IL MESSAGGIO DI CYRANO



Peter Karvaš

 



 

Sul giardino del convento di Santa Croce calava una notte ventosa.

Nel punto in cui l'antichissimo viale fiancheggiato da due filari di castagni s'incontrava con l'ala occidentale del convento e il suo colonnato coperto di rampicanti di vite selvatica, rosseggianti o ingialliti, si trovava uno spiazzo minuscolo. Lì, dirimpetto al portoncino di ferro battuto della cappella, alcune persone si erano raggruppate attorno a una panchina di pietra circondata da cespugli. Sulla panca stava morendo Savinien Cyrano de Bergerac.

Nell'aria, sempre più pungente, svolazzavano foglie di castagno. Secche come le mani di un vecchio, si posavano sul grande telaio da ricamo gettato a rovescio nella sabbia, sul trapunto non ultimato, sul cestello di vimini capovolto, sui gomitoli dei fili di seta colorata sparsi un po' ovunque. Due passi più in là, nell'erba, giaceva la spada di Cyrano.

La posizione un po' appallottolata, a cui il corpo di Cyrano era costretto dalla forma della panchina, a semicerchio, appariva innaturale e destava l'impressione che il Signor de Bergerac soffrisse di dolori inenarrabili. Ma probabilmente non era così: Cyrano era calmo, perdeva il sangue lentamente e il suo respiro, pur debole e attraversato da sussulti, era chiaramente percettibile.

Gli occhi li teneva aperti e non v'era alcun dubbio che vedesse e riconoscesse i visi attorno a sé. Quello di sua cugina, la tenera Rossana, l'amore di tutta una vita, che lacrimava silenziosamente nel suo fazzoletto. Il viso di Le Bret, bagnato e luccicante. Quello del buon vecchio Ragueneau, che singhiozzava ad occhi asciutti e mani giunte. I visi delle suore appartenenti all'Ordine di Santa Croce: quello della madre superiora Margareta, composta, dignitosa e tranquilla, abituata a veder morire i mortali; quelli di suor Marta, giovane e spaventata, e della suora portinaia: tutte e due con una grande candela accesa in mano e la mano libera inarcata nel tentativo di proteggere la fiammella dal vento e tutte e due, con quella luce vivida sui volti, somiglianti alle sante scolpite nel legno. Il viso del maresciallo, il duca de Grammont, dall'espressione corrucciata. E, infine, quello di padre Sebastien, mandato a chiamare dalla novizia Clara quando gli altri videro le bende di Cyrano inzupparsi di sangue.

Dopo un attimo di silenzio il poeta, sfinito da un attacco appena passato, schiuse le labbra e chiese piano:

"Ho delirato...? Mi sarò reso ridicolo ancora..."

"No", si affrettò a rispondere Rossana, "mi avete raccontato le ultime novità, come al solito... Che martedì l'intera corte si è recata al castello di Fontainebleau. Che il re ha esagerato con la frutta sciroppata e gli è venuta la febbre e l'hanno decongestionato con le sanguisughe. Che abbiamo di nuovo sconfitto gli austriaci. Che Lygdamira ha cambiato l'amante. Che sono state condannate alcune streghe..." A un piccolo cenno del duca tacque, indietreggiò e chiuse gli occhi.

"Non avete delirato", disse il duca serio, "al contrario, Savinien, ci avete regalato un'altra delle vostre uscite brillanti. Vi siete destreggiato con la spada e avete improvvisato un monologo in versi perfetti. Come anni fa. Siete sempre in forma, vecchio mio".

"Ora ricordo", disse Cyrano. "Ho terminato con un'epigrafe. Ve la siete segnata? Tra non molto vi servirà."

"Non fa che scherzare", accennò Ragueneau e il turbamento gli spezzò la voce.

"Qualcuno dei presenti sa scrivere?" domandò Cyrano.

"Io", il padre Sebastien, premuroso, si fece avanti accostandosi alla panca. "Passavo di qua per caso", aggiunse, poco convincente: "Avevo l'intenzione di andarmene nella cappella, a meditare un poco..."

"La menzogna è un peccato mortale, padre Sebastien", disse Cyrano: "Non moltiplichiamola, quando non ci è più di alcuna utilità... Fa' niente. Posso dettarvi qualche rigo?"

"Al vostro servizio", disse il sacerdote, "ma non vorreste piuttosto..."

"No", Cyrano schivò il seguito. "Questo mi pare più importante."

La novizia Clara fu mandata a recuperare la carta e gli arnesi per scrivere.

