FAMIGLIA I E II


Giorgio Manganelli

 


FAMIGLIA I


Non ho alcun motivo per amare, venerare, rispettare la famiglia italiana. Questa famiglia è una curiosa sopravvivenza della tribù patriarcale che esisteva ancora cinquant’anni fa; non era gran che nemmeno quella: ma c’era più traffico, nonni, zii e nipotini facevano del loro meglio per scioglierne il nucleo faticoso e amaro. Essendo una tribù, era pacifica all’interno, e bellicosa all’esterno. Ad un certo punto, pensò che era ora di conquistare il mondo. Le tribù non sono ragionevoli.

La scheggia domestica che è sopravvissuta è un luogo cupo, oneroso e difficile. I vecchi non sono compatibili con quell’ambiente duro e abitudinario. Il colloquio tra i nonni e i nipoti – l’unico colloquio non sospetto – è stato reciso; restano gli zii, ma molto non possono. Sono pochi, e a lasciarli fare finiscono che fanno famiglia. La famiglia di quattro, cinque persone è un luogo mentale e sociale, nel cui ambito si svolgono caute e diffidenti trattative; i mutati costumi colmano l’aria di maldomati rancori. Un paio di generazioni fa, Orwell, a proposito del matrimonio, scrisse: “Quando si trova un coniuge ammazzato, la prima persona inquisita è l’altro coniuge: questo la dice lunga su quel che la gente pensa del matrimonio”.

I tempi corrono, ed oggi la situazione è più complessa. Tra gli inquisiti non c’è più solo l’altro coniuge, ma i figli. È bene accertare se fra costoro qualcuno sappia usare armi da fuoco, mazze ferrate, o abbia una modesta competenza in fatto di veleni. Se muore un bambinello in circostanze sospette, sarà bene vedere se reca tracce di ecchimosi, se era denutrito o genericamente detestato. Non invento nulla, e poi non ho neanche fantasia; l’handicappato ammazzato a bastonate in una famiglia numerosa non l’ho fabbricato io, e neppure i giornali. Coloro che hanno commesso il delitto non erano delinquenti; vivevano una misera vita, e sarebbero stati onesti, non avessero avuto famiglia. Si capisce che, in casa, un handicappato è un problema, come un vecchio.

Si possono sospettare quali siano le ragioni di questa conflittualità occulta: in primo luogo la convivenza indefinita, misurata a decenni, di poche persone in breve spazio è innaturale. Si aggiunga che qualcuno sa che qualcun altro lo seppellirà, e lo sa anche l’altro. Fluttua oggi nell’ambiente domestico un sentore di follia. Qualcuno scappa, e non sempre per la strada della ragione: la follia ha diversi segni. Ma penso ad una ragione più radicale. Il nostro tempo feroce e fatuo ci ha imposto una scoperta terribile e stupenda: la solitudine. Oggi non occorre essere eremiti, c’è solitudine per tutti. Difficile è la solitudine, ma affascinante il colloquio segreto, l’ininterrotto dialogo di un sé con un sé più oscuro e misterioso; ascoltare la voce dei diversi “io” che diversamente si parlano. La nostra vita oggi è affidata a questo lento esercizio.

Ora, io posso vivere la solitudine in una città, in una folla; ma non la posso vivere in una famiglia, dove tre o quattro persone si toccano, si scorgono, si guardano, si indagano, si giudicano. Qualcuno aggiungerà “si amano”. Talora è vero, ma dal punto di vista della solitudine la minuta, collezionistica insistenza dell’amore continuo può essere inquietante. Inoltre, chi ama difficilmente rinuncia a “capire”, e questo può essere intollerabile.

Nella famiglia italiana, oggi la solitudine è sostituita dall’isolamento. Una anomala concentrazione fa sì che sia necessario difendersi, schermarsi, e nasce nel fondo del nostro cervello una sorta di mormorio continuato, un monologo con le ombre. Si diventa astuti e reticenti; nascono i compatti silenzi, le conversazioni tese e vane; ad un certo momento, si prende un gatto. Famiglie sull’orlo della cronaca nera sono state redente da un gatto; forse un giorno si studierà la funzione degli animali domestici come sintomi della famiglia disturbata. Oggi bastano i piccoli felini; domani, potrebbe essere necessario importare quelli grandi, quelli di Salgari.




FAMIGLIA II


Non dispongo di una famiglia, e ne sento la mancanza. Non ho, ad esempio, una moglie indifesa da percuotere a sangue per motivi di minestra, e bambini da terrorizzare con mirabili malumori cosmici.

