IL RAPIMENTO
- Racconto tratto dall'antologia "Le parole nel vento" :
Testi migranti pubblicati dalla rivista El-Ghibli -
Bozidar Stanisic
Pensai: "E allora, se lo uccidono davvero? E non è forse vero
che lo dimenticherò comunque in poco tempo-perché tutto, alla
fin fine, si dimentica?" E mi affrettai a rispondere, spaventata
dai miei pensieri: - Non dire così! Non sopravviverei alla tua
morte! Lui, dopo un momento di silenzio, disse piano: - Ecco, se
muoio, ti aspetterò là. Tu vivi ancora un poco, godili un po
' questa vita, e poi vieni da me.
IVAN BUNIN, Freddo Autunno
Luglio 1996: nervoso ( nessuna novità , cito mia moglie), cercavo un lavoro ( allora, lei ha quarant'anni , si ripeteva, come un'eco), sopra il Friuli si accumulavano masse di aria sahariana ( assistiamo a grandi mutamenti climatici , dicevano i meteo-esperti), scrivevo, in fretta, e gettavo via ciò che avevo scritto ( i personaggi erano a due dimensioni, come gli affreschi del mondo egiziano dei morti ). mi sentivo bene solo in riva al torrente Vedronza, che color verde acqua, scroscia saltellante fra rocce che, osservate da dietro le palpebre socchiuse, danno un'impressione di paesaggio lunare ( quando socchiudiamo gli occhi il mondo intorno a noi subisce dei cambiamenti, ripeterebbe forse un mio amico, ora nella lontana Australia, da dove in quei giorni era arrivato il rifiuto alla nostra domanda di immigrazione: siamo molto spiacenti di doverLa informare, ecc .). Quando era possibile, evitavo gli incontri ( Quando ritornerete a casa, in Bosnia? Adesso c'è la pace ...). Comunque, un invito non lo avevo rifiutato. "In tutto quel polpettone, cari miei, in cui, appunto, si ripeteva due volte lo stesso titolo: RAPIMENTO: LOVE STORY ALLA BALCANICA, di vero c'erano solo i personaggi, il luogo e il tempo, già precisato nel rapporto della polizia sull'episodio nell'ospedale di V., la notte fra il dodici e il tredici maggio", disse Vladimìr R. in un fiato solo, in risposta alla domanda uscita fuori non-so-neppure-io-come: per caso, lei sa forse qualcosa su quel rapimento nell'ospedale di V? , e versò nel bicchiere ancora un po' di barolo, figlio del nobile vitigno Nebbiolo, re dei vini, tagliò una fetta di melone, giallo come un ducato, e mise nel piatto anche una fettina di prosciutto, non affumicato, ma comunque prosciutto. (I volti intorno alla tavola spalancarono la bocca, come se sulla larga terrazza della casa della nostra comune amica Olga che ci aveva invitati a cena, in compagnia di persone per noi finora sconosciute, si fosse messo a soffiare il venticello che quel luglio si faceva normalmente sentire solo dopo la mezzanotte. Già ci inondavano di varie domande a cui per lo più rispondeva lui, nel suo buon italiano, ma dandomi diversi colpetti sotto il tavolo: "Di' anche tu qualcosa! Non riesco né a mangiare, né a bere!" e lanciando battute a Olga: "Costosa questa tua cena, ex-compatriota!". "Che cosa dice?", mi chiedeva piano suo marito Italo, agente di commercio. "Niente... A meno che tu non ti inserisca, ad esempio, con il tema della pesca. Come fai l'esca per i cefali, in dicembre", rispondeva Olga, piè' leggero, portando cibo e vino. La nostra Olga: grandi occhi, sorriso malinconico, e il terrore che qualcuno rimanga solo , terrore-padre della semplice filosofia di Olga, che si era trasmessa anche a Italo, il cui viso non rivelava nulla dell'agente né del commerciante. Italo: la voce bassa, la calma del pescatore appassionato. Niente da fare, dai cefali si saltava di nuovo ai motivi balcanici: