È LA VOLTA DEL PADRE


– Brano tratto dal romanzo Teorema


Pier Paolo Pasolini

 



 


(…) Il padre, nel suo letto disfatto, sta orribilmente soffrendo. Da principio, il suo dolore è ancora incosciente: egli continua infatti a dormire – e il suo non è che uno smaniare nel sonno, da cui, gemendo, sembra volersi liberare. Si sveglia solo dopo un poco: e prende lentamente coscienza che ciò che lo fa soffrire non è un incubo, ma un dolore fisico reale.

Allora, faticosamente, si decide ad alzarsi dal letto, e ad uscire dalla camera, piano piano, per non svegliare Lucia.

Dalla stanza passa, quasi a tentoni, lungo il corridoio ancora buio, e arriva nel bagno.

Qui, l’imposta è rimasta aperta: e, attraverso uno spiraglio della tendina, irrompe la luce, abbagliante e già ferma, come fosse mezzogiorno, della prima mattina. Umile e suprema. Ma quel sole così meraviglioso – che, per caso, dilaga dentro il vano bianco e vile della casa, con la stessa innocenza con cui splende nel cielo o tra le cose della natura – non ha, per i primi istanti, nessuna realtà per il padre: egli ne è solo sgradevolmente accecato, o sente in esso soltanto qualcosa che sembra fargli crescere, fino alla vertigine, il suo male.

Si getta così, coprendosi gli occhi con la mano, a tentar di liberarsi di questo male, mentre sopra di lui, che non ha più neanche la forza di tener dritta la testa, il sole continua a folgorare – attraverso la piccola finestra del bagno – dalla breve, netta, raggiante fetta di giardino che si intravede per la fessura della tenda.

Solo quando si sente appena un po’ sollevato, il padre comincia a prendere coscienza del miracolo di quel chiarore.

E la sua mano, ancora come staccata dalla sua volontà, si aggrappa incerta al davanzale, cerca sui vetri, tira la parte della tenda ancora chiusa su quel qualcosa di consolante e stupefacente che è la luce mai vista di quell’ora.

Così appare quasi tutto il giardino, dietro la casa; con il grande prato verde, e i gruppi, che si intravedono ai margini, di allori e betulle; un silenzioso angolo del mondo, scovato da quel sole dolce, profondo, non visto e non goduto da nessuno.

Allora il padre (non ha mai fatto una cosa simile in tutta la sua vita) si stacca dalla finestra, esce dal bagno, rientra nella sconsolata penombra della casa, l’attraversa, a tentoni, ancora dolorante, finché apre la grande porta a vetri del giardino, e vi si addentra.

Camminando sull’erba bagnata, cercando tra le piante, egli ha nel volto, colpito dal sole radente – di un rosa ch’è pura luce – un lieve sorriso strabiliato e quasi teatrale – tanto è l’incanto. Muove i passi come se fosse un estraneo in un luogo mai visto.

È la prima volta infatti che si accorge di quegli alberi, toccati da una luce che è fuori dalle tradizioni della sua esperienza. Essi sembrano infatti animati, come degli esseri coscienti: coscienti, e, almeno in quella pace, in quel silenzio, fraterni. Passivi alla luce che li tocca come un miracolo naturale, l’alloro, l’ulivo, la piccola quercia, e più in là, le betulle, sembrano accontentarsi di uno sguardo, per ripagare quell’attenzione con un amore infinito e infinitamente preesistente: e lo dicono, letteralmente lo dicono, attraverso la loro semplice presenza, dorata e vivificata dalla luce, che si esprime senza parole, ma solamente con se stessa. Presenza che non ha significato, e che pure è una rivelazione.

Ora, non c’è evidentemente proporzione tra i miracoli rivelati e tutte le altre cose che si fanno nella vita. Eppure il padre – forse perché sono un’eccezione già straordinaria per lui, quei pochi minuti passati vagando nel suo giardino, a quell’ora – è incapace di continuare a restare all’altezza di quella situazione, di lottare ancora a lungo con quello stupefacente amore del sole: il freddo lo fa tremare penosamente sotto la stoffa leggera del pigiama, i piedi si sono bagnati di guazza, il dolore dentro le viscere torna a farsi sentire.

Così – ancora col suo sorriso strabiliato e avaro sulle labbra – egli rientra a casa.


Tutto miracoloso come la luce del mattino mai vista


Abbandonato il giardino alla sua luce – ecco che il padre va di nuovo a tentoni, percorrendo la strada inversa, per l’interno della casa, fino a infilare il corridoio tristemente illuminato dalla luce elettrica. Ma, come fermato da un improvviso pensiero, si arresta alla porta della camera del figlio.

È, ancora, qualcosa di meccanico e di ispirato che lo sospinge: una specie di curiosità che non ha mai provato, e su cui non sa chiedersi nulla: piano piano, con la cautela di un ladro, apre la porta.

Nella stanza quella luce, che non ha dunque esaurito ancora il suo compito senza rapporto con le cose del mondo, entrando attraverso le fessure della grande persiana, disegna l’ospite e il figlio che stanno dormendo su uno stesso letto.

Il sonno li ha scomposti: ma è una scompostezza piena di pace. I corpi, mezzi scoperti, sono intrecciati: ma il sonno li separa; le membra sono calde di una intensa e cieca vitalità, eppure sembrano non avere vita.

Il padre sta a guardare per molto tempo, intenerito, questa apparizione, cui non sa dare significato – e che pure anch’essa è, in qualche modo, rivelatrice.

Si stacca da essa, infine, chiude piano piano la porta, come un ladro, e torna verso la sua camera.

Lucia dorme del suo sonno leggero. Il letto di lui è disgustosamente disfatto. Egli vi si va a infilare;

ma non riesce a prendere sonno. Qualcosa che non ha nome, ma solo una lucidità insopportabile, lo fa restare lì con gli occhi aperti a pensare, forse, a una vita il cui senso, dopo essersi stravolto, resta sospeso. Che farne?

Improvvisamente, preso da una specie di pazzesca impazienza, scuote Lucia e la risveglia.

Come essa è in grado di capire – perduta ogni sacra paura dell’assurdità e del ridicolo – egli le chiede di fare all’amore, subito; anzi, lo pretende.

Lucia non si rende conto di quello che succede – e lui le è già sopra, accanito, come un cieco che corre a tentoni: non importa più quello che lei può pensare. (Ma Lucia, atterrita, è già immersa e perduta in un interrogativo che riguarda ormai tutta la sua vita futura – qualcosa che, nel momento in cui succede, appare irrimediabile – una luce nuova che illumina il passato senza ombra di ragionevolezza e di pietà.)

Egli, premendosi contro il suo ventre, baciandola con violenza ridicola sulla bocca e sul collo, cerca ciecamente, senza curarsi di lei, come già tante altre volte, di prepararsi a fare l’amore. Ma infine, deve arrendersi alla prostrazione cui l’ha ridotto tutto tremante il suo terribile dolore mattutino: resta sopra Lucia ancora un poco, come un corpo morto – poi se ne distacca, senza guardarla, e va a ridistendersi umiliato e ancora esaltato nel suo letto.

Resta lì, ripreso dalle fitte del dolore che cerca di nascondere, pallido, sfinito dalla debolezza, riarso, a guardare il vuoto ormai pieno del soffio della luce, che non è più quella miracolosa dell’aurora, ma quella, disgustosa, di un giorno come un altro.

 


(Brano tratto dal romanzo Teorema di Pier Paolo Pasolini, Garzanti editrice, Milano, 1969.)



Pier Paolo Pasolini

 

 

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