RIFLESSIONI SULL’ESILIO



Edward W. Said


L'esilio è singolarmente stimolante da pensare ma terribile da speri­mentare. È l'insanabile frattura scavata tra un essere umano e un luogo na­tio, tra il sé e la sua vera casa: la sua intima tristezza non può mai essere sormontata. E se è vero che la letteratura e la storia riferiscono di eroici, romantici, gloriosi, perfino trionfanti episodi in una vita da esule, questi non sono altro che sforzi diretti a superare i dispiaceri invalidanti del­l'estraniamento. I successi dell'esilio sono permanentemente inficiati dalla perdita di qualcosa che ci si è lasciati per sempre alle spalle.

Ma se il vero esilio è una condizione di perdita irrecuperabile, perché è stato trasformato così facilmente in un potente, e persino proficuo, mo­tivo della cultura moderna? Siamo abituati a pensare al periodo moder­no in sé come spiritualmente orfano e alienato, l'età dell'ansia e dell'estraniamento. Nietzsche ci ha insegnato a diffidare della tradizione e Freud a guardare all'intimità domestica come alla facciata rispettabile stesa so­pra a una rabbia incestuosa e patricida. La cultura moderna occidentale è in larga misura opera di esuli, emigrati, rifugiati. Negli Stati Uniti la ri­flessione accademica, intellettuale ed estetica è oggi ciò che è a causa della presenza dei rifugiati del fascismo, del comunismo, e degli altri regimi dediti all'oppressione e all'espulsione dei dissidenti. Il critico George Stei­ner ha persino proposto la tesi suggestiva che un intero genere della let­teratura occidentale del ventesimo secolo sia «extraterritoriale», una letteratura degli e sugli esuli, simbolo dell'epoca dei rifugiati. Steiner sugge­risce:


Sembra corretto ritenere che quanti creano arte in una civiltà di semi-barbarie, che ha privato così tanti di una casa, debbano essere essi stes­si poeti senza dimora e vagabondi del linguaggio. Eccentrici, scostan­ti, nostalgici, deliberatamente inopportuni... (Steiner 1971, 11).


In altre epoche, gli esuli hanno avuto analoghe visioni transcultura­li e transnazionali, hanno sofferto le medesime frustrazioni e miserie, as­solto gli stessi compiti di delucidazione e critica – come è stato brillantemente dimostrato, per esempio, nel classico studio di E.H. Carr sugli intellettuali russi del diciannovesimo secolo raccolti intorno a Herzen, The Romantic Exiles. Ma la differenza tra gli esuli del passato e quelli dei no­stri giorni è, vale la pena sottolinearlo, di scala: la nostra epoca – con il suo moderno warfare, l'imperialismo, e le ambizioni quasi-teologiche dei leader totalitari – è in verità l'epoca dei rifugiati, dei profughi, dell'immi­grazione di massa.

Di fronte a questo scenario ampio e impersonale, l'esilio non può essere reso funzionale a una qualsivoglia nozione di umanesimo. A fronte delle dimensioni assunte nel ventesimo secolo, l'esilio non è né esteticamente né umanisticamente intelligibile: al più, la letteratura sull'esilio reifica un tormento e una situazione che la maggior parte delle persone raramente sperimenta di prima mano; ma pensare all'esilio che dà forma a questa letteratura come a qualcosa di profondamente umanistico signi­fica banalizzare le mutilazioni e le perdite che esso infligge a quanti lo su­biscono, il silenzio che oppone a qualunque tentativo di intenderlo come «positivo per noi». Non è forse vero che le rappresentazioni dell'esilio nella letteratura e, anche, nella religione oscurano ciò che è veramente orren­do: che l'esilio è irrimediabilmente secolare e insopportabilmente storico; che è creato da esseri umani per altri esseri umani; e che, come la morte ma senza l'estremo sollievo della morte, esso ha strappato milioni di per­sone dal nutrimento della tradizione, della famiglia e della geografia?

Vedere un poeta in esilio – contrariamente al leggere la poesia dell'esi­lio – significa vedere le antinomie dell'esilio incarnate e sofferte con un'in­tensità unica. Alcuni anni fa ho trascorso un po' di tempo con Faiz Ahmad Faiz, il più grande poeta urdu contemporaneo. Egli era stato esiliato dal nativo Pakistan dal regime militare di Zia, e aveva trovato una qualche accoglienza in una Beirut lacerata dai conflitti. Ovviamente i suoi amici più intimi erano palestinesi, ma io avvertivo che, benché ci fosse tra loro un'affinità di spirito, non vi era una reale corrispondenza – di lin­guaggio, convenzione poetica, o storia di vita. Solo una volta, quando Eqbal Ahmad, un suo amico pakistano e compagno di esilio, venne a Beirut, Faiz sembrò superare il suo senso di costante estraniamento. Era tarda sera ed eravamo tutti e tre seduti in un oscuro ristorante di Beirut, e Faiz stava recitando dei poemi. Dopo un po', lui e Eqbal smisero di tradurre i suoi versi a mio beneficio ma, col calare della notte, questo non aveva più importanza. Ciò che vedevo non aveva bisogno di traduzione: era la messa in atto di un ritorno a casa espressa con un senso di sfida e di perdita, come a dire «Zia, siamo qui». Naturalmente, Zia era l'unico a essere realmente a casa – e a non sentire le loro voci euforiche.