I terrori sono educativi. Nella mia infanzia io ho posseduto una famiglia normale – o piuttosto ne sono stato posseduto – vale a dire quel tipo di famiglia che, per vivere, ti fornisce di laurea e di una certa quantità di demenza. In realtà la demenza è il vero titolo di studio che ho ricavato dalla vita domestica, e grazie ad essa ho conquistato rinomanza, cravatte e il diritto di accedere a golosi ristoranti.

Mi dicono che una maggioranza di coloro che sono in stato di cattività familiare ritiene che l’amore sia il fondamento della famiglia; opinione accreditata dal clero, formato esclusivamente da celibi. In verità, se non ci fosse amore, non si proverebbe alcun piacere a percuotere la sposa, far venire gli incubi ai minorenni e indurre nella sposa vagheggiamenti vedovili. L’amor familiare consiste in un complicato ordigno che mescola possesso, diritti, aspettative, consuetudine, distrazioni, prevaricazioni e taciturni, lenti affrontamenti, “bracci di ferro” che durano una vita.

Nella famiglia nessuno fa ciò che vorrebbe fare, e ciò sarebbe dovuto all’amore, ma inevitabilmente comporta una sorta di vapore di frustrazione, tra profumo e tanfo, che pervade i locali e le anime. Ne deriva un rancore neghittoso e taciturno, un parlar d’altro, una tecnica di elusione.

A mio avviso l’amore domestico assomiglia ad un voluminoso e greve animale, che giorno per giorno si scompone, si scinde e recide; e le gambe si aggrovigliano alle orecchie, respira per forami innaturali, si colloca gli occhi sulla coda. Questo animale conserva, per quanto scomposto e ricomposto, una sorta di opaca razionalità, una funzionalità ostinata e tetra, e sviluppa una sua specifica ferocia, tenera, languida, benevola, generosa, quella appunto da cui, con il trascorrere degli anni, germoglia quel titolo di studio insostituibile, che è la demenza dell’infante, demenza che si perfeziona nell’adolescenza, e fiorisce nella piena maturità.

Per poter funzionare, la famiglia ha bisogno di questa sorta di amore, che è fondata su di una serie di astensioni da se stessi che, ben sviluppata, può portare una donna ed un uomo e degli infanti a credere di essere veramente, cioè nella sostanza, mogli e mariti e figli. Inevitabilmente, questa situazione genera o un ignaro furore, o una sorta di allucinazione collettiva; coniugi e figli vivono “come se” fossero una famiglia. Chi volesse dedurre che questa descrizione fonda la famiglia sul sadismo e non sull’amore cadrebbe in un errore terminologico, giacché il sadismo si fonda a sua volta sull’amore. E tenete presente che l’amore della famiglia si accompagna spesso all’amore di patria.



(Tratto dalla raccolta Mammifero italiano, Adelphi, Milano, 2007, a cura di Marco Belpoliti.)



Biografia di Giorgio Manganelli, tratta da una recensione di Laboriose inezie, recentemente ristampato:

Nato a Milano nel 1922, quello di Giorgio Manganelli, scomparso a Roma nel 1990, fu come un «ricatto delle parole», come egli stesso lo definì in Laboriose inezie (1986), un’immersione completa nella letteratura, un mondo di segni costruito come un gioco geometrico di ripetizioni. Un entretien erudito, un io autobiografico mentre si costruisce e distrugge nelle combinazioni. Quasi a scrivere sempre lo stesso libro, fin dal 1964, anno in cui uscì nella collana I narratori di Feltrinelli la sua prima opera, Hilarotragedia. Dalla gestazione complessa, come la storia delle sue numerose edizioni: in origine un piccolo quaderno di appunti su volere dello psicoanalista Ernst Bernhard, poi due edizioni per Feltrinelli e in ultimo la ristampa per Adelphi nel 1987.

Libro e non romanzo, “trattatello” e non storia, come era nello spirito delle tesi del Gruppo 63 a cui Manganelli partecipò, dove il romanzo provocava “ripugnanza” e “fastidio”.

Cos'è dunque questa prima opera che segnò l’esordio letterario di un uomo di 40 anni? In qualche modo un’autobiografia, un viaggio negli inferi per la «natura discenditiva» dell’uomo, per l’eredità «sciamanica» della letteratura che ha a che fare con gli spiriti, con l’Ade — «Dall’infima cima sporgiti, abbandónati al tuo precipizio. Sii fedele alla tua discesa, homo. Amico». Da un’origine sicuramente psicologica, il materiale di quest’opera risale agli anni milanesi dal 1947 al 1949, anni in cui Manganelli, come Alda Merini, conobbe la “tragedia” della malattia mentale e della follia.

