni economiche, bensì probabilmente per indicare che nonostante l'eccesso di alimentazione gli abitanti di Cuccagna non avevano problemi di salute.
Sappiamo adesso quel che si mangia a Cuccagna, ma non perché si mangino quei cibi e non altro. A prima vista si tratta di una nobilitazione degli abitanti di Cuccagna, consumatori di cacciagione, di pesce costoso, di vini raffinati, di dolci speciali. Tuttavia, come già abbiamo analizzato, non si fa riferimento ad altri piatti altrettanto o più nobilitanti di quelli indicati. Si deve allora ricordare che l'alimentazione delle società preindustriali era governata dalla concezione della magia simpatica da tempo studiata dall'antropologia: per la legge del contagio, ciascun oggetto in contatto con un altro ne assume le caratteristiche; per la legge della somiglianza, le cose simili sono in realtà la stessa cosa.
Ingerire quindi un certo cibo significa perciò renderlo parte di noi stessi ed identificarci con questo. Concezione generale che nell'Europa medievale era rafforzata dall'idea dell'uomo-microcosmo, allo stesso tempo sintesi e parte dell'universo. L'importanza attribuita alla carne a partire dall'Alto Medioevo era legata a questo principio: l'uomo è fatto di came, quindi la carne è il suo alimento naturale. Il latte della madre o della nutrice non solo alimenta il bambino, ma ne plasma anche il carattere. Nell'Italia del XVI secolo, ai bambini non si dava latte dì mucca, perché si credeva che l'origine di questo alimento li avrebbe predisposti ad avere un carattere sottomesso e li avrebbe resi poco intelligenti.
Pertanto la scelta dei cibi di Cuccagna non fu arbitraria. Venne definita dalle condizioni concrete dell'economia e del gusto medievali, e anche dall'influenza del pensiero magico-simbolico. Pesce e cervo, ad esempio, erano noti come simboli cristologici, si che consumarli rappresentava una sorta di comunione laica e quotidiana con la Divinità. Il maiale a sua volta era visto in età medievale come un animale simile all'uomo, sia sul piano alimentare (entrambi sono onnivori), sia su quello fisiologico (i primi studi anatomici, data la proibizione di sezionare corpi umani, venivano compiuti con maiali). Un testo piccardo della fine del XII secolo sostiene che l'unica differenza fra l'essere umano e il maiale sta nel fatto che all'uomo è riservata una vita nell'aldilà. Mangiare carne di maiale era, in questa prospettiva, un atto dai tratti simbolicamente cannibaleschi.
Più specificamente costituiva un'azione di distruzione, di assimilazione e di trasformazione degli ebrei deicidi. Di conseguenza, come ha indicato Claudine Fabre-Vassas, l'immaginario cristiano capovolse la tradizionale identificazione dell'Altro in base a quel che questi mangiava, e vide nell'ebreo quel che egli rifiutava di mangiare, il maiale. Questa lettura medievale si fondava su un testo apocrifo del VII secolo, una versione dell'Evangelo dell'infanzia, che spiega il rifiuto del maiale da parte degli ebrei in quanto negazione di una autofagia: Cristo irritato con una madre ebrea che gli aveva nascosto i suoi tre figli, li trasformò in maiali. Da allora gli ebrei non mangiarono più carne di maiale, perché ciò avrebbe significato mangiare se stessi, e trovarono un succedaneo nella carne dei bambini cristiani. Questa pretesa violenza rituale ebraica nei confronti dei cristiani divenne legittimazione delle persecuzioni contro gli ebrei, e fece sì che l'uccisione dei maiali divenisse un vero sacrificio rituale nella società europea cristiana preindustriale. L'analisi lessicale sembra rafforzare questa tesi, poiché nella lingua francese solo nel 1209, ossia in un contesto di forte antisemitismo, la parola porc acquistò una connotazione negativa, essendo applicata a persone ingorde, golose, grossolane e sporche.
