L’INTEGRALISMO DELLA CORSA
Franco Cassano
(…) In genere la discussione sul rapporto tra culture segue un copione collaudato e sempre uguale che ruota tutto intorno al (grande) tema della tolleranza e del rapporto con l'altro. Accade così che ci si divida tra coloro che assolutizzano il valore del rispetto per le culture «altre» e coloro che ritengono contraddittorio con il valore della tolleranza il riconoscimento di pratiche intolleranti o comunque lesive dell'autonomia e dell'incolumità fisica degli individui (si pensi all'infibulazione, alla poligamia, alla lapidazione dell'adultera, alle punizioni corporali o alla pena di morte).
Non vogliamo sottovalutare questa discussione, ma riteniamo che essa debba essere rivista alla luce del rapporto di forza tra la cultura occidentale e le altre culture, tra la cultura fondata sul primato dell'illimitata produzione e le culture che hanno altrove il loro centro e il loro equilibrio. Le patologie da deculturazione di cui abbiamo parlato non nascono dai limiti intrinseci di alcune culture, ma dall'inserimento coatto in un modello dominante che impone loro di trasformarsi o perire. Sia la prostituzione che la deriva integralistica sono due forme opposte e complementari di reazione (adattiva o repulsiva) ad uno squilibrio insostenibile. Di conseguenza nell'agenda della discussione prima del contenzioso cui abbiamo accennato (e certamente non rimuovendolo) va messa l'intolleranza di un modello che costringe tutti gli altri a cambiare per poter sopravvivere. Tutto ciò non solo perché discutendo delle relazioni tra culture è giusto porre in primo piano l'intolleranza più forte, quella che si è fatta struttura del mondo e pensa in tal modo di mimetizzarsi, ma anche perché lo squilibrio che essa crea costringe le culture più deboli a versioni deformate e caricaturali di se stesse. Come già si è detto l'integralismo non è una semplice forma di tradizionalismo, ma una riproposizione reattiva e caricata degli antichi costumi che espunge da sé quelle forme di tolleranza pur presenti nella tradizione e che esso (preso dalla sua logica di guerra) vede solo come subalternità al nemico.
E quindi l'integrismo asettico dello sviluppo quello che bisogna mettere per primo in discussione. Senza il suo declino è difficile che si riesca a favorire quello degli altri. Ma perché quell'indebolimento abbia luogo occorre un lungo processo di trasformazione culturale, occorre che venga frenata la progressiva riduzione dell'identità culturale dell'Occidente all'imperativo dell'espansione illimitata, che la resistenza alla mercificazione e alla tecnicizzazione di tutti gli ambiti di vita non sembri più un arcaismo, il risentimento di intellettuali superati dai tempi o la pretesa testimoniale di un papa. Occorrerebbe in altri termini ritrovare non solo all'esterno, ma anche all'interno dell'Occidente un nucleo duro ed irrinunciabile di imperativi capaci di contrastare efficacemente il progredire crescente della mercificazione. Si incontrano qui problemi delicati e impopolari che prima o dopo occorrerà affrontare: dalla vendita del corpo a quelle degli organi, delle armi, dell'immagine e della notizia, nulla sembra più resistere alla mercificazione universale. Anche la scienza sembra non riconoscere vincoli al suo sviluppo e più di una volta accade di ascoltare discorsi sull'impossibilità di porre un limite al «progresso scientifico» e alla sperimentazione. Il problema dei limiti da impone allo sviluppo è come un punto imbarazzante nell'odg la cui discussione tutti fanno slittare rinviandola ogni volta alla riunione successiva. Affrontare il problema del limite significa infatti aprire una fase culturale nuova e difficile che non sembra prossima nonostante la sua urgenza. E questo per una ragione che Paul Valéry ha detto in modo semplice ed efficace:
Nulla (...) è per noi più difficile da concepire della limitazione posta alle velleità intellettuali e della moderazione nell'uso della potenza materiale.
