OLVIDO – Brano tratto dal romanzo Il pittore di battaglie –
Arturo Pérez-Reverte
(…) Abbiamo poco tempo, aveva detto lei in seguito. Faulques avrebbe ricordato quelle parole negli anni a venire, proprio come le ricordava questa notte, con l'odore delle sigarette di Ivo Markovic ancora nell'aria e lo stesso Faulques immobile davanti al murale di cui Olvido era causa diretta. Abbiamo poco tempo. Lei l'aveva detto come per caso, con un vago sorriso sulle labbra, la notte stessa del giorno in cui si erano conosciuti. Un giorno lungo, piacevole, di passeggiate e conversazioni, di affinità professionali scoperte in un gesto, in una frase, in un battito di ciglia. Era giovane, e così bella da non sembrare vera. Faulques l'aveva notato al museo, con un'occhiata spassionata; ma solo quando si erano trovati sotto gli affreschi di Rivera nel Palacio Nacional e l'aveva vista sporgersi dalla balaustra, per fotografare i giochi di luce e ombra nella galleria, tra i bambini di una scuola che sfilavano tenendosi per mano, aveva avuto la conferma che era di una bellezza singolare, sottile, delicata, come una cerva dalle movenze sinuose, il cui sguardo, però, smentiva l'innocenza. Perché lei aveva un modo tutto suo di guardare, abbassando un pó la testa e alzando gli occhi, una combinazione di ironia e di insolenza. Uno sguardo da cacciatore pericoloso, pensò d'un tratto Faulques. Diana con una faretra da fotografo e un paio di macchine.
Avevano mangiato insieme in un ristorante vicino a Santo Domingo, dopo aver passeggiato nel chiasso delle stamperie artigianali sotto i portici della piazza. E a metà pomeriggio, di fronte ai grandi murales di Siqueiros, Rivera e Orozco che coprivano le pareti di Bellas Artes, ognuno dei due possedeva le informazioni basilari sul conto dell'altro. Il caso di Faulques era semplice, o così almeno lo aveva riassunto lui: infanzia mediterranea in una città mineraria vicino al mare, pennelli abbandonati, una macchina fotografica, il mondo attraverso una lente. Una certa fama professionale, tradotta in guadagni e status. Quanto a lei, non aveva la minima idea di una guerra; solo qualche immagine vista in televisione.
Aveva studiato Storia dell'Arte e poi era stata modella fotografica per un breve periodo, fino a quando aveva deciso di passare dall'altra parte della macchina. Lavorava per riviste d'arte, architettura e arredamento. Riviste ridicolmente care, aveva aggiunto con un sorriso che toglieva ogni pretesa al commento. Ventisette anni, padre italiano – un mercante famoso, con gallerie importanti a Firenze e a Roma – madre spagnola. Buona famiglia da entrambe le parti, legata al mondo della pittura da tre generazioni, inclusa una nonna materna ottuagenaria che Faulques avrebbe conosciuto: la pittrice Lola Zegrì, allieva dell'ultimo periodo della Bauhaus, amica di Duchamp, di Jean Renoir – aveva interpretato una particina nella Regola del gioco, vestita da seminarista insieme a Cartier-Bresson – di Bonnard e di Picasso. Olvido amava molto quella anziana dama che aveva trascorso gli ultimi anni nel sud della Francia, dove viveva aspettando l'entrata dei tedeschi a Parigi o l'ultimo amante di Kikí di Montparnasse. Poco prima che morisse erano andati a trovarla laggiù: una casetta bianca dalle linee dritte e arredamento austero, nel cui giardino coltivava, sempre perfettamente allineate, verdure al posto di fiori, dopo aver venduto l'ultimo quadro suo e di altri, e dilapidato fino all'ultimo centesimo senza alcun rimorso; compresa l'asta di una vecchia e celeberrima Citroen – adesso nel museo Cortanze di Nizza – le cui portiere erano state dipinte una da Braque, con un uccello grigio, e l'altra da Picasso, con un gabbiano bianco. Olvido aveva presentato Faulques alla nonna – il mio amante, aveva detto impassibile – la quale conservava ancora l'attraente eleganza delle foto dei vecchi album che gli aveva mostrato durante la visita – Parigi, Montecarlo, Nizza, una prima colazione a Cap Martin con Peggy Guggenheim e Max Ernst, una foto di Olvido a cinque anni, a Mougins, seduta sulle ginocchia di Picasso – e pareva uscita da un disegno di Penagos. Sono stata una delle ultime donne capaci di far soffrire gli uomini, aveva commentato l'anziana signora con un sorriso sereno. Mia nipote, invece, è arrivata troppo tardi in un mondo troppo vecchio.