Rashid Hussein era un palestinese. Egli aveva tradotto in arabo Bia­lik, uno dei più grandi poeti ebraici, e la sua eloquenza lo aveva consacrato negli anni successivi al 1948 come un oratore e un nazionalista senza pa­ri. Inizialmente, egli lavorò come giornalista in lingua ebraica a Tel Aviv, e riuscì a instaurare un dialogo tra scrittori arabi ed ebrei, pur sposando la causa del Nasserismo e del nazionalismo arabo. Col passare del tempo, egli non riuscì più a sopportare la tensione, e si trasferì a New York. Sposò una donna ebrea e iniziò a lavorare nella sede dell'OLP presso le Nazioni Unite, ma scandalizzò regolarmente i suoi superiori con idee non convenzio­nali e con una retorica utopistica. Nel 1972 partì alla volta del mondo ara­bo, ma pochi mesi dopo tornò negli Stati Uniti: si era sentito fuori posto in Siria e in Libano, infelice al Cairo. New York gli offrì di nuovo riparo, come anche infinite sessioni di bevute e di abbandono. La sua vita era a pezzi, ma nonostante ciò egli rimase il più ospitale degli uomini. Morì do­po una notte di pesanti bevute quando, mentre fumava a letto, la sua si­garetta appiccò un incendio che si propagò fino a una piccola collezione di audiocassette, che raccoglieva per lo più registrazioni di poeti che leg­gevano i propri versi. I fumi provenienti dalle cassette lo asfissiarono. Il suo corpo fu rimpatriato per la sepoltura a Musmus, il piccolo villaggio in Israele in cui continuava a vivere la sua famiglia.

Questi e molti altri poeti e scrittori in esilio restituirono dignità a una condizione giuridicamente creata per negare dignità – negare un'iden­tità alle persone. Dal loro esempio appare evidente che per concentrarsi sull'esilio come pena politica contemporanea, si debbano mappare terri­tori di esperienza che vanno al di là di quelli tracciati dalla letteratura dell'esilio in sé.

Devi mettere da parte Joyce e Nabokov, e pensare invece alle innu­merevoli masse per le quali le agenzie delle Nazioni Unite sono state istituite. Devi pensare ai contadini rifugiati senza nessuna prospettiva di po­ter un giorno tornare a casa, armati solo di una tessera di razionamento alimentare e un numero di matricola. Parigi può essere una capitale famo­sa per i suoi esuli cosmopoliti, ma è anche una città in cui uomini e donne sconosciuti hanno trascorso anni di miserabile solitudine: vietnamiti, algerini, cambogiani, libanesi, senegalesi, peruviani. Devi pensare anche al Cairo, Beirut, Madagascar, Bangkok, Città del Messico. Man mano che ci si allontana dal mondo atlantico, la terribile discarica di miserabi­li aumenta: aumentano le masse disperatamente sconfinate, la miseria plurima di persone «senza documenti» improvvisamente perdute, senza una storia da raccontare. Riflettere sui musulmani esuli dall'India, o sugli haitiani in America, o sui nativi delle Bikini in Oceania, o sui palesti­nesi in tutto il mondo arabo significa dover abbandonare il modesto ri­fugio offerto dalla soggettività e rivolgersi invece alle astrazioni della po­litica di massa. Negoziati, guerre di liberazione nazionale, persone tirate fuori dalle proprie case e trascinate via, mandate in autobus o spedite a piedi verso enclave in altre regioni: cosa significano queste esperienze? Non sono forse evidentemente e quasi per definizione irrecuperabili?

Giungiamo così al nazionalismo e alla sua intima associazione con l'esilio. Il nazionalismo è un'affermazione di appartenenza a e radicamen­to in un luogo, un popolo, un'eredità. Esso invoca la casa creata da una comunità di linguaggio, cultura e usanze; e, così facendo, esso rifiuta l'esi­lio, combatte per impedire le sue devastazioni. In realtà, l'interrelazione tra nazionalismo ed esilio è come la dialettica hegeliana di servo e padro­ne, in cui gli opposti si modellano e si costituiscono a vicenda. Tutti i na­zionalismi nel loro stadio iniziale discendono da una condizione di estra­niamento. Le lotte per l'indipendenza americana, per l'unificazione di Germania o Italia, o per la liberazione dell'Algeria, erano lotte di gruppi nazionali separati – esiliati – da quello che era considerato il loro legitti­mo modo di esistenza. II nazionalismo trionfante, compiuto, quindi, giu­stifica, retrospettivamente come pure in prospettiva, una storia selettivamente intrecciata entro una forma narrativa: così, tutti i nazionalismi hanno i propri padri fondatori, i propri testi fondamentali e quasi religio­si, la propria retorica di appartenenza, i propri punti di riferimento sto­rici e geografici, i propri nemici ed eroi ufficiali. Questo ethos collettivo costituisce quello che Pierre Bourdieu, il sociologo francese, chiama ha­bitus, il coerente amalgama di pratiche che lega l'abito all'abitare. Col passare del tempo, i nazionalismi vittoriosi ascrivono la verità solo a se stessi, e riservano la falsità e l'inferiorità agli outsider (come nella retorica che oppone il capitalista al comunista, o l'europeo all'asiatico).