"Quel delinquente!" incalzò Ragueneau. Non sopportava il silenzio che si spandeva attorno: vi si poteva cogliere il passo tra il fogliame frusciante, il lento avvicinarsi della dama con la falce contro la quale, poco prima, il poeta aveva sguainato la sua spada. "Quel porco! Colpirvi così, a tradimento, con una trave sulla testa...!"

"A che serve questa farsa, Ragueneau!", disse Cyrano e sulle sue labbra tremolò qualcosa vagamente somigliante ai suoi sorrisi ironici: "Sto morendo e mi pare una ragione sufficiente per attenerci alla verità. Non è stato a tradimento e non è stata una trave. È stato un regolare duello e io ho perso. È il primo duello che perdo - e anche l'ultimo della mia vita. Fosse il contrario, sarebbe peggio."

"Ho visto con i miei stessi occhi!" esclamò l'ex pasticcere, che un tempo verseggiava sfornando dolci e facendo da protettore a poeti affamati e ora, nel ruolo di scenografo, si dedicava alle quinte, alle parrucche e alle luci della Compagnia teatrale del Re: "Ho visto quel furfante gettarvi addosso quella trave, dalla finestra."

"No", disse Cyrano. Per tutta una vita aveva parlato e declamato versi con la stessa facilità con cui respirava e se adesso, nell'ora della morte, il fiato poteva anche tradirlo, non così la sua favella. "È stato il mio caro amico Mathurin Furetiere: settimana scorsa ho arrischiato sul suo conto un paio di epigrammi assai poco lusinghieri. Non ha un briciolo di talento ed è un pessimo spadaccino, ma è di un quarto di secolo più giovane di me. A questo bisogna pure rassegnarsi. Ho perso il controllo, mi sono girato e lui mi ha colpito alle spalle. Un giorno o l'altro a tutti noi tocca il nostro ultimo duello. E chi ha speso l'intera vita a scrivere satira per burlarsi degli altri, prima o poi in quel duello verrà sconfitto. E infine: è inevitabile che per ogni buon spadaccino arrivi il momento in cui gli capita un avversario più giovane. Perché negarlo?"

Fu portato il necessario per scrivere e il padre Sebastien si adagiò sulla sedia di vimini, la stessa su cui, non più di un'oretta o due prima, Rossana stava ricamando senza rendersi minimamente conto che stava conversando con un moribondo. Cyrano domandò:

"Siete pronto, padre?"

Il sacerdote annuì. Il duca, l'ex conte de Guiche, s'accostò a Cyrano; la luce delle candele lo illuminò di colpo e svelò quanto fosse invecchiato e quanto gli costasse vincere la pena e il dolore. Le labbra gli tremarono, mentre domandava:

"Dobbiamo allontanarci?"

Cyrano esitò per un momento, quindi socchiuse gli occhi con un cenno di diniego. Bisbigliò: "Mi basta il vincolo del silenzio, a cui vi obbligo."

"Sarà un testamento?" domandò il padre Sebastien.

"Sarà una lettera", disse lo scrittore. "Mettete la data."

Il sacerdote scrisse: "A Parigi, il 14 settembre nell'anno del Signore 1655". E domandò: "Il destinatario?"

Cyrano non rispose subito. Poi iniziò a parlare con un filo di voce, ma tranquillo:

"Mio caro Jean-Baptiste."

I presenti si guardarono l'un l'altro stupiti.

"Scrivete a Molière?!" domandò sbigottito Le Bret. "Per quanto ne sappia io..."

"Sì", annuì Cyrano e questa volta il suo sorriso fu palese e inequivocabile. "Non ci sopportavamo un granché. Io non gli piacevo. Da vivo, però! Ora, dopo la mia morte, capirà. È l'unica persona in tutta la Francia che mi capirà davvero."

"Ha la febbre", constatò angosciata la madre superiora, abbassando la voce. Rossana singhiozzò e cercò rifugio tra le sue braccia.