Fin dall'inizio, oltre che dalla sua bellezza, Faulques era rimasto affascinato dal comportamento di Olvido; dal suo modo di conversare, di piegare la testa dopo una frase o di ascoltare con aria complice come se non credesse mai a una sola parola, le sue maniere da ragazza bene educata e un po' altezzosa, la sua dolce crudeltà – era troppo giovane e bella per conoscere la compassione sprovvista di calcolo – temperata da un'ironia folgorante e una maliziosa cortesia. Era anche, constatò Faulques, una donna che non passava inosservata anche se si impegnava a farlo: gli uomini le cedevano il passo o le aprivano la portiera delle automobili, i camerieri accorrevano al primo sguardo, i maître dei ristoranti le riservavano il tavolo migliore e i gestori degli alberghi la stanza con la vista più bella. Olvido contraccambiava con quel suo sorriso particolare, ironico e allo stesso tempo affettuoso, con l'umorismo vivace e colto delle sue osservazioni, con la facoltà inesauribile di mettersi, senza rinunciare a niente, all'altezza di qualsiasi interlocutore. Persino le mance nei ristoranti e negli alberghi le faceva scivolare come chi condivide una battuta sottovoce. E quando rideva di gusto – lo faceva come un bambino discolo e complice – qualsiasi uomo si sarebbe lasciato uccidere per lei e per la sua risata. Era bravissima in tutto questo. Noi persone educate, diceva, seduciamo gli altri in un modo molto semplice: parliamo sempre di quello che gli interessa. Lei poteva sedurre con silenzi e parole in cinque lingue, imitava voci ed espressioni con incredibile facilità e possedeva una memoria straordinaria per i dettagli. Faulques l'aveva sentita chiamare per nome portieri, camerieri e tassisti. Adottava ogni gergo, ogni accento, e diceva parolacce con elegante disinvoltura – il suo sangue italiano – quando era infuriata. Aveva anche una capacità spontanea di neutralizzare il lato vile della gente subalterna: il risentimento celato sotto il servilismo di quanti obbedivano a denti stretti, sognando rivoluzioni mozzateste, e quello di coloro che accettavano il loro ruolo con rassegnata dignità. Le donne la invidiavano affettuosamente e gli uomini l'adottavano al primo incontro, mettendosi dalla sua parte. Se Olvido fosse stata maschio agli inizi del secolo, Faulques non stentava a immaginarla mentre faceva colazione la mattina in una pasticceria, vestita in frac, insieme ai domestici della casa in cui, la sera prima, era stata invitata a una cena o a un ballo.
