PER FINIRE, UN CAFFÈ


Silvia Persiconi





Mancano ancora ottocento chilometri per arrivare a Monfalcone ed è quasi buio. L’autostrada s’interrompe fra mille e cinquecento metri e presto non mi resterà altro che addentrarmi in un bosco di stradine scardinate e secondarie. Prima di rimmettermi su una nuova via ad alta comunicazione dovrò attraversare tutti gli Abruzzi. Ottocento chilometri, di cui duecento fatti fra paesini e colline: e quando mi passa.

Cosa mi hanno chiamato a fare poi! L’Ateneo di Trieste invitato a un convegno a Napoli. Io insegno logica per dio! Quelli parlano di esoterismo, buddismo, agopuntura! È tutta colpa dell’influenza araba e del dominio spagnolo, come si fa a unire l’Italia?

E mentre rimugino su queste stronzate, l’ultimo autogrill lascia impertinente il mio specchietto retrovisore e una bestemmia mi si ferma tra i denti, giusto per rispetto alla nonna Tea, morta esattamente dieci anni fa e tanto devota.

Non che una bestemmia in più cambi le cose, non saresti contenta lo stesso nonna! Ho quaranta quattro anni il prossimo sedici luglio e ancora non mi decido a mettere su casa. Vivo fra Trieste e Firenze e faccio sesso quando capita e con chi capita. A te Giulia piaceva così tanto e chissà perché è finita. Troppo giovani, troppo diversi, troppo idealisti. Molto meglio la mia vita di adesso, se tutto va bene fra un paio d’anni mi assegnano anche la cattedra. E intanto lei porterà la prima figlia dal ginecologo e il piccolo alle partite di calcio la domenica. No, non avrebbe fatto per me.

E poi c’è stata la scelta agnostica. Roba d’altri tempi nonna, non avresti capito: noi generazione di fenomeni che non han più santi né eroi... è proprio vero. A voi, se vi levavano pure quelli, che vi rimaneva? Il tuo era un universo monolitico, fatto solo di materia, di più: materia divina. Un dogma. Noi siamo nati dando per scontati i buchi neri e il deficit nelle pensioni statali.

Ma i meccanismi della nostalgia superano ancora il verificazionismo e l’enunciato di Godel dimostra che resta sempre qualcosa che sfugge alla solida logica dei numeri naturali. E così, se penso a te, mi trattengo ancora e non bestemmio, come quando a diciott’anni ti accompagnavo alla messa pur di vederti sorridere.

Lo sai la cosa che mi manca di più? e abbassa ‘sti cazzo di abbaglianti! Scusa nonna.

Qual’era lo svincolo: Fragneto manforte o Fragneto l’abate? Nel dubbio, sempre a sinistra!

Ah sì, il ricordo più bello. Quando eri ancora nella casa vecchia, quella con l’orto e io passavo dopo le lezioni all’università e tu smettevi di fare qualsiasi cosa ti avesse fino ad allora tenuta occupata e mi dicevi: “siediti un po’ che chiacchieriamo”. E poi tiravi fuori dalla credenza del salotto quei biscotti a forma di cuore, fatti al novanta per cento di burro, che se l’avesse saputo la mamma ci denunciava tutti e due, col diabete che ti ritrovavi. Ma alla fine hai avuto ancora una volta ragione tu: perché non t’ha ammazzata il diabete, ma la polmonite. Proprio come il nonno. Solo che lui è morto sul fronte del Monte Nero coi polmoni fradici nel 1943, lasciandoti a casa con quattro figlie femmine e solo le funi del cielo a cui aggrapparti.

Quando mettevi sul tavolo la scatola rossa di quei biscotti e ti sentivo preparare il caffè, pensavo che avrei voluto invecchiare come te: col piacere delle piccole cose. Circondato da quel profumo che sapeva di casa, di vita, di buono. Forse se tu mi fossi rimasta vicina avrei potuto imparare.

Il tuo caffè, col suo gusto rotondo, che mi metteva a mio agio...