E subito al di là della frontiera tra “noi” e gli "outsider" si estende il pericoloso territorio della non-appartenenza: è questo il luogo nel quale in un'epoca primitiva erano mandati al bando i popoli, e dove in età mo­derna immensi aggregati di umanità si aggirano furtivamente in qualità di profughi e rifugiati.

I nazionalismi riguardano i gruppi, ma in un senso molto profondo l'esilio è una solitudine sperimentata al di fuori del gruppo: consiste nelle deprivazioni patite per il fatto di non essere con gli altri nella casa co­mune. Come sormontare allora la solitudine dell'esilio senza cadere nel vischioso e schiacciante linguaggio dell'orgoglio nazionale, dei sentimenti collettivi, delle passioni di gruppo? Cosa vale la pena di salvare e conser­vare tra gli estremi dell'esilio da una parte, e le spesso ostinate affermazio­ni del nazionalismo dall'altra? Il nazionalismo e l'esilio hanno caratteristiche proprie? O sono semplicemente due versioni contrastanti di paranoia?

Queste sono domande alle quali non è possibile rispondere in modo definitivo, poiché ciascuna di esse assume che l'esilio e il nazionalismo possano essere discussi in modo neutrale e senza relazione reciproca. Non possono. Poiché i due termini includono tutto, dal più collettivo dei sen­timenti collettivi alla più privata delle emozioni private, difficilmente un linguaggio può essere adeguato per entrambi. Ma assolutamente nulla, nelle ambizioni pubbliche e totalizzanti del nazionalismo, tocca il nucleo centrale della situazione dell'esilio.

Perché l'esilio, a differenza del nazionalismo, è fondamentalmente una condizione di esistenza discontinua. Gli esuli sono recisi dalle proprie radici, separati dalla propria terra, dal proprio passato. Di solito non hanno eserciti o stati, per quanto spesso ne vadano in cerca. Gli esuli, quin­di, sentono un urgente bisogno di ricostruire le proprie vite spezzate, ge­neralmente scegliendo di vedere se stessi come parte di un'ideologia trion­fante, o di un popolo ricostituito. L'aspetto cruciale è che una condizio­ne di esilio priva di questa ideologia trionfante – la quale ha l'obiettivo di ricomporre la storia spezzata dell'esule in un nuovo insieme – è virtualmente insopportabile e virtualmente impossibile nel mondo di oggi. Guardate al destino di ebrei, palestinesi e armeni.

Noubar è un armeno solitario, un amico. I suoi genitori dovettero lasciare la Turchia orientale nel 1915, dopo che le loro famiglie erano state massacrate: il suo nonno materno fu decapitato. Il padre e la madre di Noubar si spostarono ad Aleppo, e poi al Cairo. A metà degli anni Ses­santa, la vita in Egitto divenne difficile per i non-egiziani, e i suoi genitori, insieme ai quattro figli, furono portati a Beirut da un'organizzazio­ne di soccorso internazionale. A Beirut, essi vissero per un breve periodo in una pensione, e vennero poi ammassati nelle due stanze di una piccola casa fuori città. In Libano non avevano soldi e aspettarono: otto mesi dopo, un ente di soccorso procurò loro un volo per Glasgow. E poi per Gander. E poi per New York. Viaggiarono a bordo di un autobus Greyhound da New York a Seattle: Seattle era la città scelta dall'agenzia come loro residenza americana. Quando chiesi «Seattle?», Noubar sorrise con rassegnazione, come dire: meglio Seattle che l'Armenia, che non ha mai conosciuto, o la Turchia, dove così tanti sono stati massacrati, o il Libano, dove lui e la sua famiglia avrebbero sicuramente rischiato la vita. L'esilio è qualche volta meglio che rimanere indietro o non potersene andare: ma solo qualche volta.

Perché niente è sicuro. L'esilio è una condizione gelosa. Ciò che hai è precisamente ciò che non desideri condividere, ed è nel tracciare confi­ni intorno a te e ai tuoi compatrioti che emergono gli aspetti meno pia­cevoli dell'essere in esilio: un esagerato senso di solidarietà di gruppo, e un'appassionata ostilità verso gli esterni, anche coloro che potrebbero nei fatti trovarsi nella tua stessa condizione. Cosa potrebbe essere più infles­sibile del conflitto tra ebrei sionisti e arabi palestinesi? I palestinesi sen­tono di essere stati trasformati in esuli dal proverbiale popolo dell'esilio, gli ebrei. Ma i palestinesi sanno anche che il loro stesso senso di identità nazionale è stato coltivato nel contesto dell'esilio, dove chiunque non sia fratello o sorella di sangue è un nemico, dove ogni simpatizzante è un agente di qualche potere ostile e dove la più piccola deviazione dalla linea ufficiale del gruppo costituisce un atto della peggiore slealtà e del più alto tradimento.