vecchi, nuovi e nuovissimi, quelli del primo anno post-Dayton). "E che cosa dovrebbe essere vero?", chiese con una vena di ironia la voce che, qualche minuto prima, aveva appassionatamente sostenuto che senza l'America e il suo aiuto (e le sue bombe, aveva aggiunto ironicamente Italo), i Balcani avrebbero preso per il naso l'Europa ancora per cento e un anni . "Vi racconterò tutto quello che so", disse Vladimir R. (Vladimir R. Classe: 1953. Di Mostar. Giornalista. Moglie: rimasta a Mostar Ovest. Senza figli. In Italia: dall'agosto 1992. Un anno e mezzo a Cervignano, nel campo profughi. Non voglio e non posso andarmene per il mondo , gli disse la moglie una mattina, dopo averlo fatto rilasciare dalle mani della polizia, picchiato a sangue. Motivo: rifiuto di collaborare a un nuovo giornale, e poi non essersi arruolato nell'unità militare di destinazione . Gli aveva procurato tutto: il lasciapassare, il nuovo passaporto ( tutto è costato molto, molto ). Gli aveva comprato degli occhiali da sole con grandi lenti ( aveva gli occhi pesti ), gli aveva preparato due grandi borse ( anche con dei vestiti invernali ), dei panini ( al prosciutto, affumicato ), la birra ( quella di Karlovac, la mia preferita ), lo aveva accompagnato in auto fino a Spalato. Devo tornare prima che faccia buio , aveva detto, lo aveva baciato di sfuggita e, sulla parta dell'ufficio portuale, si era rivolta verso di lui, Vladimir R., con il biglietto, un pezzettino di carta roseo, inumidito dal sudore , per il traghetto Spalato - Ancona , solo andata. E il mare era scuro, troppo scuro, in quel viaggio per un altro paese. Era pieno di viaggiatori-insetti. E io fra loro, e forse uguale a tutti gli altri . Ad Ancona, nell'ufficio di polizia, aveva potuto scegliere: Ravenna o Cervignano. Ravenna, disse, con una voce estranea. Ma lo chiamarono per il pullman per Cervignano. Finalmente compresi cosa voleva dire il tipo che, in un'altra guerra, aveva scritto che nessuno va dove desidera ... Ci eravamo conosciuti a Sarajevo, nel novembre 1991, in un incontro di rappresentanti del movimento per la pace in Bosnia. C'eravamo visti, ancora una volta, nel febbraio 1992 a Sarajevo. Siamo in viaggio per l'inferno, mi disse, rassegnato. Mi ricordo: non gli risposi niente, neppure che la primavera era giunta presto, e profumava di nevi sciolte. Ci incontrammo a Firenze, nel maggio 1993, ospiti di un'associazione pacifista. Mi hanno portato qui perché non rimanessi solo . Allora venni a sapere che stava a Cervignano. Era dimagrito, con la barba incolta, i capelli ingrigiti e unti, con una voce diversa e occhi grigiovitrei, quello era un altro Vladimir R., trasferito da un mondo in cui credeva e per cui aveva lottato . Ma la fede si era assottigliata fino a diventare come un capello invisibile, e la lotta si era tramutata in silenzio, in un altro paese . No, l'italiano non lo parlava né lo studiava. Dopo un po' mi fece visita a Zugliano. Adesso sono completamente solo : Gli erano morti sia il padre che la madre, uno dopo l'altro, suo fratello si era trasferito in Canada ( nel Québec, e mi scrive che non sapeva che anche quel fottuto Québec vuole separarsi, ma adesso lui non vuole più andare da nessuna parte, se tutti prenderanno i fucili, perdio, lo farà anche lui, perché da qualche parte bisogna pur stare, non si può ogni momento andare qua e là ), sua moglie vive con un ragazzo diciott'anni più giovane di lei ( è un caso frequente adesso, là da noi ). Scusami, te ne ho raccontate tante . Come se ne sentissi la mancanza!