Quella sera del primo giorno, a Città del Messico, anche lui si era arreso a questo incanto. A dispetto delle sue riserve, della sua biografia, delle sue idee sul mondo, si era ritrovato con i gomiti appoggiati a un tavolo ben posizionato di un ristorante di San Angel – lui in giacca blu e jeans, lei in un abito color malva così aderente che sembrava dipinto sui suoi fianchi e sulle sue gambe lunghissime, e il maître aveva detto buonasera, da quanto tempo, come sta suo padre, signorina Ferrara – a guardare gli occhi color dell'uva identici a quelli di Nahui Ollin la cui storia gli aveva raccontato nel pomeriggio. A guardarli con tanta incosciente fissità che la donna aveva abbassato un po' il viso e, osservando l'uomo attraverso i capelli biondi che le ricadevano sulla faccia, si era fatta seria per un istante, giusto il tempo per dire abbiamo poco tempo, Faulques, senza specificare se si riferiva a quella notte o al resto delle loro vite. Lo aveva chiamato così, pronunciando per la prima volta non il suo nome, ma il suo cognome. E l'avrebbe sempre chiamato così, fino alla fine. Tre anni. O quasi. Millecinquanta giorni a conferma di quanto tutto ciò fosse direttamente proporzionale al prodotto del desiderio di due corpi – era stata lei a parafrasare Newton in una certa occasione, mentre si abbracciavano sotto la doccia di un albergo di Atene – e inversamente proporzionale al quadrato della distanza che li separa. Tre anni intensi e vagabondi, iniziati la notte in cui erano finiti, tardissimo e soli, in una cantina di plaza Garibaldi, a bere oltre l'orario di chiusura, a parlare di pittura e di fotografia mentre i camerieri mettevano le sedie sui tavoli e cominciavano a spazzare per terra; e quando Faulques aveva guardato l'orologio, lei si era detta sorpresa che un fotografo di guerra non fosse capace di bere impassibile sotto il fuoco degli sguardi dei camerieri impazienti. Non aveva rivali quanto a citare qua e là pensieri altrui a mo' di riflessioni spontanee o frasi proprie, ingegnosa nello schivare gli ostacoli incorporandoli nel piano originale, abile nel mentire facendo credere di farlo in modo aperto e deliberato. Le piacevano le cose false, le collezionava da tutte le parti e poi le abbandonava nei cestini degli alberghi, negli aeroporti, le regalava a cameriere, telefoniste e hostess: falso vetro di Murano, falso pizzo di Bruxelles, falsi bronzi antichi, false miniature settecentesche comprate nei mercatini di strada. Si muoveva a proprio agio tra tutte quelle cose, impreziosendole con una parola o con uno sguardo. Era Olvido a conferire importanza agli oggetti e alle persone con cui aveva a che fare, forse perché possedeva la sicurezza perfetta che hanno solo le donne per le quali il mondo è un eccitante campo di battaglia, e gli uomini un complemento utile ma non indispensabile.
In ogni caso, aveva avuto ragione. Tre anni erano poco tempo, anche se nessuno dei due poteva calcolarlo. Quella prima notte a Città del Messico, Faulques, che all'epoca considerava già il mondo alla luce dei suoi paradossi e delle sue convergenze, aveva pensato che il suo nome era Olvido, Oblio; e aveva capito di colpo, con la precisione fugace di una fotografia percepita in un istante, che lei era l'unica che non avrebbe mai potuto dimenticare.
(Tratto dal romanzo Il pittore di battaglie, Marco Tropea editori, Milano, 2007. Traduzione di Roberta Bovaia.)
Arturo Pérez-Reverte è nato a Cartagena. in Spagna, nel 1951. È stato inviato di guerra per giornali, radio e televisione fino al 1994, anno in cui ha deciso di dedicarsi alla letteratura. Autore di grande successo, i suoi romanzi sono stati tradotti in 29 lingue e hanno avuto numerosi adattamenti cinematografici. Ha ricevuto il Premio per la letteratura europea Jean Monnet (1997) e il Prix Mediterranee Étranger assegnato dalI'Académie Goncourt (2001). Nel 1998 è stato nominato Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere di Francia e dal 2003 è membro della Real Academia Espanola, la più alta istituzione spagnola per la lingua e la letteratura. Trai suoi titoli, ricordiamo, oltre alla serie del Capitano Alatriste, Il club Dumas, La tavola fiamminga, La pelle del tamburo, Il maestro di scherma, Territorio comanche, La carta sferica, L'ombra dell'aquila, La Regina del Sud, Una questione d'onore, L'ussaro.
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