COCKTAIL DI VETERANI (1)

Dmitrij Kostenko




I rivoluzionari che hanno vissuto una rivoluzione si distinguono dai rivoluzionari che non ne hanno mai vissuta una. Noi abbiamo vissuto due volte una situazione rivoluzionaria, nel 1991 e nel 1993. Non dico che si sia trattato di stravolgimenti positivi, ma era un’epoca in cui il potere si dissolveva. Anche solo per un giorno. Quel giorno potevi uscire in strada e non c’era neppure uno sbirro. Potevi abbassarti i pantaloni o sventolare qualunque bandiera, e dopo il sowok (il sistema sovietico dei paraocchi) ciò era di per sé un fatto positivo. Era il profumo della libertà e noi lo abbiamo respirato.

Cosa c’era di buono nelle persone che partecipavano alle desolate iniziative clandestine degli anni ‘80? Erano ingenui, non avevano letto niente. Perché erano migliori degli anarchici sapienti e bene informati di oggi, che leggono di tutto e girano l’Europa? La diffeenza è che allora si credeva che tutto fosse possibile, si credeva di avere le idee giuste e con esse di poter cambiare la realtà. Si credeva in un vero cambiamento, nella possibilità di una rivoluzione. Oggi tutti hanno letto tutto, sanno ogni cosa e sono frustrati. Credi che ci possa essere una rivoluzione? No, non ci credi. Io neppure. Ma allora ci credevamo. L’anarchia viveva. Pensavamo: variamo un progetto – federazione duale, principio della delega e comitati di autogestione –, poi tutti fuori in strada a convincere la gente, e le idee si realizzeranno. Perché no? I democratici avevano fatto così e alla fine si erano imposti, anche noi ci saremmo riusciti. A quel tempo c’era la sensazione di essere forti, una sensazione che le cose potessero effettivamente cambiare. Era la sensazione di sapere dove si doveva andare. Questa era anche la differenza con la generazione dei possibilisti degli anni ’60, con i loro continui: “Non c’è niente di peggio di chi sa cosa bisogna fare”. Questa sensazione di “sappiamo dove si deve andare” e “facciamo quel che c’è da fare” deve maturare in ogni vero rivoluzionario.

Oggi tutto questo è finito e la colpa è del postmoderno. Alcuni di coloro che si sono uniti ai maoisti ortodossi e ai trockisti ci dicono: “Cosa pretendete? Non avete fatto altro che buffonate. Tutto quello che è uscito su Bumbarasch e Stella Nera è puro postmoderno, quei giochetti ironici e il vostro sorriso da saputelli sulle labbra.”

Sciocchezze! Era sì un gioco, ma tutt’altro che postmoderno. Satira e provocazione sì, ma non per distogliere l’attenzione o perché non si sa come andare avanti. C’è una differenza enorme tra lo snobismo postmoderno, che si pone ironicamente sopra tutto e tutti, e la brutale rilassatezza condita a scherno del rivoluzionario quotidiano.

Nell’attuale postmoderno non puoi più nemmeno dire che credi sul serio di rivoltare il mondo da cima a fondo. Neppure tra i cosiddetti no-global c’è n’è uno che crede alla rivoluzione. Perfino tipi come Marcos o Marulanda, che guidano una lotta partigiana, non credono alla rivoluzione. L’ultima rivoluzione in cui il popolo in armi è sceso in piazza, spazzando via ogni ostacolo, conquistando la capitale e tutto il potere, è stata quella sandinista del 1980. Poi non c’è più stato niente. Oggi non c’è più alcuna rivoluzione in corso o in vista. Sì, in Nepal forse, ma il Nepal è una tale caccola, che se anche satana con tutti i demoni prendesse il potere, tutto intorno non cambierebbe nulla.

Per esempio Fritz Teufel con il Movimento 2 Giugno e la Comune 1. Mostrava il suo bel culo nudo, faceva sesso di gruppo, organizzava un carnevale – fino alla tragica fine! Rapinava banche, sparava ai pubblici ministeri, faceva mangiare dolcetti agli impiegati di banca durante le rapine. Questo secondo me è “il carnevale della rivoluzione” – un gioco che ti prende, catapultandoti nel vortice delle lotte di liberazione mondiali. Ma sempre conservando una certa ironia! Noi siamo figli delle idee del ’68, che poi abbiamo ripensato sottoponendole a una critica. Ma la carica esplosiva di carnevale e fiesta rossa restò. Assimilavamo avidamente tutte le azioni spettacolari che circolavano a sinistra; le storie dei movimenti olandesi Provo e Kabouter, i situazionisti e l’Alternativa Arancione polacca, a noi più vicina. Da lì sorse il progetto del Prochodimec rivoluzionario, che poi noi diffondemmo sulla Stella nera tra gli anarchici e su Bumbarasch nella sinistra post-comunista.

Quando svanì l’iniziale entusiasmo per le azioni dei “compagni stranieri”, conosciuti nei nostri primi viaggi in occidente, quando cominciammo a capire che si erano adagiati comodamente all’ombra della muffa piccolo-borghese in cui è sprofondata l’Europa, allora ci passò anche la voglia di quelle meravigliose e autonome occupazioni di case, che prima o poi finivano tutte in hashish o in nicchia. Da quel momento non volevamo più fare come quelli di laggiù. Perché non erano veri, non erano come pensavamo.

