UNA FAMIGLIA A PARTE – Brano tratto dal romanzo Kyra Kyralina –
Panait Istrati
“Non mi ricordo con precisione né la data né l'età che avevo a quell'epoca, so però che l'avvenimento che accompagnò il dramma fu la guerra di Corea.
Bambino, ricordo la durezza di un padre che picchiava mia madre tutti i giorni, senza che io comprendessi perché. Mia madre spesso si allontanava da casa ed era picchiata prima di uscire e quando rientrava. Io non sapevo se, alla partenza, fosse maltrattata perché se ne andasse o al contrario perché dovesse restare, né all'arrivo, se lo fosse a causa della sua assenza o per il fatto che fosse tornata.
Ricordo ancora che, in quel periodo confuso, accanto al padre stava il figlio primogenito, aspro come lui, mentre, presso mia madre, si lamentava mia sorella Kyra, maggiore di me di quattro anni e alla quale mi sentivo molto legato.
A poco a poco la nebbia si dissipa e io comincio a comprendere. Capii allora delle cose strane. Potevo avere tra gli otto e i nove anni, mia sorella dodici o tredici, ed era così bella che tutto il giorno stavo accanto a lei, rimirandola dalla testa ai piedi.
Ella si adornava da mattina a sera e mia madre faceva altrettanto, poiché era bella come la figlia. Tutte e due davanti al proprio specchio, esse si ritoccavano ciglia e sopracciglia con un bastoncino di legno di basilico dalla punta carbonizzata e si coloravano di rosso le labbra, le guance e le unghie, prendendo il necessario da una scatola d'ebano. E quando la lunga operazione era terminata, si abbracciavano, si dicevano parole tenere, e si mettevano a vestire e adornare me. Poi, tutti e tre, prendendoci per mano, danzavamo alla moda turca o greca e ci abbracciavamo. Così formavamo una famiglia a parte…
Ora il padre e il fratello maggiore non venivano più a casa tutte le sere. Erano entrambi carradori, i più esperti e i più ricercati della regione: la loro officina si trovava al lato opposto della città, nel quartiere Kara–Kioi, mentre noi abitavamo nella Cetatzuie. La casa di Kara–Kioi apparteneva a mio padre. Egli aveva con sé due apprendisti che alloggiava e nutriva e una vecchia domestica che si occupava della famiglia, composta di sette persone. Noi non andavamo mai laggiù, e io conoscevo appena l'officina di mio padre, di cui avevo paura. Nella Cetatzuie eravamo in casa di mia madre e non facevamo niente tutto il giorno, soltanto ci divertivamo. D'inverno si beveva il tè, d'estate gli sciroppi e tutto l'anno mangiavamo kadayíf e saraily , bevevamo caffè, fumavamo nei narghilè, ci truccavamo e danzavamo… Era bella la vita…
“Sì, era una bella vita, salvo i giorni in cui il padre, suo figlio o entrambi facevano irruzione nel bel mezzo della festa, picchiavano brutalmente mia madre, pigliavano a pugni Kyra e mi rompevano i loro bastoni sulla testa, perché ormai anch'io facevo parte della danza. Siccome parlavano correntemente il turco, insultavano le due donne in quella lingua, chiamandole paçavrá e definendomi pezevénk . Le due disgraziate si gettavano ai piedi dei loro tiranni, ne abbracciavano le gambe e li pregavano di risparmiare i loro volti.
“Non sul viso!” gridavano; “nel nome di Dio e della Vergine, non colpite sul viso! Non toccate gli occhi! Perdono!…”
Ah, il viso, gli occhi, la bellezza delle due donne! Non esisteva un'altra donna al mondo che avrebbe potuto gareggiare con loro! Avevano capelli d'oro, lunghi fino alle caviglie, carnagione bianca, sopracciglia, ciglia e pupille nere come l'ebano. Perché, sull'albero romeno di mia madre, tre razze diverse si erano innestate: la turca, la russa e la greca, secondo i dominatori che avevano occupato il paese nel passato.