La colpa è nella maledizione del temperamento slavo: racconta a qualcuno tutte le disgrazie ..., mi disse accomiatandosi. Due mesi dopo tornò a trovarmi, in compagnia di irriconoscibile, ragazza dalla voce squillante e dalle mani calde, lui, Vladimir R., irriconoscibile,un'altro aspetto, un'altra voce: il viso rasato, i capelli tinti, lo sguardo scintillante, con una camicia di seta verde scuro e un braccialetto d'oro. Parlava in italiano, usando perfino il congiuntivo!
Dall'ottobre del 1993 abita alla periferia di Pordenone, con la squillante Miriam F. Il suo sorriso mi ha restituito alla vita, il suo tocco mi dice: sei vivo, Vladimir! Lavora nella portineria di un albergo ( parla inglese e francese), segue Miriam nell'attività di un'associazione pacifista. E pensavo: si può fuggire ma non sfuggire, ma disperazione e morte continuano ad esistere . Mi disse anche che doveva tutto a un uomo incredibile: mi ha insegnato che non c'è umiliazione maggiore di finire in un campo profughi, in una ex caserma ). Olga spegne le luci e accende tre candele contro le zanzare. Le luci di Udine diventano più forti. In basso una voce giovane grida: "Giulia, ti amo!".
Un motore romba e poi tutto si placa. Vladimir R. vuota il bicchiere, accende un grosso sigaro toscano che lo restituisce ai profumi di giorni lontani, senza malvagità, senza disperazione : solo il profumo del tabacco, solo la punta accesa del sigaro. Perché la nostalgia è una pianta velenosa che cresce lungo strade che si allungano all'indietro . "In quei giorni ero a V. per lavoro. Incontrai per caso Renato, in un bar della piazza più grande di V. A lui devo la mia seconda nascita". "Seconda nascita?", si udì una vocina sottile che un momento prima ci aveva chiesto come avete potuto ammazzarvi fra di voi ? "In breve: nel campo eravamo divisi fra attivi e passivi, cioè fra quelli che ogni giorno uscivano per trovare un lavoro, in nero, di solito in campagna e nelle vigne, e...". "Chi vi aveva diviso?", fece quella stessa vocina cinguettante. "Nessuno... noi da soli: in disperati e lavoratori.
L'ora di lavoro era pagata miseramente, quattro cinquemila... ( è possibile? , interpone una voce. Non lo sapevate ?, risponde amaro Italo). Renato V. è stato il primo che si è messo a cantare nel campo, il primo che non pensava solo a sé, ma che incoraggiava anche gli altri, l'unico che sapeva qualcosa di italiano. Suo padre era stato combattente della divisione Garibaldi. Si era innamorato di una di Sarajevo, era rimasto là, e anche la sua tomba è a Sarajevo, con la stella rossa a cinque punte sulla lapide . I suoi nipoti hanno dovuto andare al campo profughi, perché nessuno dei parenti in Friuli poteva accogliere tutti insieme loro dodici: lui, la madre, due fratelli con le famiglie. Fra i disperati io ero il caso peggiore. Comunque, una volta andai con lui in campagna. Tagliavamo le erbacce in una vigna. Quel giorno sulla strada che passa accanto alla vigna si guastò l'auto della donna con cui vivo oggi... ( ah, come è romantico tutto questo! , si inserì la voce che quella sera ci aveva chiesto perché siete rimasti tanto a lungo nel comunismo).
Renato mi chiamò, mi mollò in mano una grande chiave inglese con cui non sapevo che cosa fare... Lei si chiama Miriam, le prime parole le abbiamo scambiate in inglese... ( Vostra moglie?, chiese la voce che con dolcezza e tristezza aveva parlato della Bosnia come di una occasione persa di un'Europa non solo imprenditoriale ma anche multietnica ).
