RACCONTI INFINITI
Cristina Fernández Cubas
Ci sono così tanti narratori come tanti modi di affrontare un racconto. Un buon racconto rimane nel lettore per molto tempo anche dopo averne terminato la lettura. Il bicentenario di Edgar Allan Poe, pioniero del racconto moderno, coincide con "un momento meraviglioso".
Giorni fa, mentre facevo colazione nel mio abituale bar, ho iniziato a leggere l'unico giornale libero rimasto sul bancone. Erano già quasi le undici e mi sono stupita di averlo trovato ancora in buon stato. Ho iniziato dalla fine, un'intervista. O, meglio, da una delle risposte che un lettore anonimo si era dato la pena di mettere in risalto avvolgendola con un tratto verde che disegnava il profilo di una nube. C'è gente che ha la mania di scarabocchiare sui giornali altrui, e altra, tra cui mi annovero, che non può resistere nel guardarne i disegni, sottolineati o i segni. L'intervistato era John Michael Bishop, rettore dell' Università della California, premio Nobel e autore di notevoli scoperte nel campo della ricerca medica. Mi ha richiamato l'attenzione il fatto che, parlando delle sue scoperte, insistesse sull'importanza di "seguire l'olfatto", cosa che, all'inizio non mi è sembrata molto scientifica. Ho continuato a leggere. "l'olfatto", infatti, è un modo per nominare l'intuizione, ma, come spiegava più avanti, un'intuizione "che si alimenta di conoscenze razionali: di tante cose che non sa di sapere. E all'improvviso.Connesso! Le rintracciamo! Puoi essere sotto la doccia, per strada, in laboratorio, o in sogno.". Il lettore anonimo aveva sottolineato in sogno . Ho guardato intorno. Due impiegati d'ufficio, il parrucchiere del quartiere e un gruppo di studenti stranieri. Chiunque, oltre ad una penna verde, poteva aver avuto un sogno rivelatore quella notte. E sono tornata alla nube. Alla risposta di J. M. Bishop, la frase che, allora mi sono accorta, andava ben oltre il campo della ricerca scientifica. Ho pensato al racconto. E ho pensato anche a quella frase che mi era molto piaciuta, già prima di sapere che mi sarebbe piaciuta.
Molto spesso il processo di scrittura assomiglia a un lungo corridoio in cui ci addentriamo con una certa tranquillità e a passo deciso.
Nel lungo corridoio, si aprono porte, si scorgono finestre, si disegnano soppalchi o si presentano cantine o pozzi profondi.
Nel territorio del racconto di solito accadono un monte di fattori spesso assurdi; o almeno contraddittori. Il racconto non gode della stessa accettazione in tutte le nazioni, cosa risaputa, né tantomeno dello stesso rispetto. A volte, anche, in casi estremi, narratori e lettori, (il lettore gioca un ruolo importante in ciò di cui stiamo parlando), hanno la sensazione di appartenere a una setta, una singolare fratellanza di iniziati protetta da studiosi infaticabili che sguainano la spada alla prima occasione in difesa del genere. Anche se, chi è che lo attacca? Nessuno, che io sappia. Almeno apertamente. Si tratta, dunque, di un silenzio, di "omettere", di situare il genere "racconto" in un luogo abbastanza discreto fatto di ipotetiche scaffalature. E tuttavia, quante volte si rompe questo silenzio! Agli scrittori si chiede delle loro opere. Ai narratori del racconto. Il genere deve avere qualcosa di misterioso per aver dato luogo a tante e tante pagine su di sé. E negli intenti di approssimazione,nelle numerose "poetiche", che, altra curiosità, oltre che ai poeti ci viene chiesto anche a noi narratori, troviamo una serie di premesse in cui quasi tutti gli autori ci troviamo d'accordo. Parliamo così di sfericità, del valore dello sguardo, dell'importanza di "quello che non si dice", di concisione, di intensità, di economia, di equilibrio, o di ciò che, possibilmente e alla fine, un buon racconto è quello che va al di là della parola "Fine" e segue il lettore anche molto tempo dopo averlo terminato. Ma qui inizia e finisce la concordia. Perché c'è di più. E in questi tentativi di avvicinamento, parola che preferisco a "definizione", per quello che quest'ultima possa avere di custodia, si affaccia sempre qualcosa che, all'improvviso, ci allontana. Non sappiamo cosa sia. E perché saperlo? Forse è in questo che si nasconde l'essenza segreta di un buon racconto. Un soffio, una presenza assente che resiste felicemente dall'essere inquadrata. Qualcosa molto simile a una scintilla, un lampo, la "connessione" di cui parlava Bishop, e che può succedere in qualsiasi momento. "Sotto la doccia, per strada o nel laboratorio o in sogno.".