Anche il luogo in cui avviene il consumo di tutti quei cibi non sembra essere casuale. Tavoli «dappertutto / per sentieri e strade», enfatizzano la gratuità del cibo, che tutti possono scegliere e prendere senza alcun tipo di restrizione. L'esistenza di quei tavoli indica soprattutto pasti in comune, cosa che forse aiuta a spiegare il predominio del menu a base di carne. Presso i greci gli animali venivano uccisi in banchetti rituali e la loro carne era distribuita in base alla funzione sociale esercitata da ciascuno. La parte di carne ricevuta dal cittadino era letteralmente l'«incarnazione» del suo stato politico e sociale. Da ciò, per evidenziare la loro dissidenza, il rifiuto dei pitagorici di mangiar came. Anche presso i romani mangiare la carne dell'animale sacrificato significava inserirsi nella vita della comunità: il «principe» era il «primo a essere servito»; il «privato» era escluso dalla «partecipazione» pubblica, ossia dalla spartizione dell'animale.
Proseguendo su questa associazione fra il cibo, soprattutto carneo, e la vita sociale, i banchetti medievali erano pratiche di pace. Erano occasioni per re e signori, laici o chierici, di riunire i loro dipendenti, per rinforzare, attraverso il dono del cibo e delle bevande, la consanguineità spirituale che li univa. Rito di simile significato, sebbene ugualitario e non gerarchico, avveniva fra i membri delle confraternite urbane. In sintesi, il pranzo comunitario di Cuccagna è simbolo di relazioni sociali libere e ugualitarie. Libertà ed ugualitarismo che si manifestano anche sul piano sessuale, sulla base di una sorta di identità fra il consumo di carne animale (alimentazione) e quello di carne umana (sesso).
Nonostante sia ricca, oziosa, giovane e libera, Cuccagna sembra essere silenziosa. I molteplici suoni festivi che ci si aspetterebbe, chiacchiericcio, risate, canti, musiche, non vengono menzionati nel testo, tranne un accenno a strumenti musicali contenuto nella versione abbreviata del fabliau . La ragione di ciò sta forse nel carattere gourmand dei cuccagnani. La bocca che mangia, degusta, si avvolge nella sensualità del mangiare e del bere - prolungamento della fase orale, dice la psicoanalisi, per la quale vi è una componente essenzialmente orale in ogni forma di desiderio - non è la bocca che parla e canta. La comunicazione fra gli abitanti di Cuccagna avviene attraverso la complicità nell'eccesso alimentare e sessuale, attraverso l'affinità fra i peccati di gola e la lussuria, denunciata dalla teologia dell'epoca.
Il poeta insiste soprattutto sull'abbondanza alimentare di Cuccagna, ma non si può dimenticare che quella terra è anche ricca di vestiti e di scarpe, sebbene questo aspetto sia in second'ordine: il poeta dedica al cibo 71 versi, al vestiario soltanto 28. Nella versione del ms B l'importanza dei manufatti è ancora più scarsa, in quanto sono stati soppressi alcuni versi al riguardo. Questo relativo disinteresse per l'artigianato era forse associato allo spazio ridotto che esso poteva occupare nei bilanci dell'epoca. E stato calcolato che una famiglia contadina medievale spendeva fra 1'80 e il 90% del suo reddito in cibo, e pochissimo per il vestiario e l'abitazione.
È comunque possibile concepire la spiegazione opposta. L'esistenza di vari centri artigianali in Piccardia dava a quei prodotti un carattere di ordinarietà che non avevano in altri luoghi. A partire dal XII secolo vi era un'importante produzione di tessuti ad Amiens, Abbeville, Beauvais, Saint-Quentin, Rue, Montreuil. Un testo del XIII secolo, Dir de l'Apostoile , che attribuisce nomi a città e regioni in base alle loro caratteristiche, ricorda Abbeville per il tessuto azzurro ivi prodotto. La regione piccarda fabbricava inoltre stivali da caccia, come indica il nostro testo.
In ragione di ciò, per sfuggire all'ordinario, il fabliau menziona stoffe che non erano confezionate in quella regione. Prodotti importati, rari e costosi in tutto l'Occidente, la cui presenza gratuita e abbondante a Cuccagna serve a enfatizzare le meraviglie del paese. È il caso di vesti fatte con seta importata da Alessandria. O di quelle "foderate di ermellino" , espressione, questa, del crescente consumo di pelli a partire dal XII secolo, forse per l'influsso dell'Oriente musulmano. La composizione non dice tuttavia che tipo di vesti venissero confezionate con quella stoffa, e non permette quindi di ipotizzare il livello sociale di chi le usava. In effetti nell'Occidente medievale il modo di vestirsi non dipendeva tanto da fattori climatici (l'epoca dell'anno o il luogo in cui si abitava influivano poco sugli abiti che si usavano), ma piuttosto dal gruppo di appartenenza (familiare, politico, professionale, religioso, etnico). In tale società «non si usano gli abiti che si preferiscono, ma quelli che si devono usare», come scrisse Pastoreau. Intanto il materiale usato fornisce già interessanti indicazioni. Gli indumenti di pelle, ad esempio, non necessaria in quella terra dal clima sempre primaverile, si trovano nel racconto solo per riaffermare l'opulenza del paese. Dei nove tipi di tessuti ricordati dal fabliau , solo uno era di uso popolare. In generale sia i cibi che i vestiti e le scarpe sono di grande qualità e valore.