Forse è questo il più straordinario dei destini dell'esule: essere stato esiliato da esuli – rivivere il processo di sradicamento proprio per mano di esuli. Tutti i palestinesi durante l'estate del 1982 si chiesero quale ur­genza inespressa spingesse Israele, dopo aver dislocato i palestinesi nel 1948, a espellerli continuamente dalle loro case e campi per rifugiati in Libano. E come se la ricostituita esperienza collettiva ebraica, nella forma espressa da Israele e dal sionismo moderno, non potesse tollerare l'esi­stenza accanto a sé di un'altra storia di espropriazione e perdita – un’intolleranza continuamente riconfermata dall'ostilità israeliana al naziona­lismo dei palestinesi, che per quarantasei anni hanno faticosamente cer­cato di rimettere insieme un'identità nazionale in esilio.

Questo bisogno di ricostituire un'identità al di là delle rifrazioni e delle discontinuità dell'esilio trova espressione nei primi poemi di Mali­moud Darwish, il cui importante lavoro costituisce uno sforzo epico per trasformare la lirica della perdita nell'indefinitamente differito dramma del ritorno. Egli descrive la propria sensazione di essere senza dimora nella forma di una lista di cose incompiute e incomplete:


Ma io sono l'esule.

Sigillami con i tuoi occhi. Prendimi ovunque tu sia. Prendimi ovunque tu sia. Restituiscimi il colore del viso E il calore del corpo

La luce del cuore e deìl'occhio. Il sale del pane e il ritmo,

Il sapore della terra... la Patria. Fammi scudo coni tuoi occhi.

Prendimi come una reliquia dalla tenuta del rimpianto.

Prendimi come un verso dalla mia tragedia;

Prendimi con un giocattolo, un mattone dalla casa

Così che i nostri figli ricordino di tornare.


Il pathos dell'esilio consiste nella perdita di contatto con la solidità e la gratificazione della terra: tornare a casa è fuori discussione.

Amy Foster, il racconto di Joseph Conrad, costituisce probabilmente la più inesorabile rappresentazione dell'esilio mai scritta. Conrad si con­siderava un esule dalla Polonia e quasi tutto il suo lavoro (come anche la sua vita) reca su di sé l'inconfondibile marchio dell'ossessione di ogni emigrato sensibile al proprio destino e ai propri disperati tentativi di strin­gere un contatto soddisfacente con il nuovo contesto. La storia di Amy Foster è in un certo senso prigioniera dei problemi dell'esilio, forse così pri­gioniera da non essere una delle storie meglio conosciute di Conrad. Que­sta, per esempio, è la descrizione dell'agonia del suo personaggio princi­pale, Yanko Goorall, un contadino dell'Europa orientale che, in viaggio verso l'America, naufraga al largo della costa britannica:


è assai dura per un uomo ritrovarsi straniero e sperduto, inerme, non compreso, e di origine misteriosa, in qualche angolo oscuro della ter­ra. Eppure, fra tutti gli avventurieri naufragati in qualsiasi regione sel­vaggia del mondo, non ce ne è stato uno, ritengo, che abbia mai do­vuto subire un destino così tragico nella sua semplicità quanto l'uomo di cui sto parlando, il più innocente degli avventurieri gettato dal ma­re...(Conrad 1901, 198).


Yanko ha lasciato la sua casa perché le pressioni erano troppo forti perché potesse continuare a viverci. L'America lo aveva abbagliato con la sua promessa e tuttavia è in Inghilterra che va a finire. Resiste in Inghil­terra, dove non sa parlare la lingua ed è temuto e incompreso. Solo Amy Foster, una stolida e scialba ragazza di campagna, cerca di comunicare con lui. I due si sposano e hanno un bambino, ma quando Yanko si ammala Amy, spaventata e alienata, rifiuta di prendersene cura; prende il bambino e se ne va. L'abbandono accelera la miserabile morte di Yanko che, come la morte di diversi eroi conradiani, è rappresentata come il ri­sultato di una combinazione di schiacciante isolamento e indifferenza del mondo. Il destino di Yanko è descritto come la «suprema catastrofe della solitudine e della disperazione» (ivi, 230).