"Mio caro Jean-Baptiste", ripetè il poeta e cominciò a dettare; la voce gli si andava via via spegnendo e lo costringeva a intervalli di riposo sempre più frequenti e lunghi. "Il buon Ragueneau, mio amico e tuo servitore, ti porterà questa lettera: la mia prima opera in cui non ci sarà una sola parola di malignità, invettiva, ironia o sarcasmo, la prima che non danneggerà nessuno, la prima che non farà crescere la schiera dei miei nemici, da tempo - come ben sai - piuttosto copiosa. Scrivo a te, ben consapevole che non nutri una particolare stima per la mia opera e presagendo che tu abbia ragione. Diventerai uno scrittore molto più grande di quanto non lo fossi io; anche se siamo coetanei e tu non sei che agli inizi della tua carriera, hai già fatto il passo decisivo verso l'immortalità. Non importa se la Corte e i tuoi angusti critici non se ne rendano conto; io lo so. Se mi è consentito, in questa circostanza, un po' di umorismo amaro: per queste cose ho un gran naso. Scrivo questa mia ultima lettera a te per una sola ragione: io, per quanto misconosciuto, insignificante, famoso solo per via degli scandali e dei vituperi, forte solo a spese degli altri e nella solitudine più fragile di un moscerino, io voglio darti un consiglio. Non rifiutarlo: mi aiuterà a venire a patti con l'aldilà.”

“Sto morendo. Sto morendo come sono vissuto - immerso in uno scenario bellissimo e circondato da persone buone che non sanno distinguere un seducente virtuosismo da un'amarezza reale ma che mi sono grate per non aver mai commesso il crimine di annoiarle. E io le perdono se anche ora, ora che il mio destino si sta compiendo, ora che mi sono imbattuto in una rivale arrivata con l'incarico di trafiggermi una seconda volta, ora che sanguino davvero e davvero me ne sto andando, sconfitto, le perdono se anche ora continuano a guardare, volenti o nolenti, solo il mio naso."

Gli occhi di Cyrano ora ignoravano il gruppetto muto che lo attorniava, ma comunque Marta e Clara volsero lo sguardo altrove, in fretta. Ragueneau, stranito, si inginocchiò sulle foglie. La madre superiora si mise a muovere le labbra, senza emettere alcun suono. Il padre Sebastien strizzò gli occhi, il becco del pennino scricchiolò. In alto, tra le chiome degli alberi, crebbe il mugolio del vento. Cyrano restò per un po' immobile, quindi riprese fiato e proseguì.

"Una grande distanza ci separa, mio caro Poquelin: siamo come il fuoco e il gelo. Tu hai davanti una splendida carriera, io muoio. A te verrà riservato, oggi o domani, un posto al sole della Corte, io rimarrò un povero nobile sconosciuto. Tu sei amato e i tuoi spettacoli divertono l'intero popolo, io sono stato letto da non più di tre dozzine di persone in tutta la Francia. Tu sei applaudito in case gremite di gente, dai principi come dalle serve; il mio acume può essere apprezzato solo da persone colte, e quelle considerano la satira indegna e compromettente. Tu sei circondato da amici - e gli oltraggi che hai subito nella tua vita fanno sì che tu sappia riconoscerli - io invece sono odiato da molti, perché con gli uomini facevo conoscenza per lo più con la spada in mano. Li mettevo alla berlina, li denudavo con le mie imbeccate genuine quanto rozze, li umiliavo con le mie celie senza farmi scrupolo delle loro desolazioni grottesche - queste cose non si perdonano. Ciononostante, è a te che mi rivolgo per svelarti nell'ora più difficile il mio segreto."

Rossana sollevò la testa, con dolente apprensione, convinta che Savinien avrebbe parlato del suo grande amore. Ma il poeta continuò, con la voce che pian piano perdeva la sua corposità, senza dar modo di capire a cosa stesse mirando:

"Malgrado tutto ciò che ti ho appena detto, ho scoperto un modo per entrare nel cuore della gente e mettervi radici profonde. E voglio rivelartelo, mio caro Jean-Baptiste.”

“Tu sai che la mia tragedia sulla morte di Agrippina non è male, anche se - questo lo so io - non è cara al tuo spirito. Naturale!, a quanta gente interessa il destino di Agrippina? Quanti sanno chi era costei e quanti invece non immaginano nemmeno che un tempo visse una qualche donna di nome Agrippina?”

“Tu non ignori di certo che le mie avventure ne ‘Gli stati e imperi della luna e del sole’ sono diventate letture di svago dei gourmets. Non fanno torto alla fama che si sono conquistate, come mi hanno riferito, con il loro romanticismo, i giochi verbali, il trionfo della fantasia, le girandole di trovate comiche basate sui doppi sensi. Ma forse la Francia e il mondo non sono ancora maturi per recepire l'idea di un possibile volo interplanetario, forse quest'immagine utopica l'ho propinata alla gente un po' troppo presto. Forse i miei viaggetti visionari appaiono un lusso, in tempi come questi, tempi che vedono contadini rapinati dell'ultimo chicco di grano e artigiani oberati di tasse più alte del loro guadagno. Questo è certo: come scrittore non mi sono conquistato un gran pubblico.”