Romano di adozione fin dal 1953, Manganelli divenne recensore e critico collaborando per questo con numerose riviste di quegli anni: oltre a «Il Giorno», cominciarono ad apparire su «L’Illustrazione italiana» sue importanti recensioni di opere tra cui Salinger, Beckett e Bellow. Sempre degli anni '60 sono le riviste «Grammatica» pubblicata con Giuliani, Novelli e Perini, nonché la rivista «Quindici», entrambe appartenenti al gruppo della Neoavanguardia. E sarà in questo ambiente di Kulturkritik che si inserirà la partecipazione dei letterati a giornali come «Il Mondo» nella cui rubrica “foglietti di viaggio” si troveranno contributi come le lettere inglesi di Arbasino e le corrispondenze dall’India di Manganelli.

Manganelli traduttore. Di Poe in particolare. Su suggerimento e proposta di Calvino .

Manganelli viaggiatore. Spirito inquieto che viaggia verso l’India, la Cina e la Malesia, affascinato da questi luoghi del possibile, da queste realtà collettive, mosso dalla propria angoscia esistenziale. Dirà infatti su «Il Mondo» a proposito dell’India che questa esperienza era stata per lui come «una serie di diapositive dell’orrido».

Precedentemente a questo viaggio traumatico, che avvenne nel 1975, l’opera di Manganelli proseguiva la sua fase alla ricerca dei segni nel «sole nero di ogni scrittura» con Nuovo commento (1969), opera che portò Calvino a scrivergli una lettera, colpito forse dal fatto che, come lui, questo autore facesse della metafora e del linguaggio la narrazione stessa.

Calvino accolse con lo stesso entusiasmo anche l’opera successiva, Agli dei ulteriori (1972), comprendente racconti inediti quali Un re, Simulazioni, Alcune ipotesi sulle mie precedenti reincarnazioni, Dal disonore, Un amore impossibile, oltre al Discorso sulla difficoltà di comunicare coi morti, già pubblicato da «Il Menabò» n° 8 del 1965. Se i morti non parlano, se custodiscono il «Silenzio», la «Distanza», la «Desolazione», come, se non parlando con «le astuzie del niente, oseremo introdurci in quel Tibet del non essere?».

Manganelli infatti fu sempre angosciato dal nulla, rendendolo talmente pieno, colto, abitato in maniera ludica, da rendere letteratura il mondo intero, dal calcio alla chiesa, al turismo, al traffico, al divorzio, fino addirittura ai traslochi. Articoli apparsi su «Il Giorno» (1972) e su «L’Espresso» (1972-'73) vennero così raccolti nell’opera Lunario dell’orfano sannita (1973), lo sguardo sulla realtà quotidiana di un essere espulso dalla storia che può osservarla e parlarne in modo sarcastico.

Si delinea così quella particolare forma di scrittura che fu di Manganelli da sempre: osservazioni pungenti sulla realtà che divengono linguaggio degno di riflessione e pubblicazione. Operazione che Manganelli completò anche quando anni dopo raccolse gli articoli pubblicati per «La Stampa», «Il Corriere della Sera», «Epoca», «L’Espresso», «L’Europeo» e «Il Messaggero», nell’opera dal titolo Improvvisi per macchina da scrivere (1989). La quotidianità guardata con interesse metafisico, la polemica e la provocazione originate dalla figura retorica con cui Manganelli guardò sempre alla vita, l’ironia. Uno sguardo dove anche la morte veniva resa ridicola, grottesca, picaresca.

Nella nostra letteratura italiana un libro raccontò le avventure picaresche del suo protagonista, un libro che a Manganelli non poteva sfuggire per la grande valenza metaforica e simbolica: Pinocchio di Collodi.

Uscito per la prima volta nel 1977, in Pinocchio: un libro parallelo, Manganelli sta al fianco delle parole, parallele appunto, dà loro un’altra luce, fa diventare il testo di Collodi ancora più allegorico e in queste allegorie, che permettono che il testo possa aprirsi, il burattino di legno diventa adulto; al di là dei giochi verbali e degli esercizi linguistici con cui Manganelli rivede questa opera, l’universo di Pinocchio è infatti, nello spirito di angoscia esistenziale dello scrittore, un attraversamento della morte; attraverso riti e liberazioni durante la sua crescita, coperti dalla maschera dell’ironia, una maschera che svela, una lingua di giochi, errori ed equivoci: «C’era una volta… Un re… No…».

La ripetizione, l’allontanamento emotivo dal coinvolgimento. La letteratura salvò veramente Manganelli dalla disperazione. Ma la letteratura salva dall’angoscia quando esorcizza e per esorcizzare occorreva allontanare producendo un effetto di straniamento emozionale.

