CORPI DI FEMMINE


Boris Pahor


– Brano tratto dal romanzi Necropoli

 


(…) Sì, è il più basso; e subito al di là del reticolato si alza la muraglia dei pini. Ma anche adesso, come allora, non ho la sensazione di trovarmi in presenza di un bosco. Sono ingiusto, lo so, ma non posso fare a meno di conside­rare quegli alberi come oggetti mummificati, come ruderi che, riportati alla luce, siano stati riordinati e recin­tati. Mi rendo conto che, per tutto il tempo della mia permanenza qui, non ho guardato neppure una volta al bosco come a una parte della natura libera. Ricordo con chiarezza che l'annientai, lo polverizzai nella mia mente la sera in cui vennero condotti al campo un centinaio di alsaziani, che furono ammucchiati nelle celle di questa baracca. Poi, nella fredda notte di montagna, rosse lin­gue di fuoco sgusciarono senza interruzione da sotto al tettuccio che copriva il fumaiolo. In quel gruppo c'erano alcuni uomini e anche un prete, ma in maggioranza erano ragazze. Avevano di sicuro il presentimento di dove sarebbero finite: non esisteva probabilmente alcun alsaziano che ignorasse la presenza di un ossario, qui, fra i suoi monti, a quasi mille metri di quota. L'avevano visto in pochi, certo, ma tutti sapevano che c'era, che era fatto a ripiani, che sul ripiano più in basso un fumaiolo fumava senza posa. Le cose di questo tipo si vengono a sape­re, come il fatto che sul pendio della morte abbaiavano dei cani lupo. Così anche quelle ragazze dovettero avere il presentimento di ciò che stava per accadere, quando gli autocarri cominciarono a salire su per le curve ripide. Forse avevano qualche speranza, dal momento che gli alleati erano già a Belfort, e dovevano forse fare anche un po' di affidamento sull'aiuto dei partigiani alsaziani; ma in fondo al cuore, là dove l'uomo raramente si sbaglia, quelle ragazze avevano capito: proprio come noi che, dalle baracche silenziose, seguivamo l'arrivo dei camion che scendevano lentamente la ripida strada che fiancheggia i ripiani, e percepivamo nell'aria una vibrazione nuova. Rendersi conto che i nostri padroni si stavano ritirando e che non sapevano cosa fare di quei loro prigionieri fu come una lama di luce che colpisce occhi abituati alle te­nebre; e diventammo irrequieti, anche se quell'irrequie­tezza venne schermata dalla baracca che come una grigia locomotiva senza ruote vomitò fuoco e fumo nel cielo di montagna per tutta la notte, e una corona infuocata re­stò sospesa sulla cima del fumaiolo come la fiamma del tubo di scarico di una raffineria clandestina. Lunghi mesi ci avevano abituati al fumaiolo e a quell'odore flut­tuante nell'aria, ne eravamo saturi, perciò guardavamo come da un cantuccio sicuro le ospiti che provenivano dal mondo dei vivi. Il misero senso di sicurezza che la fa­miliarità con la fine ci offriva contribuì all'improvviso ri­sveglio di un'ottusa rivolta contro la distruzione di quei corpi vivi, sodi e lisci. Era una tensione sorda e immobile, che nasceva dall'impotenza e si perdeva nell'impotenza, una virilità risorta all'improvviso che, davanti alla rivela­zione della distruzione di corpi di donne, toccava direttamente il nulla. Eros e Thanatos accomunati con una crudezza terribile; eravamo maschi incatenati ai nostri corpi inariditi e alle baracche di legno, e allo stesso tem­po eravamo amanti risvegliati ai quali, proprio nell'atti­mo in cui riaprono gli occhi, viene rivelata la condanna a un'eterna solitudine. Era la folle consapevolezza che il fuoco ci avesse ucciso la madre prima del nostro concepimento, e l'assurdità dell'esistenza umana procedeva di pari passo con una virilità nata morta di fronte a quel fu­maiolo col suo tulipano rosso sangue in cima. Allo stesso tempo la coscienza si ribellava a un'esperienza dell'as­surdo così profonda, che minacciava di frantumare il fra­gile scudo interno alzato contro lo straripare del nulla; ma questo tentativo di ribellione contro l'assurdo era un tentativo sterile, e l'attaccamento alla sopravvivenza fi­niva per accrescerne le dimensioni, mentre il destino di quei corpi di femmine incrementava la dolorosa, impo­tente rivolta nei nostri corpi stremati di maschi. Ora lo so che avremmo dovuto balzare fuori dalle baracche, precipitarci giù per le gradinate, assalire tutti insieme la baracca dalla quale un' SS conduceva, a una a una, le ra­gazze nella baracca col forno, distante venti passi. Le mi­tragliatrici, sparando dalle torri di guardia a destra e a si­nistra, avrebbero falciato la nostra massa zebrata, i grandi riflettori l'avrebbero abbagliata, ma quella fine ci avrebbe salvato dall'angoscia e dall'umiliazione che si erano de­positate in noi. Il pensiero, però, in quella moltitudine affamata si era inaridito, se n'era andato insieme al succo vitale che scorreva via dai corpi con la diarrea. Perché quando la pelle diventa pergamena e le cosce si riducono allo spessore delle caviglie, anche i palpiti del pensie­ro diventano flebili bagliori di una torcia esaurita, guizzi appena percepibili che di quando in quando si levano dall'inerzia prolungata di cellule intimidite, sono bollicine che vagano a lungo sul fondo del mare e poi esplodono non appena raggiungono la superficie. Sì, e anche se in tutto questo il bosco era innocente, quella volta lo rimproverai di offrire, fitto com'era, un nascondiglio alla dannazione. Insieme al bosco condannavo tutta la natura, capace di slanciarsi verso il sole per linee verticali, ma incapace di muoversi nel momento in cui la luce del sole perdeva qualunque senso. Provavo ostilità verso quegli alberi, perché dalla loro ombra sarebbero dovute balzare fuori le schiere dei tanto attesi combattenti che avrebbero impedito il sacrificio di quelle ragazze alsa­ziane, che si consumava invece nel silenzio. Così io allo­ra proiettavo sul bosco tutta la mia impotenza; ed eccolo qui, ora, muto e rigido davanti a me, come se quella ma­ledizione gli fosse cresciuta dentro finendo per confon­dersi con la sua più intima realtà. (…)


( Brano tratto dal romanzo Necropoli , Fazi editore, Roma, 2007. Traduzione di Ezio Martin.)




Boris Pahor
:Nato nel 1913 a Trieste dove vive tuttora, dopo la laurea a Padova ha insegnato Lettere italiane e slovene nella città giuliana. Durante la seconda guerra mondiale ha collaborato con la resistenza antifascista slovena ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti, esperienza che lo ha segnato fortemente e di cui si trova traccia in gran parte della sua ricchissima produzione letteraria. I suoi libri, scritti in sloveno, sono sttai tradotti in francese, inglese, tedesco, catalano, finlandese e perfino in esperanto. In Italiano, oltre a Necropoli, sono stati pubblicati Il rogo nel porto (Nicolodi, 2001), La villa sul lago (Nicolodi, 2002) e Il petalo giallo (Nicolodi, 2003). Segnalato più volte all’Accademia di Svezia che assegna il Nobel per la letteratura, insignito nel 1992 del Premio Prešeren, il massimo riconoscimento sloveno, per la sua attività letteraria, già nominato in Francia Officier de l’Ordre del Arts e del Lettres dal Ministro della Cultura, nel 2007 Boris Pahor ha ricevuto la Legion d’Onore da parte del presidente della Repubblica francese.

 


      
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