Questa duplice abbondanza, di cibi e di abiti, rende completamente sterile una terza abbondanza, quella delle monete. Esprimendo la critica di certi strati sociali nei confronti del corporativismo della produzione e della crescente monetizzazione dell'economia occidentale, il fabliau immagina una terra in cui l'offerta di beni è molto superiore alla domanda, nonostante il consumismo sfrenato dei suoi abitanti. In una simile situazione «borse piene di monete / si trovano sparse al suolo; / [...1 inutili». Ci si può anche domandare se, per un gioco di parole, queste monete sparse al suolo non provengano dalla pioggia menzionata poco prima. In effetti, flaon significa budino, torta, ma anche pezzi di metallo preparati per essere trasformati in monete. In ogni caso, per esprimere una mentalità dissipatrice, il poeta ricorre a simboli di ricchezza inutile a Cuccagna: campi di grano, abiti di pelle, monete.
Sia in riferimento al cibo che al vestiario, quel che rafforza questa abbondanza è il fatto che «tutto è comune a tutti». Il fabliau sembra suggerire che l'abbondanza non è solo questione di quantità, ma anche di socialità. Forse per questo esistono "tavole apparecchiate / Con tovaglie bianche" lungo le strade di Cuccagna. Come si sa, la tovaglia svolgeva un ruolo importante nel cerimoniale della tavola nel Medioevo; mangiare sulla stessa tovaglia indicava uguaglianza di condizione; così, quando un individuo considerato inferiore si sedeva alla tavola di un signore, questi collocava un tovagliolo dinanzi a lui per marcare la differenza. Nel mondo alla rovescia di Cuccagna non aveva senso il proverbio dell'epoca, secondo il quale «al mangione non piace compartire». Inoltre la preoccupazione del fabliau di mostrare un relativo ugualitarismo corrispondeva a una certa mobilità sociale rivelata dai fabliaux in generale.
Grazie al menu e al guardaroba si può dunque sapere a chi si rivolgeva il fabliau de Cocagne ? Apparentemente questi dati indicano una provenienza e una destinazione aristocratiche, ma si deve fare attenzione a giungere a una tale conclusione, visto che la letteratura cortese dell'epoca normalmente fornisce maggiori dettagli sui rituali che facevano da contorno all'alimentazione che sui piatti che venivano consumati, al contrario cioè di quel che fa il fabliau . Non si può inoltre non tener presente che borghesi in cerca di nobilitazione e tesi a nascondere le proprie umili origini, adottavano, quando potevano, comportamenti aristocratici. I mutamenti di usi e le trasformazioni economiche attenuavano le differenze fra gli stili di vita.
Ad esempio, se per molto tempo la dieta carnea ebbe carattere prevalentemente aristocratico, con l'urbanizzazione questo dato si alterò. Già nel 1162 i macellai ricevettero privilegi corporativi a Pontoise e a Parigi. In questa città nel 1393 furono abbattuti circa 270.000 animali per il consumo della popolazione, ossia più di 19.000 tonnellate di carne, ovvero 240 chili per anno a persona, livello perfettamente paragonabile a quello del consumo della classe aristocratica medievale. L'abbondanza alimentare descritta dal nostro testo potrebbe dunque rivelarci una utopia urbana.
Ma è possibile d'altro canto associare il fabliau all'immaginario contadino. Secondo questa ipotesi esso sarebbe la trascrizione di un mondo alla rovescia concepito da gente affamata e povera che, nella costruzione di quella società perfetta, avrebbe usato referenti aristocratici. Cuccagna sarebbe allora un ricordo nostalgico della prodigalità delle corti ed una critica all'avarizia delle nuove classi dominanti urbane. Nostalgia e critica condivise dalla Chiesa, che toglieva l'orgoglio, peccato tipicamente aristocratico, dalla posizione di peccato più grave fra i sette peccati capitali, e lo sostituiva con l'avarizia, peculiarità tipicamente borghese.