"Viviamo insieme", rispose brevemente, fra due sorsi, Vladimir R. e continuò: "Renato si è trasferito a V. quando ha ottenuto la cittadinanza italiana. Aveva trovato lavoro in un'agenzia turistica. Ma quando ci siamo incontrati era stranamente agitato, fumava una sigaretta dietro l'altra, parlava piano e poco, come non aveva mai fatto. Abbiamo bevuto un paio di bicchieri di bianco in un silenzio imbarazzante. Poi mi ha chiesto di andare con lui, in ospedale. Per strada, in auto, mi ha raccontato in breve: dieci giorni prima, al lavoro, navigando su Internet, aveva visto un annuncio: l'ospedale di V. cercava urgentemente un interprete per la nostra lingua. Come se qualcuno gli avesse sussurrato: Vai! è andato, la sera.
Il medico di turno gli ha affibbiato un registratore e lo ha accompagnato nella corsia del reparto di traumatologia, dicendo: Registri e traduca . Nella stanza c'era il marito di lei (cinquant'anni, balbuziente, con le mani sgradevolmente umide). Lei era tanto felice di andare alla manifestazione di protesta contro il razzismo. Perché non si deve stare zitti come in Bosnia, prima della guerra. Eravamo in un gruppo di miei amici, anarchici. Soffiava, con il viso radioso, in un fischietto. Da qualche parte è piombata una pietra.... I referti non mostrano fratture al cranio, ma non parla più italiano, mi disse suo marito. Quel viso mi ha detto Renato, neppure il turbante di bende poteva imbruttirlo. Come se un raggio di luna fosse caduto sul cuscino, celeste tenero! Che parole! Quando penso al suo gergo fiorito delle strade di Sarajevo!" "E poi? Che cosa è successo dopo?" fa impaziente la voce che individua la ragione principale della jugo-tragedia nel comunismo, la disgrazia mondiale numero uno . " E le mani, come sono le mani di Lela! L'incarnazione della tenerezza , mi ha detto Renato, commosso. Il marito di Lela gli ha offerto una sedia ed è uscito dalla stanza, a fumare una sigaretta. Lei, Lela, ha aperto gli occhi e ha mormorato: La sedia non è libera. E davvero , raccontò Renato, sulla sedia c'erano dei giornali che ho tolto, ma lei ha ripetuto la stessa cosa. Ho sentito dei brividi che mi hanno percorso dai piedi alla testa: c'era qualcun altro nella stanza? Quella sera si è dimenticato di attaccare il registratore. Non vedeva l'ora che arrivasse la sera seguente. L'ho trovata sola, sveglia, il cuscino sollevato, con un sorriso ai lati della bocca. No, non mi ha chiesto chi sono e perché ero venuto, ma mi ha ripetuto di non sedermi su quella sedia . Si è arrischiato a chiedere un confuso perché , che si sentiva a malapena. Là c'è lui, Ivan, non lo vedi?! Attento a non inciampare nella sua valigia. Anche un momento fa mi ha chiamato, per andarcene, ma io sono così stanca. Non è vero che non c'è, perché i morti hanno le mani fredde, che puzzano di terra fredda e pesante, attraverso cui non si vede né il sole, né la luna, né le stelle. Per prima cosa, lo dico a voi, a tutti, andremo a Chartres, a vedere le vetrate in cui abita la luce ... Di sera in sera Renato siede accanto al letto di Lela, dai suoi brevi racconti sparsi fra il sonno e la veglia collega in un qualcosa i frammenti della sua vita. "E il dottore? Che cosa ha tradotto al dottore quel suo Renato?", chiede la voce che aveva insistito che in Bosnia non ci sono chiese innocenti . "Quasi tutto, tranne la presenza di Ivan nella stanza dell'ospedale" rispose Vladimir R., e continuò: "Lela aveva lasciato Sarajevo nell'aprile 1992, quando era ancora possibile uscire dall'assedio. Con lei doveva