“Godevo di ottima reputazione in veste di arguto buontempone, benvenuto nei salotti dove inscenavo su commissione baruffe stravaganti o facevo scoppiare scandalucci spassosi su cui spettegolare e zimbellare a volontà. Per quanto ricordi, la gente stava ad ascoltare le mie storielle cavalleresche per ore intere, bramosa delle mie improvvisazioni, dei miei aneddoti. Senza lesinare lodi ed entusiasmo per le mie romanze e ballate, che spargevo a piene mani e che venivano imitate da numerosi epigoni. Ma dì una parola - e quella ti vola via come un passero: non sai dov'è finita, non ritorna mai. Le mie parole erano ghiottonerie, non cibo che sazia. Solleticavano, non davano felicità, né arricchimento. Anche qui ho fallito, se misuriamo le cose in base ai traguardi: e che altro potrei fare in questo momento...?”

“Si vocifera senza tregua delle mie glorie militari. Fandonie, amico mio: pure il 'demone del coraggio' è una finzione, pura invenzione. Non ho mai fatto parte di un battaglione militare: considerare tale il raggruppamento dei cadetti guasconi è un malinteso fatale! I cadetti non erano affatto soldati, nemmeno soldati prossimi venturi! I cadetti erano semplicemente cadetti, vale a dire fratelli minori, per i quali il nostro dolce francese offre questa abbreviazione. E mentre i fratelli maggiori, cioè i primogeniti delle famiglie nobili, ereditavano ogni cosa - titoli, diritti, proprietà - i fratelli minori, i cadetti, restavano a mani vuote. Perciò erano amareggiati, incattiviti oltre ogni dire e pronti alle bravate da patibolo, ai temerari colpi di mano di ogni genere. Noi, cadetti, non combattevamo: facevamo delle risse, provocavamo dei disordini. Non difendevamo la patria: ci vendicavamo di lei per le sue leggi e tradizioni che ci hanno derubati. Non ci battevamo ma azzuffavamo. Non eravamo allegri: ci ubriacavamo soltanto, per rabbioso dispetto. Non eravamo un reggimento né una compagnia, ma solo compagni. Anzi, complici. Chi afferma qualcosa di diverso, per quanto in buona fede, mente.”

“La mia attività scientifica non merita grandi discorsi. Dapprincipio avevo studiato perché costretto, poi perché mi era utile, infine perché ero convinto che lo studio mi avrebbe dato da vivere. Ne ho pagato le conseguenze: la mia comicità imbevuta di erudizione era poco comprensibile e la mia ricerca scientifica intrisa di umorismo non veniva presa sul serio. Anche qui, secondo molti, ho fallito."

A questo punto Cyrano fece una pausa e una mossa che nessuno si aspettava: si sollevò sui gomiti e guardò con attenzione gli astanti. I suoi occhi, stanchissimi, slittavano lentamente da una figura all'altra. La sorella Marta sibilò: la cera ardente le era gocciolata sul dorso della mano. Rossana si divincolò dall'abbraccio di Madre Margareta e con un balzo si avvicinò al poeta, per sostenerlo. Ma lui si lasciò ricadere sulla panca di pietra e fece un profondo sospiro. Serrò gli occhi, come se stesse raccogliendo le forze per finire la lettera. Poi ricominciò a parlare; ora la sua voce era stranamente ferma e da tutti ben udibile, anche se il giardino autunnale stormiva sempre più forte.

"Non mi resta, mio caro Poquelin, che rispondere all'ultima e principale domanda. Se è vero tutto ciò che ho appena detto di me stesso, come mai lascio comunque dietro di me un'opera, cioè la mia vita, avventurosa e pittoresca, vissuta come un grandioso eroico dramma? Come mai ora sono circondato da persone in lacrime, persone care, avviluppate e travolte da un dolore e una compassione autentici? Come mai, malgrado tutto, ho trovato la strada verso il cuore della gente?”

“Lo devo - come potrebbe essere altrimenti? - al mio naso.”

“Il mio segreto è semplice. Quando, tra un attimo, renderò l'anima a dio, sopra le mie spoglie mortali i miei amici scopriranno che questo mio naso gigantesco è finto.”