A sedici anni, mia madre metteva al mondo il suo primogenito, ma quando io apersi gli occhi alla luce, nessuno avrebbe potuto credere che fosse madre di tre figli. E questa donna, che era nata per essere accarezzata e abbracciata, veniva picchiata a sangue. Se però mio padre non le prodigava carezze, i suoi amanti la compensavano brillantemente; d'altra parte non ho mai potuto sapere se, in origine, fu mia madre che cominciò a ingannare suo marito e si fece battere, o se fu mio padre che, maltrattando la moglie, si fece tradire. In ogni caso, la confusione in casa nostra non cessava mai, perché le grida di gioia si alternavano a quelle di dolore e, appena la bufera era cessata, le risate di nuovo squillavano sui visi inondati di lacrime.
Io facevo la guardia mangiando pasticcini, mentre i “cortigiani”, in atteggiamento del resto molto decente, stavano seduti alla turca sul tappeto, cantavano e facevano danzare le donne, suonando motivi orientali su una chitarra con accompagnamento di nacchere e di tamburelli. Mia madre e Kyra, vestite di seta e divorate dal piacere, eseguivano la danza del fazzoletto, giravano, piroettavano, si stordivano. Poi, col viso in fiamme per il caldo, si gettavano sui grandi cuscini, nascondevano gambe e piedi sotto i lunghi abiti, si rinfrescavano col ventaglio, mentre si bevevano liquori fini e si bruciavano aromi. Gli uomini erano giovani e belli, sempre bruni, neri; avevano abiti eleganti, baffi a punta, barba curata e capelli, lisci o ricciuti, che emanavano un forte odore di olio di mandorle profumato al muschio. Erano turchi, greci e anche, ma più raramente, romeni, perché la nazionalità non aveva importanza: bastavano che gli amanti fossero giovani e belli, delicati, discreti e non troppo frettolosi.
La mia situazione era ingrata… Non ho mai detto a nessuno, fino a ora, quale fu il mio supplizio in quel periodo.
Il mio dovere era di vigilare seduto sul davanzale della finestra, per evitare ogni sorpresa. Ero contento di questo, perché odiavo a morte gli uomini di Kara–Kioi che ci battevano, ma nel mio petto si svolgeva una lotta terribile fra il dovere e la gelosia.
Ero geloso, ferocemente geloso.
La casa era situata nel fondo di un cortile circondato da mura. Lacune finestre davano su questo cortile, mentre altre si aprivano sullo spiazzo che dominava il porto. Si entra in casa solo per l'ingresso principale, ma per fuggire si era molto meno esigenti, e se il pendio dello spiazzo avesse avuto gli occhi, quanti esseri avrebbe visto scivolare giù per la sua china!
Aggrappato alla finestra, tenevo lo sguardo fisso alla lanterna che rischiarava tutta la notte la via, appesa sopra la porta, mentre l'orecchio era intento ad ascoltare lo stridere dei cardini rugginosi.
Ma, contemporaneamente, avrei voluto avere un occhio anche per la festa nell'interno. Mia madre e Kyra erano belle da far impazzire, nel loro corsetto che le stringeva “da far passare il loro vitino in un anello”; i seni erano pieni come meloni, la ricca capigliatura era sciolta, sparsa sul dorso e sulle spalle nude, la fronte cinta di un nastro roso scarlatto, mentre le lunghe ciglia battevano diabolicamente, come per attizzare le fiamme degli occhi, ardenti di desiderio.
Spesso nella gara di piacere alle donne e nei loro discorsi insensati, gli invitati si rendevano ridicoli. Una sera, uno di essi, volendo fare un complimento a mia madre, disse che “gallina vecchia fa buon brodo”. La povera donna, offesa, gli lanciò il ventaglio sulla testa e scoppiò in pianto. Un altro invitato si alzò incollerito, diede una tifla la malaccorto e gli sputò in viso. Si presero per il collo, misero sottosopra la casa, rovesciarono i narghilè. Questo fatto ci fece ridere fino alle lacrime. Per fare la pace, mia madre li abbracciò entrambi.