andare anche Ivan, il suo ragazzo, studente di architettura come lei. Prima a Belgrado, poi in Slovenia attraverso l'Ungheria, poi oltre, in Canada o in Australia. Quella mattina neppure nell'angolino più remoto del suo cervello poteva immaginare che Ivan non sarebbe venuto. Nel corridoio del suo appartamento stava la valigia di Ivan, sulla valigia i biglietti aerei per Belgrado per cui il padre di lei aveva pagato una piccola fortuna. Quattro ore prima della partenza dell'aereo, Ivan telefona: Io non vengo, ma tu vai.. Quando tutto questo sarà finito, ritorna. Intanto, vivi e godi la tua vita, liberamente. .. La stanza si trasforma in un turbine , lei scivolò lungo il muro. Nell'incoscienza vedeva lui in fondo a un deserto orizzonte di sabbia mentre continuava a sussurrare, con voce vibrante: tutto questo passerà, tu ritornerai . Era molto lontano, ma lei sentiva il suo alito sul viso, e l'odore di quel giorno, delle sigarette "Nani", e poi, al posto di lui, di Ivan, su quello stesso orizzonte si stagliava la valigia di Ivan e, accanto alla valigia, una grande àncora a cui aderivano alghe scure e una quantità di conchiglie, che con uno stridore metallico si aprivano e si chiudevano . Più tardi, quando riconobbe il viso di suo padre, improvvisamente invecchiato, con efelidi color bruno cenerino sulla fronte, e quello della madre, con le fossette che un tempo facevano allegramente capolino sulle guance , si alzò e partì, ma non ricorda come fosse giunta all'aeroporto, né se in quel momento si sparasse. Mentre l'aereo rullava sulla pista, Lela lanciò ancora una sguardo verso l'edificio dell'aeroporto: attraverso le grandi vetrate della sala d'aspetto si vedevano molti visi, confusi, e mani in movimento, mentre salutavano i viaggiatori dell'ultimo volo sulla linea, un tempo regolare, Sarajevo-Belgrado-Sarajevo . Un viso le sembrò il suo, anche se tutti apparivano uguali: macchie biancastre dietro il vetro . Forse è così lo sguardo da lontano di quelli con cui nel nostro ieri vivevamo, amavamo, morivamo... "Come è arrivata in Italia?", chiede la voce che dubitava che la Bosnia fosse l'unico paese di odio al mondo. "Il racconto non è breve, ma io cercherò di accorciarlo: a Belgrado non c'era ad aspettarla un'amica di sua madre, come era stato progettato. Non aveva potuto trovare un biglietto per la corriera diurna per Budapest. Buia e ignota le era apparsa la pianura pannonica, infinitamente lunga e angosciante l'attesa alla frontiera ungherese. Qui non si sa mar perché si aspetta , le disse uno sconosciuto compagno di viaggio e le offrì del cognac da una bottiglia avvolta in carta da giornale. Prima ho rifiutato, ma alla seconda offerta ho accettato, per la gola mi è passato un sorso ardente e amaro, ho sentito un sollievo. Così, figlia mia, siamo uomini, disse lo sconosciuto, nel mondo si è ammucchiata tanta schifezzfetta che non ti lascia respirare . Suo fratello l'avrebbe aspettata alla frontiera ungherese-slovena, nervoso per il ritardo della corriera Budapest-Lubiana stranamente silenzioso . A casa sua, a Ilirska Bistrica, di notte ascoltò come nell'altra stanza lui, suo fratello,litigava con sua moglie: lei è mia sorella! Ma io sono tua moglie, c'è anche il campo profughi, chissà quanto durerà quella vostra guerra! I telegiornali sono pieni di immagini di Sarajevo in fiamme. Talvolta le sembra di vivere in un brutto sogno, e quando mi sveglierò - nulla sarà come in quel sogno . Dopo molti tentativi, un radio-amatore ( noi crediamo al messaggio all'uomo, al legame fra