È il caso di Centuria, cento romanzi fiume, apparso per la prima volta nel 1979 e arricchito nelle edizioni successive fino all’ultima di Adelphi, di altre 31 centurie, di cui 20 apparse sul «Caffè» nel 1980, e di 7 racconti inizialmente scartati dallo scrittore. Piccoli romanzi, microstorie, come fossero ancora una volta i corsivi di un giornale. Centuria fu per Manganelli l’occasione per essere conosciuto dal grande pubblico, tanto da valergli il Premio Viareggio.

Pubblico non solo italiano. Centuria fu infatti il primo dei libri di Manganelli a essere tradotto all’estero e fu Calvino a presentarne con un intervento la versione francese. Calvino che in Se una notte di inverno un viaggiatore, per l’idea della molteplicità che stava dietro, si sentiva così vicino a Manganelli da sottolinearne la «scrittura concisa ed essenziale», le «invenzioni narrative sintetiche e concentrate».

Ecco le istruzioni di lettura dello stesso Manganelli a quest’opera: «Se mi si consente un suggerimento, il modo ottimo per leggere questo libercolo, ma costoso, sarebbe: acquistare diritto d’uso d’un grattacielo che abbia il medesimo numero di piani delle righe del testo da leggere; a ciascun piano collocare un lettore con il libro in mano; a ciascun lettore si dia una riga; ad un segnale, il Lettore Supremo comincerà a precipitare dal sommo dell’edificio, e man mano che transiterà di fronte alle finestre, il lettore di ciascun piano leggerà la riga destinatagli, a voce forte e chiara. È necessario che il numero dei piani corrisponda a quello delle righe, e non vi siano equivoci tra ammezzato e primo piano, che potrebbero causare un imbarazzante silenzio prima dello schianto. Bene anche leggerlo nelle tenebre esteriori, meglio se allo zero assoluto, in smarrito abitacolo spaziale» .

Tesi questa che troviamo anche nei suoi saggi La letteratura come menzogna (1967) Angosce di stile ( 1981) e Laboriose inezie (1986), ma è in particolare La letteratura come menzogna una testimonianza importante nel dibattito di quegli anni tra letteratura realistica e letteratura fantastica; il fantastico «la letteratura della mano sinistra, dell’apostasia, dell’eresia».

La nuova idea della letteratura per Manganelli, ma anche per Celati, fu espressa in un contributo che lo stesso Manganelli fornì al volume collettivo del Gruppo 63 dal titolo Il romanzo: «corrotto dalla serietà propria e dei critici, ha perso la limpida gioia della menzogna, l’ilare arroganza che sono, a mio avviso, le virtù fondamentali di coloro che attendono a quel perpetuo scandalo che è il lavoro letterario».

Tesi portata avanti anche ne La palude definitiva, l’ultimo romanzo dello scrittore scritto nell’anno della sua morte e pubblicato postumo. Una tesi per tutte di questa opera: l’idea che la conclusione del romanzo è l’impossibilità e il rifiuto a concludere. Come i due punti a fine poesia di Sanguineti. La palus putredinis di uno e la palude definitiva dell’altro. Nella palude definitiva il narratore ci accompagna con il suo cavallo in un luogo «in cui è difficile entrare e impossibile uscire». Quel luogo taciturno in cui il 28 Maggio del 1990 Manganelli entrò?

«La letteratura di Manganelli – scrive Roberto Saviano in un brano intitolato Le amorose inezie di Manganelli – è una struttura forte nelle fondamenta, elegante, inossidabile che mantiene roccaforti di nebbia, torri di cirri».

Un grande visionario. Un caso ancora inesplorato, perché come dice Angelo Guglielmi nel volume Trent’anni di intolleranza (mia) del 1994, Manganelli «non abbiamo finito di leggerlo».

Opere principali:

· 1964 Hilarotragedia
· 1972
Agli dei ulteriori
· 1974
Cina e altri orienti
· 1977
Pinocchio: un libro parallelo
· 1979
Centuria, cento romanzi fiume
· 1981
Angosce di stile
· 1982
Discorso dell'ombra e dello stemma
· 1985
Dall'inferno
· 1985
La letteratura come menzogna
· 1986 Salons
· 1986 Laboriose inezie
· 1987
Rumori o voci
· 1987
Tutti gli errori
· 1989
Antologia privata
· 1989
Improvvisi per macchina da scrivere
· 1990
Encomio del tiranno
· 1992
Esperimento con l'India
· 1992
La palude definitiva
· 1994
Il rumore sottile della prosa
· 1996
La notte
· 2001 La penombra mentale. Interviste e conversazioni 1965-1990
· 2002 L' infinita trama di Allah. Viaggi nell' Islam 1973-1987



        
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