Questi abbracci, questi baci le servivano per ricompensare cose ben diverse. Per una bella voce, un motto piacevole, un bel gioco ella dava i suoi baci e altrettanto faceva quando occorreva rallegrare un musone, cancellare l'impressione di una parola offensiva, calmare una gelosia troppo furibonda, vincere la perplessità di uno sciocco.
Kira, dal canto suo, eccelleva in un altro modo. Molto sviluppata fisicamente, a quattordici anni ne dimostrava due di più. svagata e furba, col suo nasino un po' curvo, il mento pronunciato, le due fossette in cui il dio dell'amore aveva messo due piccoli nèi quasi simmetrici, Kyra scontentava i suoi innamorati e me con le sue malizie, i suoi scherzi, le sue celie. I primi volevano ottenere di più e a me pareva che essa concedesse troppo.
Chiamavamo müsafír gli uomini che venivano a casa nostra, e questi müsafír le baciavano le mani e i sandali con ogni pretesto. Ella andava a tirali per il naso o per la barba, versava sciroppo sui carboni che bruciavano per in narghilè, offriva loro da bere nel suo bicchiere, poi rompeva il bicchiere per irritarli, ma un minuto dopo andava a sfiorare con i suoi capelli le labbra dell'uomo che aveva appena offeso…
Tutto questo mi faceva arrabbiare, perché io amavo Kyra molto più di mia madre… L'adoravo e non sopportavo che ricevesse altre carezze che non fossero le mie.
Ricordo che una sera, per eccitare la massimo la mia gelosia, essendosi sciolto il nodo del suo sandalo mentre danzava, posò il piede sul ginocchio di un müsafír e gli chiese di riannodarlo. Potete immaginare che festa per il fortunato prescelto! Egli compí l'operazione prolungando, per quanto gli fu possibile, il suo piacere, mentre io osservavo con occhi di lupo. Poi il maleducato cominciò a tastarle anche la caviglia e persino il polpaccio. E lei… ebbene, lei non diceva nulla e lo lasciava fare! Allora, furioso, perdendo la testa, gridai:
“Il padre! Scappare!”
In un batter d'occhio i due müsafír scavalcarono la finestra e disparvero nell'oscurità, ruzzolando sul pendio dello spiazzo. Uno di essi, un greco, nella fretta aveva dimenticato il fez e la chitarra, che mia madre prese e gettò dalla finestra, mentre Kyra nascondeva rapidamente i due narghilè che erano di troppo.
Questa scena fu così divertente che io, passata la collera, fui preso da un accesso scatenato di risa, caddi dal davanzale, ruzzolai sul tappeto e divenni violaceo per la mancanza di respiro. Mia madre mi credette pazzo di paura per l'arrivo del padre; le povere donne ruppero il silenzio con le loro grida atterrite, dimenticarono il padre, il diavolo, e si gettarono su di me disperate.
“Non c'è nessuno!” potei infine pronunciare. “Ero arrabbiato perché Kyra si era lasciata tastare la gamba! E mi sono vendicato: ecco!…”
La gioia le fece gridare ancora più forte. Mi picchiarono sul sedere, mi baciarono, poi ci mettemmo a ballare nella stanza contenti di essercela cavata, loro con lo spavento, io con una piccola punizione accompagnata da tante carezze.
(Brano tratto da Kyra Kyralina, Feltrinelli editrice, Milano, 1978, tradotto dal francese da Gino Lago.)
Panait Istrati, nato a Braila, in Romania, nel 1884, e morto a Bucarest nel 1935, viaggiò moltissimo, conobbe gli ambienti più vari e condizioni di vita molto avventurose. L’incoraggiamento di Romain Rolland lo indusse a riversare queste esperienze nelle sue numerose opere, tutte scritte in francese, che gli diedero fama e riconoscimenti. Visitò l’URSS e ne scrisse in termini violentemente critici. Negli ultimi anni, amareggiato da critiche e polemiche, tornò a vivere in Romania dove si spense.
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