uomini , le disse quell'uomo) riesce ad ottenere un collegamento con i suoi a Sarajevo. Dall'apparecchio: la voce di papà accompagnata da un ronzio vertiginoso. Così il vento ulula sopra i lontani mari del sud? , si chiese Lela e pensò ai viaggi mai realizzati con Ivan. Lui? , chiese al padre. Sta bene, ha chiesto di te, è felice che tu sia al sicuro . All'inizio di maggio Lela è a Gorizia: a casa di suo fratello era diventato insopportabile. Ha abbastanza denaro per alcuni giorni in albergo. Fa il giro dei bar e dei ristoranti, per trovare un lavoro, ma non sa l'italiano e la rifiutano. Comunque, riesce a trovare qualcosa: si prende cura di una donna anziana, che sa un poco di sloveno. Si trasferisce da lei, in una casa in una strada del vecchio nucleo storico. Dopo un po' l'anziana donna si ammala, finisce in ospedale. La sua famiglia le troverà un lavoro come cameriera in un albergo di Lignano, naturalmente in nero perché Lela ha un permesso di soggiorno turistico. Una sera incontrerà Elio, un anarchico di V., che la prenderà con sé. Venticinque anni più anziano di lei, separato, padre di due figli, lui le dirà: vieni con me , e lei andrà, perché per lei fa lo stesso, la stanchezza ha avuto il sopravvento. Per un anno e mezzo ha vissuto nel suo appartamento, aveva una stanza per sé. Non mi toccava, né io lui . Una sera Elio era tornato da Genova, stanco e afflitto dal funerale della madre, e lei era passata nella sua stanza. Perché era terribile vedere che uno è tremendamente solo, nella stessa casa . Nel gennaio 1994, a Milano, all'edicola davanti al consolato bosniaco, Lela comprerà "Oslobodjenje", per la prima volta dall'inizio della guerra. Su una pagina, in un elenco di morti, leggerà il nome di Ivan. Il mondo è un oblio e una lontananza che devo attraversare , pensò e si ricordò di quel suo godi la tua vita . Di questo aveva taciuto con Elio, anche quando lui pronunciava il suo impellente: Lela, raccontami di te . Quella notte lo sognai, vivo e sorridente. "E il rapimento?", chiede la voce che ritiene che tutte le guerre sono programmate in certi irraggiungibili laboratori del male . "Succederà quella sera, dopo la mia uscita dall'ospedale. Verso mezzanotte Lela si sveglierà, si alzerà dal letto e dirà: Portaci a Sarajevo... Cioè, lei e Ivan . Sono usciti dalle scale di sicurezza. Lei si girava ogni momento chiedendo se venisse anche lui e che facesse attenzione a non scivolare . Viene, viene , la rassicurava Renato. Gli sembrava un'ombra avvolta nella coperta. La portò nel suo appartamento: le fece mettere i suo vestiti, in testa le mise un grande berretto e la stessa notte partirono per Sarajevo, in tre , come voleva lei. ( I suoi documenti? , chiede qualcuno). Il suo passaporto era nell'appartamento di Elio, e quindi Renato prese il passaporto di una ragazza che conosceva. ( A mezzanotte?, si stupisce qualcuno). Sì, a mezzanotte. L'ospedale denunciò il fatto alla polizia solo la mattina dopo, ma il rapitore e la rapita erano già in Bosnia. ( Quindi, là c'è veramente la pace! , si intromette la voce che citava le statistiche sull'aumento del numero di stranieri in Friuli ). I giornali prima hanno scritto che Renato era forse un magnaccia , che l'aveva portata via a forza , ecc. Poi, che si trattava di una storia d'amore con il tipico triangolo ... Hanno continuato a scrivere, i giornali, e poi hanno smesso". "Ma Renato non è innamorato di quella ragazza?, dice qualcuno. Vladimir R. sembra passar sotto silenzio questa domanda, e ne pone una, a tutti: "Come immaginate