Sarebbe un mondo rovesciato, in quanto la Natura vi esercita la funzione della Cultura, fornendo beni che in qualsiasi società sono fatti di materie prime trasformate dagli uomini (lardo, tavoli, coppe, vino, budini, ecc.). D'altro canto, in quella terra la Cultura funziona come Natura, in quanto le stoffe e le scarpe non vengono prodotte col lavoro, ossia con uno sforzo penoso, bensì dall'attività naturale e piacevole di persone che distribuiscono gratuitamente quei prodotti. Proprio come fa la Natura nel concedere i suoi beni. Per questo motivo i tessitori e i calzolai, in generale mal visti nella società medievale, a Cuccagna sono considerati virtuosi e cortesi.
Mondo alla rovescia anche perché lì non si consuma niente di crudo (eccetto il vino) e nulla che sia stato cucinato dall'uomo. La Natura fornisce, già pronti, lardo, salsicce, prosciutto, carne arrosto, oche che si arrostiscono da sole, pioggia di budini caldi. Il trapasso dal crudo al cotto, dalla Natura alla Cultura, si realizza senza la mediazione necessaria in qualsiasi società: il lavoro umano. Lì la Natura è culturale e la Cultura è naturale. La Divinità di Cuccagna non crea nella semplicità della Natura (maiali ed oche vivi, uva ecc.), ma nella complessità della Cultura (prosciutto, oche arrosto, vino ecc.).
Dinanzi a tutti questi motivi è difficile stabilire un ritaglio sociologico del fabliau de Cocagne attraverso i cibi della terra meravigliosa. Là vengono accontentati tutti i gusti e tutti gli usi alimentari. Vi è carne di maiale, di consumo più popolare, e came di cervo, di consumo aristocratico. Vi è cacciagione di piccole dimensioni (uccelli) e di grandi (cervi). Vi sono pesci di mare e di fiume. Vi è vino rosso, apprezzato specialmente dai borghesi, e bianco, preferito dagli aristocratici. Vino bevuto in recipienti semplici (bicchieri) o sofisticati (coppe di metalli preziosi). L'indistinzione sociologica della culinaria cuccagnana si rivela soprattutto nella preparazione dei piatti. Questa deve soddisfare i gusti di tutti. Deve promuovere l'armonia sociale.
Ecco il motivo per cui la carne è «arrostita o in stufato», ossia aristocratica o popolare. Come ha indicato Claude Lévi-Strauss, l'arrostito è associato alla Natura (non vi è intermediario fra l'alimento e il fuoco), al nomadismo (preparata durante guerre, cacce o viaggi), agli uomini (pressoché gli unici a dedicarsi a queste attività), all'aristocrazia (che deve essere prodiga), alla «esocucina» (destinata agli invitati), alla morte (distruzione dei succhi della carne). Lo stufato, a sua volta, è culturale (alimento cucinato con l'intermediazione di acqua e pentola), è sedentario (a causa dell'uso di recipienti, strumenti culturali), è femminile (preparato da donne, chiuse nell'ambito domestico), è plebeo (economico), è «endocucina» (destinata ai familiari), è vita (utilizzazione completa della came).
In sintesi, considerando soltanto l'aspetto alimentare e del vestiario di Cuccagna, è difficile stabilirne il profilo sociologico. L'abbondanza era il sogno di tutti, in età medievale.
(1) Il termine cordel significa cordoncino: con questo venivano, e lo sono tuttora, appesi presso banchetti, nei mercati e nelle fiere in Brasile, libriccini o pagine sciolte di una letteratura popolare [N.d.T.]
(Capitolo secondo del saggio Nel paese della Cuccagna , Città Nuova edizioni, Roma, 2001. Traduzione di Luciana Arcella.)
Hilário Franco Júnior (1948), medievalista, insegna nel dipartimento di Storia presso la Facoltŕ di Filosofia, Lettere e Scienze umane dell'Universitŕ di San Paolo del Brasile. Č autore di numerosi saggi, in particolare sulla mitologia medievale.
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