Allo stesso tempo ci siamo resi conto che c’era qualcosa che non andava anche con l’eredità del ’68. Guardateli, questi “nobili di sinistra”, come li chiamano i francesi, questi cinici ex sinistrorsi con le facce rigonfie, tutto viene da lì. Anche l’attuale smargiasso Cohn-Bendit è un risultato del ’68. Lo spartiacque furono i primi anni ’70: il movimento entrò in crisi, in diversi paesi gente perfettamente normale impugnò le armi per combattere il sistema. In quest’”età del piombo” chi non si arrese per tempo venne semplicemente spazzato via, vedi Stammheim, è cosa nota a tutti. Ma per i più fu un avvio di carriera nel cosiddetto conflitto generazionale: “Siamo giovani, allegri e non ci fanno entrare nell’establishment. Okay, allora diventiamo rivoluzionari!”

Quando lo spirito del rifiuto fu evaporato, ci si dovette decidere: o si va in galera e si resta a margine, o si fa buon viso a cattivo gioco: si afferma di essere “rivoluzionari critici”, e ci si lascia cooptare dalla politica. La storia della cosiddetta politica alternativa è una storia dell’integrazione di ex rivoluzionari nel sistema. Ad essa appartengono le “iniziative civiche”, la protesta contro il nucleare e il partito dei Verdi tedeschi – tutti ex “nuova sinistra”. Così avvenne l’integrazione nel sistema, che porta al mandato nel Parlamento Europeo, e a pagare, per nostalgia, ai giovani il viaggio per i summit dei G-8 e della Banca Mondiale, applaudendo entusiasti: “Che bella gioventù, stupendi, come disturbano i nostri colleghi.” E quei giovani eravamo noi… rivoltante!

La storia della sinistra europea è la storia di una degenerazione. Restarono solo un nuovo opportunismo oppure le sette. Un tale esito era prevedibile fin dall’inizio, perché il movimento del ’68 scandiva lo slogan: “Noi apparteniamo al fronte della lotta globale del terzo mondo; nel terzo mondo arriverà la rivoluzione e noi la sosterremo da qui” Ma nel terzo mondo la rivoluzine non arrivò mai. Invece dei “dieci Vietnam” sognati dal Che, ce ne fu uno solo, il quale dopo aver vinto si trasformò in un normale, noiosissimo regime stalinista. Anche se poi ci furono El Salvador e il Nicaragua, si trattò di eventi locali che si protrassero per anni.

Ciò produsse in quella generazione una grande frustrazione, e infine una rassegnazione, che è causa del declino del movimento di liberazione della nuova sinistra. Tale declino si trasmise da una generazione all’altra. Il ’68 fu una fontana di idee, un coacervo di nomi riscoperti della prima metà del XX secolo, tra i quali Wilhelm Reich, un rinascimento delle discussioni degli anni ’20 apparentemente dimenticate per sempre. Un Sartre ringiovanito cerca di distribuire alla gente per strada la Cause du Peuple. Poi sopraggiunge la crisi: uno finisce tra gli opportunisti, l’altro tra i dogmatici, il terzo con i terroristi. Quella generazione si dissolse e con essa l’arsenale di idee per le succesive.

Poi arrivarono gli autonomi. Anche loro avevano un retroterra teorico. Il movimento dell’autonomia realizzava le idee contenute negli scritti di Toni Negri e André Gorz: creiamo spazi autonomi, occupiamo case, creiamo zone liberate e ce ne freghiamo del resto del mondo. La rivoluzione nel terzo mondo non c’è stata, non siamo in grado di superare il sistema dominante, ma sostenendoci reciprocamente possiamo creare spazi liberati e non assoggetati alle leggi del sistema: case occupate, autogestione. Così si arrivò alle rivolte degli “operai autonomi” in Italia e alle occupazioni di case a Berlino e Amburgo. Naturalmente i giovani occupanti non avevano letto i libri di Negri e Gorz, ma le loro idee erano arrivate comunque, in forma semplificata. Dopo il ’68 ci fu qualcosa come un nuovo inizio: una nuova opportunità, l’Idea Alternativa era nata e si cercò di metterla in pratica. Ma alla fine anche quel progetto fallì. La generazione degli autonomi venne risucchiata dal sistema, qualche avanzo resiste qua e là, ma un entusiasmo come quello degli anni ’60, quando tutti volevano essere rivoluzionari, tra gli autonomi non c’è più. Il movimento d’altronde aveva carattere locale, era molto meno pubblico e coinvolgeva meno paesi.

Infine vennero i no-global. Questa è stata in assoluto la fregatura più grande! Una simile merda! Gente come il mio amico Alexej Zvetkov acclamava: “Fantastico, questo movimento di massa!” Ma è una pura fregatura! L’idea principale è la tassa Tobin: tassare le grandi compagnie multinazionali. Questa sarebbe la vostra rivoluzione?!

 



Traduzione di Antonello Piana.

 






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