La condizione di Yanko è toccante: uno straniero continuamente tor­mentato e solo in una società che non lo comprende. Ma il suo stesso esi­lio spingeva Conrad a esagerare le differenze tra Yanko ed Amy. Yanko è intrigante, leggero, brillante, mentre Amy è pesante, lenta, bovina; quan­do muore, è come se la precedente gentilezza di lei nei suoi confronti non fosse stata altro che un trucco per attirarlo e poi intrappolarlo fatalmen­te. La morte di Yanko è romantica: il mondo è aspro, avaro di gratifica­zioni; nessuno lo capisce, neanche Amy, l'unica persona a lui vicina. Con­rad fece di questa stessa paura nevrotica dell'esule un principio estetico. Nessuno può capire o comunicare nel mondo di Conrad, ma paradossal­mente questa radicale limitazione delle possibilità del linguaggio non im­pedisce che si compiano elaborati sforzi per comunicare. Tutte le storie di Conrad ritraggono persone sole che parlano molto (e del resto, quale dei grandi modernisti fu più volubile e «aggettivale» di Conrad stesso?) e i cui tentativi di impressionare gli altri aggravano, piuttosto che alleviare, l'originario senso di isolamento. Tutti gli esuli di Conrad temono, e sono condannati a immaginare all'infinito, lo spettacolo di una morte so­litaria, illuminata, per così dire, da occhi muti e inespressivi.

Gli esuli guardano a coloro che non lo sono con risentimento. Loro appartengono al loro contesto, è ovvio, mentre un esule è sempre fuori posto. Com'è essere nati in un posto, rimanere lì e viverci, sapere che gli appartieni, più o meno per sempre?

Sebbene sia vero che ognuno di coloro ai quali viene impedito di tornare a casa è un esule, si possono fare alcune distinzioni tra esuli, rifu­giati, espatriati, ed emigrati. L'esilio nasce dalla vecchia pratica del bando. Una volta bandito, l'esule conduce una vita anomala e miserabile, se­gnata dallo stigma di essere un outsider. I rifugiati, dall'altra parte, sono una creazione dello stato del ventesimo secolo. La parola «rifugiato» è diventata un termine politico, che suggerisce ampie mandrie di persone in­nocenti e confuse che hanno urgentemente bisogno di assistenza internazionale, mentre «esilio» reca con sé, credo, un tocco di solitudine e spiri­tualità.

Gli espatriati vivono volontariamente in un paese straniero, solitamente per motivi personali o sociali. Hemingway e Fitzgerald non erano costretti a vivere in Francia. Gli espatriati possono condividere la solitu­dine e l'estraniamento dell'esilio, ma non ne patiscono le rigide proscri­zioni. Gli emigrati godono di uno status ambiguo. Tecnicamente, un emi­grato è chiunque emigri in un nuovo paese. La scelta qui è certamente una possibilità. Ufficiali coloniali, missionari, esperti tecnici, mercenari e con­siglieri militari al servizio di qualcuno possono, in un certo senso, vivere in esilio, ma non sono stati banditi. I coloni bianchi in Africa e in parti dell'Asia e dell'Australia possono essere stati esuli un tempo, ma in quanto pionieri e costruttori della nazione hanno perduto l'etichetta di «esule».

Gran parte della vita dell'esule è occupata dal tentativo di compen­sare il disorientamento della perdita con la creazione di un nuovo mon­do da governare. Non sorprende che così tanti esuli pare siano romanzie­ri, giocatori di scacchi, attivisti politici, e intellettuali. Ciascuna di que­ste occupazioni richiede un investimento minimo negli oggetti e nei luo­ghi, e attribuisce grande valore alla mobilità e all'abilità. Il nuovo mon­do dell'esule, come è logico, è innaturale, e la sua irrealtà somiglia alla finzione. György Lukács, in Teoria del romanzo, ha sostenuto con strin­gente rigore che il romanzo, una forma letteraria nata dall'irrealtà dell'ambizione e della fantasia, è la forma di «spaesamento trascendentale» (Lukács 1920, 34). L'epica classica, scrive Lukács, promana da culture stanziali in cui i valori sono chiari, le identità stabili, la vita priva di cambiamenti. Il romanzo europeo trae origine dalle condizioni esattamente opposte, quelle di una società in trasformazione in cui un itinerante e di­seredato eroe o eroina della classe media cerca di costruire un nuovo mon­do, che in qualche misura somiglia a uno vecchio e lasciato per sempre alle spalle. Nell'epica non c'è un altro mondo, solo la risoluzione di questo. Ulisse torna a Itaca dopo anni di erranza; Achille dovrà morire perché non può sfuggire al proprio destino. Il romanzo, invece, esiste perché al­tri mondi potrebbero esistere, alternative per speculatori borghesi, vaga­bondi, esuli.

Non importa quanto possano stare bene, gli esuli sono sempre eccen­trici che sentono la propria differenza (anche nei molti casi in cui la sfrut­tano) come una sorta di condizione di orfanità. Chiunque sia realmente senza dimora considera la consuetudine di interpretare in termini di estraniamento tutto ciò che è moderno come un'affettazione, l'esibizione di un atteggiamento alla moda. Impugnando la differenza come un'arma da usare con ferma determinazione, l'esule insiste gelosamente sul proprio diritto di rifiutarsi di appartenere.