la fine di questo racconto?" Le sedie strisciarono sul pavimento della terrazza, come a un ordine inespresso tutti ci accostammo al tavolo. La luce delle candele oscillava davanti al fiotto delle parole pronunciate, molto vivaci, organiche, come se non vivessimo in un'epoca di comunicazioni indirette: Lela ritorna in sé a Sarajevo, non riconosce Renato, poi arriva Elio e la riporta a V.; Renato la porta subito al cimitero, perché lei si convinca che Ivan è morto, poi rimane con lei a Sarajevo per vivere insieme, felici, perché la cosa più bella è stare nel proprio paese, per l'amore e per la vita e per la morte; no, Ivan non è morto, ma è un invalido e non vuole che Lela lo veda mai così: ha pregato un giornalista di mettere il suo nome nella lista dei morti, ma Renato lo troverà e Lela rimane con Ivan; no, è molto più probabile che Lela si sia convinta che Ivan non c'è più, e quindi va con Renato in America o in un altro paese; forse è proprio così, ma Elio non si rassegna, assolda un investigatore privato che troverà il loro indirizzo all'estero e organizzerà un nuovo rapimento, così Lela è di nuovo a V, con Elio, ecc. ecc. "Perdio, Vladimir, ci dica com'è la fine della storia!", interrompe qualcuno, impaziente. No, Vladimir R. non raccontò la fine della storia, come se davvero al mondo ci fossero storie che non hanno la loro fine . Il fumo del suo toscano sembrava non si dissolvesse, ma quasi lo avvolgeva, tutto intero, e mi sembrò che fosse seduto su una nuvola notturna che si sarebbe presto messa in moto, al primo alito di vento più forte. "Guardate! Una stella cadente!" gridò qualcuno. Troppo tardi guardai in alto (registriamo il fascino delle immagini in movimento grazie all'immobilità del nostro occhio, mi venne in mente la prima lezione di un corso sul cinema): vidi solo una codina di luce color rosso spento in transito per il vasto cielo stellato.
(Anno 0, Numero 0, giugno 2003.)
(Racconto tratto dall'antologia "Le parole nel vento" : Testi migranti pubblicati dalla rivista El-Ghibli, Carta edizioni, insieme alla Provincia di Milano, 2009.)
Bozidar Stanisic (Visoko, Bosnia,1966) già professore di lettere a Maglaj, località a nord di Sarajevo, dal 1992 vive con la sua famiglia in Friuli, a Zugliano.
Oltre a offrire il suo contributo letterario, pubblicistico ed educativo a diverse iniziative di pace e non violenza per i diritti civili dei rifugiati e degli stranieri, Stanisic ha sempre collaborato alle iniziative culturali dell'Associazione - Centro di accoglienza "E. Balducci", con cui ha già pubblicato tre raccolte poetiche: Primavera a Zugliano, "Non-poesie" e Metamorfosi di finestre. Diverse di queste liriche sono state incluse nelle raccolte 'Quaderno Balcanico, Cittadini della poesia", collana diretta da M. Lecomte (1986) "Conflitti - Poesie delle molte guerre", a cura di I. Landolfi (2001) e "Ai confini del verso", a cura di M. Lecomte (2006), pubblicata anche in inglese, negli USA. Grande attenzione gli dedica "Nuovo Planetario Italiano. Geografia e antologia della letteratura della migrazione in Italia e in Europa" a cura di Armando Gnisci. In prosa, oltre a numerosi articoli per riviste e quotidiani, ha pubblicato la raccolta di racconti "I buchi neri di Sarajevo" (1993), Tre racconti (199B), Bon voyage (2003). Alcuni dei suoi testi sono stati tradotti anche in sloveno, inglese, francese, albanese e giapponese.
A ottobre 2007 esce li cane alato, Zevio (Verona), Perosini Editore, sette racconti.
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