Se è vero che la nostra occupazione favorita consiste «nel rendere l'universo troppo piccolo per i nostri movimenti», controllare l'assolutizzazione dello sviluppo implica andare al cuore della nostra identità, interrogarsi sulla sua retorica dell'infinità. E allora, come in un trauma infantile, potrebbe accadere di scoprire inaspettatamente la relazione intima tra l'assolutizzazione dello sviluppo e valori che in pubblico fingono di non conoscerla e guardano dall'altra parte. E in questa zona che si incontrano antiche e dolorose rimozioni, domande che si fuggirebbero volentieri: può una società confederare l'accrescimento illimitato delle libertà senza incrementare altrettanto illimitatamente la produzione e «l'immane raccolta di merci»? La mercificazione è un mostro estraneo o non è invece la condizione e la conseguenza inevitabile dell'incremento delle libertà? È possibile un'idea alta e severa delìe libertà che eviti le esternaìità e le discariche in un altro mondo? E un'ipotesi di questo tipo sarebbe popolare?
Ritornando al problema da cui abbiamo preso le mosse potremmo concludere: il dovere di ogni intellettuale è quello di condannare il terrorismo omicida degli integralisti e di salvare tutte le voci che dall'interno di altre culture hanno cercato un dialogo creativo con la nostra. Ma da solo questo atteggiamento è insufficiente. L'Occidente può fare un passo decisivo contro l'integralismo altrui solo avviando la decostruzione del proprio, di quella camicia di forza imposta sia all'interno che al mondo intero instaurando la legge della corsa e della competizione. La repressione muta le sue forme con il variare delle culture e occorrerebbe chiedersi quale sia la forma che essa assume nella nostra società e chi oggi si trovi in una posizione analoga a quella degli intellettuali traditori contro cui si scaglia la rabbia degli integralisti. Forse il gran parlare del mercato, del legame con il mondo produttivo, della verifica incessante della produttività dei lavori e dei saperi, forse l'esaltazione sorridente di un mondo acquistabile che rimbalza dai muri di ogni nostra città permettono di avere qualche indizio sulle caratteristiche interne del nostro integralismo, sui suoi «intellettuali organici» e sulle sue vittime. La camicia di forza di cui parliamo è nella pervasività della metafora dell'azienda, nei dogmi della competizione internazionale amministrati dai sacerdoti del PIL, nell'edonismo sistemico del consumo, nell'apologia della volgarità di massa. Battersi contro questo imprigionamento insonorizzato e accattivante diviene ogni giorno più difficile, e si accusa chi lo fa di essere un irresponsabile o un letterato (riconoscendo in tal modo alla letteratura la libertà di dire le verità più scomode). Il nostro integralismo non assassina: rende obsoleti, licenzia, mette fuori mercato. Esso ha altri templi, altri breviari, altre pene, altri inferni. Chi sei se non possiedi privatamente, se non hai qualcosa di soltanto tuo su cui appoggiare e rendere concreta la tua libertà?
Solo smascherando la repressione mimetizzata nell'integralismo freddo della competizione e nell'inquieta religione del possesso e del consumo il dialogo può tornare ad essere paritario, può evitare che una cultura sia obbligata a scegliere tra la rinunzia alla propria dignità e la demonizzazione dell'Altro. Ogni strategia contro l'integralismo altrui che salti questo punto è destinata a imbattersi in difficoltà crescenti e a non poter far nulla di serio per aiutare coloro che pure vorrebbe difendere. Questo sforzo non è in contraddizione con la nostra identità e la voce che parla non si colloca tra le culture, ma all'interno di una di esse. L'atto più universalistico e coerente del nostro universalismo dovrebbe consistere nel riconoscere le proprie patologie e la propria parzialità.
(Tratto da Il pensiero meridiano, Laterza editori, Bari, 2001.)
Franco Cassano (Ancona, 1943) insegna Sociologia e Sociologia della conoscenza all’Università di Bari. Tra le sue opere: Il teorema democristiano (Bari, 1979), Aprossimazione (Bologna, 1989), Partita doppia (Bologna, 1993) e Paenisola. L’Italia da ritrovare (Bari, 1998).
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