Questo si traduce solitamente in un'intransigenza che non è facile ignorare. Ostinazione, esagerazione, drammatizzazione: questi sono at­teggiamenti caratteristici della condizione dell'esule, modi per costringere il mondo ad accettare la tua prospettiva – che rendi ancor più inaccet­tabile perché in realtà non vuoi che sia accettata. È tua, dopo tutto. Com­postezza e serenità sono le ultime cose che possono essere associate al la­voro degli esuli. Gli artisti in esilio sono decisamente sgradevoli e la loro irremovibilità si insinua anche nei lavori più apprezzati. La visione di Dante nella Divina Commedia è terribilmente potente nella sua univer­salità e nell'attenzione al dettaglio, ma anche la pacifica beatitudine raggiunta nel Paradiso reca le tracce della vendicatività e della severità di giu­dizio incarnate dall'Inferno. Chi, se non un esule come Dante, bandito da Firenze, avrebbe mai usato l'eternità come un luogo per regolare vecchi conti?

James Joyce scelse di essere in esilio: per dare vigore alla propria vo­cazione artistica. In modo stranamente efficace – come ha mostrato Ri­chard Ellmann nella sua biografia – Joyce ha escogitato un motivo di contesa con l'Irlanda e lo ha tenuto vivo in modo che potesse giustificare la più rigida opposizione a ciò che era familiare. Ellmann sostiene che «Ogni qualvolta i suoi rapporti col paese natio correvano il rischio di migliorare, [Joyce] cercava di creare un nuovo incidente per consolidare la sua in­transigenza e riaffermare la giustezza della sua volontaria assenza» (ElImann 1989, 138). La narrativa di Joyce tratta di ciò che egli una volta descrisse in una lettera come l'essere «solo e abbandonato». E benché sia ra­ro scegliere di essere al bando come modo di vita, Joyce ne comprese per­fettamente le tribolazioni.

Ma il successo di Joyce come esule solleva la questione che sta al cuo­re dell'esilio stesso: è l'esilio così estremo e privato che ogni uso strumen­tale di esso costituisce in ultima analisi una banalizzazione? Come mai la letteratura dell'esilio ha preso il suo posto come topos dell'esperienza uma­na accanto alla letteratura di avventura, educazione, o scoperta? È queste lo stesso esilio che ha quasi letteralmente ucciso Yanko Goorall e alimen­tato la costosa, spesso disumanizzante relazione tra esilio e nazionalismo nel ventesimo secolo? O si tratta di una qualche varietà più benigna?

Gran pane del contemporaneo interesse per l'esilio può essere attri buito all'idea in qualche modo sbiadita che i non esuli possano godere de benefici dell'esilio come motivo di redenzione. C'è, bisogna ammettere una certa plausibilità e una qualche verità in questa idea. Come gli studiosi itineranti del medioevo, o gli schiavi greci istruiti nell'impero romano, gli esuli – quelli eccezionali – rendono fertili i propri ambienti. E naturalmente «noi» ci concentriamo su questo aspetto illuminante della «loro» presenza tra noi, non sulla loro miseria o le loro esigenze. Ma visti dalla plumbea prospettiva politica delle moderne dislocazioni di massa, gli individui in esilio ci costringono a riconoscere il tragico destino dell'essere senza dimora in un mondo necessariamente senza cuore.

Una generazione fa, Simone Weil espresse il dilemma dell'esilio in modo così pregnante come non era mai stato fatto. «Il radicamento», disse, «è forse il bisogno più importante e più misconosciuto dell'anima, umana» (Weil 1949, 49). Tuttavia Weil sapeva anche che la maggior parte dei rimedi allo sradicamento in questa era di guerre mondiali, deportazioni e stermini di massa, è quasi altrettanto pericolosa di ciò cui dovrebbe porre rimedio. Di questi, lo stato – o, più precisamente, lo statalismo – è uno dei più insidiosi, perché il culto dello stato tende a soppiantare ogni altro legame umano.

Weil ci espone di nuovo a quell'intero complesso di pressioni e vincoli che alberga al cuore della condizione dell'esule, che, come ho suggerito, è quanto vi possa essere di più vicino alla tragedia in epoca moderna. C'è il puro e semplice fatto dell'isolamento e della dislocazione, che produce quella forma di masochismo narcisistico che resiste a ogni sforzo volto al miglioramento, all'acculturazione, alla comunità. Seguendo questa via estrema l'esule può fare dell'esilio un feticcio, una pratica che lo distanzia da ogni legame e responsabilità. Vivere come se tutto intor­no a te fosse temporaneo e forse triviale significa cadere preda di un pe­tulante cinismo e di una querula mancanza di amore. Più comuni sono le pressioni affinché l'esule entri a far parte di partiti, movimenti nazio­nali, dello stato. All'esule si offrono nuove possibili affiliazioni, ed egli sviluppa nuove lealtà. Ma c'è anche una perdita — di prospettiva critica, di riserbo intellettuale, di coraggio morale.