Ho conosciuto ed apprezzato tanti tipi di caffè. Ci sono quelli slavoni dove lo zucchero ci sguazza dentro e sai già che a non berli non ti perdi niente, ma nelle sere tristi ti possono tenere compagnia. Poi ci sono quelli così forti che devi lasciarne metà nella tazzina se non vuoi rischiare l’insonnia per tre giorni o di riempirti la bocca di polverina nera. E sono gli unici che ti danno la carica giusta quando devi discutere la tesi e sai che il presidente della commissione ha proposto un altro candidato. Nel mezzo ci sta tutta la sfumatura del piacere tostato. Da quello di colore lievemente ambrato e il sapore che ti manda immediatamente in un paese lontano, con dolcezza e un retrogusto speziato. C’è quello puro che lo bevi e dici: “questo è caffè!”, ma è così completo che non ti lascia la voglia della seconda tazza. E poi c’è quello amaro che luccica da quanto è nero e ti regala in bocca un gusto così intenso da fare quasi male. Come le storie d’amore più belle.

E poi c’era il tuo caffè. Reggeva lo zucchero con semplicità, quasi fosse nato apposta per quello scopo, e ti faceva pensare a qualcosa di genuino e familiare. Alle sere passati in campagna tutti insieme, quando ancora tenevi banco fra i fornelli e tutti aspettavano di assaggiare il tuo sugo speciale, il “sugo della Tea”.

Solo in quel salotto riuscivo a godere dei piccoli particolari, per il resto la mia vita era ed è, una corsa contro il tempo. Traguardo dopo traguardo, sempre con fiato corto e l’occhio che scruta un orizzonte lontano. Prima il sessanta alla maturità, per potermi permettere l’università. Anzi, per essere onesti, i primi obiettivi sono stati i risultati sportivi: le gare di nuoto all’elementari, poi la pallavolo durante le medie e le superiori. E sempre questa foga nel raggiungere la medaglia per poi pensare alla successiva. E a scuola era la stessa cosa. E l’università? Fatta in quattro anni spaccati e subito pronto per il Dottorato a Stoccolma. Che anni quelli in Svezia. Liberi e allucinati come può esserlo solo il sole di mezzanotte. E alla fine sono tornato e il post dottorato a Trieste e la trafila delle borse di studio e degli assegni di ricerca e poi finalmente il posto da assistente. E quando pensavo di poter tornare a Firenze, te ne sei andata tu.

A Campobasso ci sono quasi, ma a Chieti quando si arriva? Che poi Isoradio ha appena detto che non posso rientrare in autostrada neppure a Pescara: ma che succede stanotte? E intanto continuo a guidare su e giù e passo accanto a vecchie case e a zone completamente disabitate. Domani ho lezione alle dieci, e se ripenso all’intervento di quel cazzone, sull’influenza del pensiero taoista sulla teoria della relatività ristretta, mi viene davvero da chiedermi perché non ho scelto di lavorare per quella rivista di divulgazione scientifica, com’è che si chiamava? “Metamorfosi”, mi pare. A quest’ora avrei avuto di certo più soldi e molti meno deficienti a cui rispondere con garbata eloquenza.

La fame ormai si fa sentire e non avrò molta autonomia. Che se non mi sbrigo poi, chissà che trovo di aperto fra questi lupi! Eppure continuo a guidare. Un paesino dopo l’altro si appiccica alla strada e si lascia immediatamente dimenticare.

Non so neppure come ho fatto e maledico la mia avversione al gps, comunque a Frosolone sono arrivato e, non so perché, mi pare già un buon traguardo. E poi ho ricominciato a vedere le indicazioni per Chieti.

E intanto: case e un fiumiciattolo e poi niente. Un valico, una discesa dritta e sobria, ancora le stesse case. Continuo a guidare accompagnato dalla radio e dai ricordi.

Poi all’improvviso il morso allo stomaco: devo fermarmi a mangiare al più presto. Ma ancora non demordo: Pennapiedimonte, Roccamontepiano…come se cercassi qualcosa.

Ormai sono quasi arrivato a Chieti, lì qualche locale aperto lo trovo di sicuro.

Poi in mezzo al nulla, seguendo l’inclinazione della strada, dietro una protuberanza di arbusti, vedo un casolare, mi sembra giallo. Mi sto avvicinando e leggo chiaramente l’insegna: “Pensione e trattoria Rosa Tea” . Mi sembra il giusto omaggio per te nonna, stasera, e così, rallento, entro nel parcheggio, sento i sassolini slittare via sotto le gomme, e mi fermo. Un leggero cerchio alla testa allenta la presa, gli occhi si distendono. L’aria non è fredda e l’odore di bosco mi riporta agli anni delle prime scarrozzate in motorino.