“Ricordi il famoso ballo in maschera all'Hotel de Bourgogne, a cui partecipammo tutti e due? Allora tu nutrivi ancora ambizioni cortigianesche, volevi diventare 'valet de chambre du roi', il tappezziere del re, come tuo padre, e io mi interessavo nientemeno che di astronomia. Mi pare che tu fossi travestito da cuoco, io da pirata. Mi ero incollato sulla faccia un naso ciclopico ed ebbi un successo strepitoso. Sicuramente ricorderai che la mia maschera vinse il primo premio e che mi venne consegnato dalla duchessa de Moreas. Mai prima di quella notte raccolsi tante simpatie, mai prima ebbi tanti amici.”

“Capisci? Quel naso… non me lo sono più tolto.”

“Al contrario: non appena si rompeva o sciupava, me ne fabbricavo subito uno nuovo. Fu uno dei tuoi attori, il compianto Jourdain, ad insegnarmi come applicare un grande naso, e io mi sono impadronito della sua tecnica meglio dei buffoni nella Commedia dell'Arte italiana, che tu pure hai superato: ho vissuto la mia vita come il nasuto Cyrano.”

“Se prima, nel sentire pronunciare il mio nome, la gente ricordava vagamente il fatto che avevo pur scritto qualcosa, che avevo fatto una qualche scoperta scientifica, che non mancavo del tutto di spirito - ora, non appena venivo nominato, tutti sapevano subito e con grande precisione di chi si stesse parlando: di Cyrano dal naso badiale. E così ho cominciato a vivere una vita totalmente nuova.”

“Quel che non mi è riuscito in veste di scrittore, sportivo, buontempone, ricercatore, satirico, amante, l'ho ottenuto come colui che si porta a spasso un naso smisurato, inconcepibile. Grazie al naso, ho trovato il modo di diventare me stesso: un personaggio, originale e indimenticabile. Fuori dal comune.”

“Avevo capito di essere troppo spiritoso, troppo colto, troppo coraggioso per un nobile che non ha mezzi e quindi alcunché di particolare. Un branco di imbecilli, vigliacchi e ignoranti stavano in bramosa attesa di un mio errore o insuccesso, di un aneddoto non riuscito, di un duello perso, di un avversario potente che avrei fatto infuriare. Era insopportabile, ma logico.”

“Il naso mi ha consentito di aprire un capitolo nuovo. Ero più bravo degli altri come spadaccino? beh, in compenso ero penalizzato con un orribile naso. Padroneggiavo il verso e la rima con la stessa bravura con cui maneggiavo la spada? ma che altro mi rimaneva da fare, con quel nasone? Ero coraggioso, onesto, leale? ma di certo non perfetto, se la sorte mi ha ficcato tra gli occhi quella mostruosità penosa e irrimediabile.”

“Alcuni dunque mi apprezzavano malgrado il naso.”

“Altri mi perdonavano proprio grazie al naso.”

“Che io fossi un buon poeta, che avessi il cuore capace di amore grande come la Cattedrale di Maria Santissima, che il mio spirito sfavillasse come la gemma al sole del meriggio, tutto diventava secondario, sopra ogni cosa s'inarcava quel mio nasone disumano: l'onta irreparabile e degna di compassione che provocava offesa e viceversa suscitava pena, e rendeva inammissibile l'amore,.”

“Al nasuto la gente perdonava infine anche la sua arte, dono divino, la sua verità. Il nasuto era vulnerabile: poteva tirare fuori mille modi per dimostrare la sua superiorità e forza, ma non poteva liberarsi del naso.”

“Era l'unico modo per vivere pienamente, senza imbrigliare passione, amore per la giustizia, lingua tagliente: essere un miserabile con il tallone d'Achille nel bel mezzo della faccia.”

“Ricorda, Poquelin: gli uomini devono avere qualcosa che non va. Un grande naso o le orecchie a sventola, o il sangue e la pelle impuri. Altrimenti nessuno li perdona se saranno anche di una sola spanna più grandi degli altri. Anzi, non verranno nemmeno creduti di essere vivi. Il naso storto del tuo Stordito fa di lui Lo stordito. Se un qualche tuo personaggio mancherà di naso storto, procuraglielo immediatamente. E che sia piuttosto un criminale che non una nullità sbiadita, noiosa, che non si distingue per nient'altro che la sua bontà, la lealtà, l'onore, la purezza e il buon nome.”