Bisogna anche riconoscere che il nazionalismo difensivo degli esuli spesso fomenta l'autosufficienza al pari delle meno condivisibili forme di autocompiacimento. Progetti rigenerativi, come quello di ricostituire una nazione a partire dall'esilio (come accade in questo secolo a ebrei e pale­stinesi), implicano la necessità di costruire una storia nazionale, rivitaliz­zare un antico linguaggio, fondare istituzioni nazionali come biblioteche e università. E queste, se è vero che talvolta producono uno stridente et­nocentrismo, pure suscitano investigazioni del sé che inevitabilmente vanno ben al di là di fatti semplici e positivi come l'«etnicità». Per esempio, c'è la supponenza di chi cerca di capire perché le storie di palestinesi ed ebrei mostrino alcuni elementi ricorrenti, come mai nell'esilio rimanga vi­vo, a dispetto dell'oppressione e della minaccia di estinzione, un ethos particolare.

Necessariamente, quindi, parlo dell'esilio non come di un privilegio, ma come di un'alternativa alle istituzioni di massa che dominano la vita moderna. L'esilio non è, dopo tutto, una questione di scelta: ci nasci den­tro, o ti capita. Ma a patto che l'esule eviti di sedersi in disparte a curare la propria ferita, ci sono cose da imparare: deve coltivare una scrupolosa (non indulgente o risentita) soggettività.

Forse l'esempio più rigoroso di questa soggettività lo si può trovare negli scritti di Theodor Adorno, il filosofo e critico ebreo tedesco. Il ca­polavoro di Adorno, Minima Moralia, è un'autobiografia scritta in esilio; ha per sottotitolo Meditazioni sulla vita offesa. Spietatamente opposto a quello che chiamava il mondo «amministrato», Adorno riteneva che l'in­tera vita fosse premuta in forme predefinite, «case» prefabbricate. Egli so­steneva che tutto ciò che uno dice o pensa, come anche ogni oggetto che possiede, è alla fine dei conti una mera merce. Il linguaggio è gergo, gli oggetti sono in vendita. Rifiutare questo stato di cose costituisce la mis­sione intellettuale dell'esule.

Le riflessioni di Adorno sono permeate dalla convinzione che l'unica casa davvero disponibile ora, per quanto fragile e vulnerabile, sia la scrittura. Altrove, «la casa è tramontata. Le distruzioni delle città europee, come i campi di lavoro e di concentramento, non fanno che eseguire e completare ciò che lo sviluppo immanente della tecnica ha deciso da tem­po circa il destino delle case. Le case non esistono più che per essere gettate via come vecchie scatole di conserva». In breve, Adorno sostiene con greve ironia, «fa parte della morale non sentirsi mai a casa propria» (Ador­no 1950, 35).

Seguire Adorno significa stare lontano da «casa», in modo da poter guardare ad essa con il distacco dell'esule. Perché la pratica di notare le di­screpanze tra le varie nozioni e idee e ciò che queste davvero producono ha un grande valore. Noi diamo la casa e il linguaggio per scontati; diven­tano natura e le loro premesse intrinseche recedono nel dogma e nell'or­todossia.

L'esule sa che in un mondo secolare e contingente le dimore sono sempre provvisorie. Confini e barriere che ci rinchiudono nella sicurezza del territorio familiare possono anche diventare prigioni, e sono spesso difese al di là della ragione o della necessità. Gli esuli attraversano confini, rompono barriere di pensiero e di esperienza.

Ugo di San Vittore, un monaco sassone del dodicesimo secolo, scris­se queste righe di straordinaria bellezza:


È, quindi, una fonte di grande virtù per la mente ben allenata impa­rare, a poco a poco, a cambiare anzitutto rispetto alle cose invisibili e transitorie, in modo da riuscire in seguito a lasciarsele del tutto alle spalle. L'uomo che considera dolce la propria patria è ancora un tene­ro principiante; colui per il quale ogni territorio è come il proprio suolo natio è già forte; ma perfetto è colui per il quale l'intero mondo è come una terra straniera. L'animo tenero ha concentrato il proprio amore su un unico posto nel mondo; l'uomo forte ha esteso il proprio amore a tutti i luoghi; l'uomo perfetto ha estinto il proprio (Ugo di San Vittore, Didascalicon, III, 20, cit. in Auerbach 1970. In latino nel testo).


Erich Auerbach, il grande letterato del ventesimo secolo che ha trascorso gli anni di guerra come esule in Turchia, ha citato questo passo come modello per chiunque desideri trascendere i limiti nazionali o pro­vinciali. Solo assumendo questo atteggiamento lo storico può iniziare a cogliere l'esperienza e la sua trasposizione scritta nella loro diversità e par­ticolarità; altrimenti rimarrà concentrato più sulle esclusioni e sulle rea­zioni dettate dal pregiudizio che sulla libertà che accompagna la cono­scenza. Ma si noti che Ugo chiarisce due volte che l'uomo «forte» o «per­fetto» raggiunge l'indipendenza e il distacco lavorando attraverso i legami, non rifiutandoli. L'esilio si basa sull'esistenza di, l'amore per, e il legame con, il proprio luogo nativo; ciò che è vero di ogni esilio non è il fatto che la casa e l'amore per essa sono perduti, ma che la perdita è intrinseca alla stessa esistenza di entrambi.