La porta di castagno, pesante e irregolare, promette bene. Dietro a un banco di formica marrone, una ragazza paffuta e sorridente. Mi chiedo perché sorride: è gentilezza formale verso il cliente che ha sempre ragione, oppure è davvero felice, almeno lei? In questa provinciale persa nel nulla fra una montagna e una striscia di abitazioni degli anni del Fascio: felice? E chi lo sa, a qualcuno basta così poco. Ad altri non è sufficiente neppure la chiamata della più prestigiosa università statunitense. E di nuovo, un quid che sfugge alle leggi dei numeri. E a me.

“Si può ancora mangiare qualcosa?”

“È fortunato, la cucina stava per chiudere, ma ormai si può accomodare”

E così mi ritrovo, unico ospite, in un salone da comunioni anni Ottanta: coi tavoloni e le tende fiorate, servito come fossi un’autorità.

Questa è una di quelle volte in cui la vita mi sorprende: mai avrei creduto di cenare così bene. Un vinello rosso locale che va giù da solo. Pasta fatta in casa con ragù di selvaggina. Arrosticini di agnello con patate arrabbiate. Una fetta di Parrozzo, perché si avvicinano le feste Pasquali ed è consigliato dalla casa. E, per finire, ordino un caffè.

Dopo pochi minuti si spengono le luci dietro al bancone e dalla cucina esce una signora, una vecchietta. Un metro e sessanta scarsi, le gambe, due stecchini veloci coperti ancora per tre quarti dal grembiule a quadretti, e in testa, un fazzoletto. Appoggia un piccolo vassoio argentato sul mio tavolo senza indugi nelle mani venose e si sofferma un attimo a guardarmi. Ha gli occhi scuri e cerchiati di rughe, ma nel suo caso sono davvero ricami del tempo, regali della vita. Io sorrido un po’ impacciato, ma mi piace questa vecchietta piccola. Mi sembra fragile. Così diversa dalla mia nonna Tea, che era un donnone di novanta chili, con un pancione impertinente e un cesto di capelli, che sono rimasti ricci e forti fino ai suoi ultimi giorni.

Guardo il vassoio: una tazzina bianca su un piattino, il cucchiaino, una zuccheriera di terracotta e un fiaschetto di grappa al ginepro.

Ringrazio e mi complimento per l’ottima cucina. Sembra sorpresa da tanti salamelecchi, abbassa lo sguardo e fa un piccolo cenno d’inchino con la testa. Poi si allontana con aria serena, si siede ad un tavolo e chiama la giovane a farle compagnia.

Io intanto ho zuccherato il caffè. La polvere bianca si scioglie senza nulla togliere alla consistenza del liquido marrone. Annuso e aspetto un attimo. Poi assaggio il primo sorso. Rotondo. Come le sere in campagna tutti insieme. Da veramente tanto tempo non lo trovavo, ma è proprio quello il sapore: sa di casa, sa di vita e sa di buono. Lo sorseggio, sperando che duri almeno il tempo di un abbraccio. Non ho il coraggio di chiederne ancora: le donne sono stanche e per andarsene a letto aspettano solo me. Ma a colazione sarà pronto di nuovo. Un piccolo piacere. E scommetto che ci saranno anche le ciambelle. Per stasera ho deciso. La lezione si può sempre rimandare. Stanotte resto qui.



Silvia Persicone nasce a Firenze nel 1974. Dopo il diploma dell’ Istituto sperimentale ad indirizzo pedagogico, si laurea col massimo dei voti in Filosofia. Insegna nella Scuola Primaria. Ha frequentato un Master in Gestione e Sviluppo delle Risorse Umane. E’ iscritta al terzo ed ultimo anno della scuola per Consulenti familiari e coniugali. Nel luglio del 2003 col romanzo Dillo a Camilla si classifica terza al concorso “Spazio ai giovani” organizzato dall’agenzia letteraria Il Segnalibro. Dillo a Camilla viene pubblicato nel 2004 da Alfa Libri, sigla editoriale di Edizioni della Meridiana. Ha frequentato corsi di scrittura creativa e collaborato con la rivista letteraria “Sagarana”che ha pubblicato i suoi brevi racconti: Più ciliegia che bordeaux, Casa straniera e All’improvviso. Dillo a Camilla è il suo primo romanzo.



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