“La gente ritiene degno di considerazione e di sentimenti autentici solo chi ha un naso o una passione iperbolici, o le mani macchiate di sangue, la vena comica capace di annichilire, un passato vergognoso, un futuro dubbio, un presente intrigato, un destino traviato, una vita colma di vessazioni subite… Chi non ha niente fuori posto, chi è come deve essere, come richiedono convenzioni e norme vigenti, viene dimenticato non appena scompare dall'angolo visuale del suo interlocutore: un volto perfetto e nessun volto è pressappoco la stessa cosa. Nemmeno il più geniale degli artisti riesce a raffigurare l'uomo ideale meglio dell'ultimo dei giornalisti di cronaca nera, che può rendere accattivante anche un miserabile ladruncolo: purché abbia un grande naso. In questo, fin tanto che esisterà la storia dell'arte, non si può cambiare nulla.”

“È vero, io non parlo di arte, ma della vita. Se la mia non è stata piccina, lo devo alle proporzioni eccellenti del mio naso. Lo volevo, me lo sono procurato e ho vissuto con un naso più grande del talento con cui vivi tu. La mia Agrippina perciò è forse peggiore del tuo Stordito, ma in compenso sul mio conto scriveranno opere migliori che non sul tuo: la mia vita era più nasuta. Sono sicuro che mi hai capito.”

“Fate vedere, la firmo."

Il padre Sebastien terminò con cura l'ultima frase, quindi intinse la penna nel calamaio e la porse al moribondo, tenendogli davanti il foglio. Cyrano si protese, alzò la mano - e in quel preciso istante fu scosso da un breve e convulso spasimo. Gli occhi, fissi in quelli di Rossana, si spensero.

Ragueneau si alzò: "Pare che lo spettacolo sia terminato", disse piano. "Farò in tempo a raggiungere il Signor Molière nel suo camerino."

"Aspettate", disse il duca de Grammont energicamente. "Tutto questo non ha alcun senso!"

Non sappiamo che cos'è accaduto in seguito. Al riguardo non abbiamo nessuna prova - se escludiamo l'opera completa del Signor Jean-Baptiste Poquelin, conosciuto sotto lo pseudonimo “Molière”.

 


(Traduzione dallo slovacco di Jarmila Ockayova.)



Peter Karvaš: La vena satirica attraversa la tradizione letteraria slovacca da secoli e, pur con tutte le differenze stilistiche e contenutistiche, presenta un tratto comune: l'effetto comico scaturisce da situazioni straordinarie, uniche, situazioni nelle quali i personaggi si trovano per caso e alle quali non sanno reagire, perdendo in qualche modo la capacità di comunicare. Insomma, questo genere di racconti o romanzi viene sviluppato come una commedia degli equivoci.

Nell’architettura narrativa di Karvaš (nato nel 1920) l'umorismo si presenta con caratteristiche totalmente differenti: strutturato non sulle situazioni ma sulla parola e le sue infinite possibilità dialettiche.

Il potere evocativo della parola nei racconti di Karvaš non è mai diretto, "mina" a distanza e prepara l'effetto comico attraverso il rimando, il simbolo, la metafora. E poggia sempre, anche nelle tematiche più "esotiche", sull'ordinario, sul quotidiano, su ciò che può accadere a chiunque e in qualsiasi momento, nel mito o nella storia come nel mondo attuale, nel qui ed ora. In questo modo i personaggi di Karvaš si trasformano quasi in archetipi del pensiero: diventano emblemi, modelli universali che mettono alla berlina le nostre pochezze o le sottomissioni e codardie di chi lascia il proprio potenziale di vita isterilire in balia delle varie alienazioni, crudeltà, perdite di valori.

La lettura è divertente, ma è un divertimento che somiglia alla schiuma: sotto, ribolle altro. L'ironia si mescola alla tragicità; le figure mitiche, storiche, letterarie, ecc. indossano vestaglie e pantofole di casa, sono vicinissime, attuali; la modernità invece è antica, viene resa astratta, viene "allontanata" per vederla meglio. Insomma, la parola è gioconda e pungente ma lo scopo è sempre quello del "riso amaro”, sollecitato per riflettere sulle peripezie del destino umano, individuale e sociale che sia. Ogni trovata comica di Karvaš, e ogni sorriso del lettore, vuole essere un colpo di piccone per arrivare al nocciolo del nostro umano agire.

I racconti tradotti - "Messaggio di Cyrano" e "Caduta di Lucifero" - sono tratti dalla raccolta "Le ultime umoresche e altri passatempi" (Posledne humoresky a ine kratochvile) pubblicata a Bratislava dalla casa editrice "Slovensky Spisovatel" nel 1989.

 

 

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