Guardate alle esperienze come se fossero sul punto di sparire. Cosa le tiene ancorate alla realtà? Cosa salvereste? A cosa rinuncereste? Solo qualcuno che ha guadagnato indipendenza e distacco, qualcuno la cui patria è «dolce», ma il cui fato rende impossibile recuperare quella dolcezza, può rispondere a queste domande. (Questa persona troverebbe anche impossibile trarre soddisfazione dai sostituti dell'illusione o del dogma).

Questa può sembrare una ricetta per una sconsolata cupezza di pro­spettiva e, con essa, una perenne torva disapprovazione per ogni forma di entusiasmo o leggerezza di spirito. Non necessariamente. Se può forse sembrare strano parlare dei piaceri dell'esilio, ci sono alcune cose positi­ve da dire su qualcuna delle sue caratteristiche. Vedere «l'intero mondo come una terra straniera» rende possibile un'originalità di prospettiva. La maggior parte delle persone conosce per lo più una cultura, un contesto, una casa; gli esuli ne conoscono almeno due, e questa pluralità di prospet­tiva dà origine a una consapevolezza di dimensioni simultanee, una con­sapevolezza che – per usare un termine musicale – è contrappuntistica.

Per un esule, abitudini di vita, di espressione o di attività nel nuovo ambiente inevitabilmente si stagliano contro il ricordo di queste stesse cose in un ambiente diverso. Così, tanto il nuovo quanto il vecchio am­biente sono vividi, concreti, esistono assieme in modo contrappuntistico. C'è un piacere unico in questa forma di conoscenza, soprattutto se l'esu­le è consapevole di altre giustapposizioni contrappuntistiche che ridimen­sionano il giudizio ortodosso e accrescono la capacità empatica di apprez­zare. C'è anche un peculiare senso di appagamento nel comportarsi come se si fosse a casa ovunque ci si trovi.

Questo continua a essere rischioso, però: l'abitudine alla dissimula­zione è logorante e snervante. L'esilio non è mai una sensazione di soddi­sfazione, calma o sicurezza. L'esilio, nelle parole di Wallace Stevens, è «una mente invernale» in cui il pathos dell'estate e dell'autunno, come anche il potenziale della primavera, sono vicini ma irraggiungibili. Forse questo è un altro modo per dire che una vita di esilio procede secondo un diverso calendario, ed è meno stagionale e regolare della vita nella propria casa. Esilio è vita condotta al di fuori dell'ordine consueto. Esso è nomadico, decentrato, contrappuntistico; ma non appena ci si abitua, la sua for­za destabilizzante erompe nuovamente.



(Il saggio è tratto da E. W. Said, Reflection on Exile and Other Essays, Cambridge, Harvard University Press, 2003, pp. 173-186; originalmente pubblicato in “Granta”, 13, 1984, e in Italia da “Scritture migranti”, n° 1, 2007Cooperativa Libraria Universitaria Editrice, Bologna, 2008. Traduzione di Stefania De Petris.)


Edward W. Said nacque nel 1936 a Gerusalemme. Erede di una ricca famiglia palestinese cristiana, si trasferisce presto al Cairo dove frequenta il Victoria College, una sorta di Eton egiziano. Tra i suoi compagni vi furono il futuro re di Giordania Hussein e Omar Sharif. Il giovane Edward si ribellò presto alla formazione dei cosiddetti wog (Westernized Oriental Gentlemen) e fu mandato dal padre, un imprenditore ambizioso ed esigente, in un collegio del Massachusetts, con lo scopo di ottenere per il figlio la cittadinanza americana. Nel 1948 la famiglia Said venne espropriata di tutti i suoi beni e il giovane Edward diventava un rifugiato decidendo di combattere per i diritti del popolo palestinese e per uno stato binazionale, secolare e democratico. Divenne professore di Inglese e di Letteratura Comparata alla Columbia University di New York. Formatosi a Princeton ed Harvard, Said insegnò in più di centocinquanta Università e scuole negli Stati Uniti, in Canada ed in Europa. Fin dalla sua tesi su Conrad si occupò di colonialismo e fu fra i primi ad importare in Usa la critica radicale all'umanesimo occidentale di Michel Focault. Dopo un libro tipicamente post-strutturalista intitolato Inizi (sul tema dell'inizio e l'impossibilità dell'origine), si affermò con il fondamentale Orientalismo, massiccio studio che documenta e smonta l'uso che l'Occidente ha fatto del Vicino Oriente nelle sue costruzioni culturali e ideologiche.

Bibliografia:
Adorno, Th. W (1950) Minima moralia. Meditazioni sulla vita offesa, trad. it. To­rino, Einaudi, 1994.
Auerbach, E. (1970) San Francesco, Dante, Vico ed altri saggi di filologia roman­za, trad. it. Bari, De Donato.
Conrad, J. (1901) Amy Foster, in La locanda delle streghe, trad. it. Pordenone, Studio Tesi, 1991.
Ellmann, R. (1982) James Joyce, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1989. Lukács, G. (1920) Teoria del romanzo, trad. it Milano, SE, 1999.
Steiner, G. (1971) Extraterritorial, New York, Atheneum.
Weil, S. (1949) La prima radice, trad. it. Milano, SE, 1990.



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