È possibile che almeno in questo punto siamo tutti completamente d'accordo. Esistono quasi tanti narratori come tante maniere di affrontare un racconto e, persino, se un autore ci apre il suo retro bottega, percepiremo subito che ogni racconto ha obbedito ad un diverso impulso. Sarebbe assurdo pretendere di contenerli. Ci sono racconti che si scrivono tutti d'un fiato, con una facilità stupefacente, come se stessero dormendo in un posto recondito del cervello e l'autore, in funzione di amanuense di se stesso, non dovesse far altro che strapparli dal loro letargo e trascriverli. Altri, invece, agiscono come autentici sequestratori. Nascono all'improvviso, si installano nella nostra testa, sul foglio, nella nostra vita, fallendo al minimo intento di diserzione, conquistandoci corpo e anima e lasciandoci praticamente senza fiato. Solo alla fine, terminata la cattività, torniamo ad essere quelli che eravamo prima e ci sentiamo liberati. Cortázar, che conosceva perfettamente queste estasi, li definì "racconti contro il tempo" , apprezzamento applicabile solo al genere, perché sembra più che improbabile che, in questo speciale stato di possessione, si possa iniziare e terminare un romanzo senza che l'autore si annoi nell'intento. Ma non sempre la creazione risulta così rapida o compulsiva. Molto spesso, e ora faccio appello soprattutto alla mia esperienza, il processo di scrittura assomiglia a un lungo corridoio in cui ci addentriamo con una certa tranquillità e passo deciso. Abbiamo un obbiettivo nella mente e un itinerario a portata di mano. Crediamo, da qui la nostra apparente decisione, di sapere dove andiamo. Ma non è molto chiaro che sia così. Perché sebbene, come ha detto Borges, risulta "un gran sollievo conoscere la fine", questo non implica che, per forza, arriviamo dove ci siamo proposti. Nel lungo corridoio, a destra e a sinistra, sul tetto o sotto i nostri passi, si aprono porte, si scorgono finestre, si disegnano soppalchi o si presentano cantine o pozzi profondi. E l'autore, molto sicuro di seguire implacabile il tragitto previsto, può, al contrario, cedere alla tentazione di curiosare, attraversare porte, affacciarsi alle finestre o nascondersi all'interno dei soppalchi. Corre il pericolo di perdere la rotta, di sicuro. O di perdersi in tutti i sensi. Anche se è possibile che, dopo le sue piccole incursioni, torni al piano originario e termini approdando nel porto ameno. O forse il porto, il "sollievo" di Borges, non è altro, come pensavamo, la destinazione finale,ma solo una scala che deve portare ad un altro porto. O una successione di porti. Quando ciò accade, così, all'improvviso, senza preavviso, l'autore si sente come un mago che ha appena estratto un animale vivo dal cappello. Una colomba o un coniglio che non ricordava di aver nascosto nella fodera o nelle sue enormi tasche con doppia cucitura. E se ne meraviglia. Non potrebbe essere altrimenti.
Ma non sto parlando di magia né di miracoli, ma di qualcosa di tanto semplice come la scintilla, il lampo; l'improvvisa connessione con quelle "cose che non sappiamo di sapere" E tuttavia sono lì. Come nelle tasche del prestigiatore dimentico, o come nella vecchia e inospitale osteria spagnola, minuziosamente descritta Richard Ford, tra gli altri viaggiatori di talento, e riscattata da Jünger nelle ultime righe della sua Visita a Godenholm. La nostra osteria è un crocevia di cammini, uno scambio di storie ed esistenze. Ma anche un luogo di strampalate credenze in cui gli ospiti, in definitiva, non trovano "più di quello che portano nel loro equipaggiamento". Parole che un giorno mi impressionarono e che se qualcuno fiutasse nei miei scaffali, le scoprirebbe tuttavia sottolineate in rosso. In un timido, rispettoso e ogni volta più scolorito tratto di lapis rosso.
(Articolo tratto da El País del 24 gennaio 2009. Traduzione di Samanta Catastini, www.serviziotraduzioni.net)
Cristina Fernández Cubas (Arenys de Mar, Barcelona, 1945) ha pubblicato di recente il libro Todos los cuentos (Tusquets, 2008. 507 pagine. 24 euro), che riunisce la sua opera di 25 anni: venti racconti di cinque libri -Mi hermana Elba (1980), Los altillos de Brumal (1983), El ángulo del horror (1990), Con Agatha en Estambul (1994) y Parientes pobres del diablo (2006)-, y El faro, omaggio a Edgar Allan Poe.
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