ZUMBAYLLU

– Brano tratto dal romanzo I fiumi profondi –

Josι Marνa Arguedas





La terminazione quechua yllu è un'onomatopea. Yllu rappresenta in una delle sue accezioni la musica che pro­ducono le piccole ali in volo: la musica che nasce dal mo­vimento di oggetti leggeri. Questa voce assomiglia ad un'altra più vasta: illa . Illa indica un certo tipo di luce e i mostri che nacquero feriti dai raggi della luna. Illa è un bambino con due teste o un vitello che nasce decapitato; o un macigno gigantesco, tutto nero e lucido, con la su­perficie attraversata da una larga venatura di roccia bianca, di luce opaca; è illa anche una pannocchia con fili di granoturco che s'intrecciano e formano mulinelli; sono illas i tori mitici che vivono in fondo ai laghi solitari, alle lagune d'alta montagna circondate di tifa, popolate di anatre nere. Tutti gli illas , provocano il bene o il male, ma sempre in grado massimo. È possibile, toccando un illa , morire o risuscitare. Questa voce illa ha una parentela fonetica e una certa comunanza di senso con la termina­zione yllu .

Si chiama tankayllu il tafano ronzante ed inoffensivo che vola sui campi libando fiori. Il tankayllu appare in aprile, ma nei campi irrigati si può vederlo anche in altri mesi dell'anno. Agita le ali ad una velocità pazzesca, per sollevare il suo corpo pesante, il suo ventre eccessivamen­te grande. I bambini lo perseguitano e gli dànno la cac­cia. Il suo corpo allungato e scuro finisce in una specie di pungiglione che è non solo inoffensivo, ma dolce. I bam­bini gli dànno la caccia per bere il miele di cui è unto questo falso pungiglione. Al tankayllu non si può dar la caccia facilmente, poiché vola in alto, in cerca dei fiori degli arbusti. Ha un colore strano, tabacco scuro; sul ven­tre ha delle righe brillanti; e siccome il rumore delle sue ali è intenso, troppo forte rispetto alla sua piccola figura, gli indios credono che il tankayllu abbia nel suo corpo qualcosa di più che la sua sola vita. Perché ha del miele in quella specie di tappo della pancia? Perché le sue piccole e deboli ali si muovono nell'aria al punto di agitarla e cambiare la direzione del vento? Com'è che quando passa il tankayllu l'aria soffia sulla faccia di chi lo guarda? Il suo piccolo corpo non gli può dare tanta energia. Lui sposta l'aria, ronza come se fosse grande; il suo corpo felpato sparisce nella luce, alzandosi verticalmente. No, non è un essere malvagio; i bambini che bevono il suo miele sentono nel cuore, per tutta la vita, come la carezza d'un fiato tiepido che li protegge contro il rancore e la malinconia. Ma gli indios non considerano il tankayllu una creatura di Dio come tutti gli altri insetti; temono che sia un reprobo. Certe volte i missionari dovettero predicare contro lui e contro altri esseri privilegiati. Nei paesi di Ayacucho c'era un danzatore di cesoie che è di­ventato leggendario. Ballò sulle piazze dei paesi durante le grandi cerimonie; fece prodezze infernali le vigilie delle feste religiose; ingoiava pezzi d'acciaio, si passava il corpo da parte a parte con aghi ed uncini; camminava per gli atri delle chiese con tre sbarre tra i denti, questo dan­zak si chiamò Tankayllu . II suo vestito era di pelle di con­dor ornata di specchi.

Pinkuyllu è il nome del flauto gigantesco che suonano gli indios del Sud durante le feste comunali. Il pinkuyllu non si suona mai nelle feste familiari. È uno strumento epico. Non lo fabbricano di canna comune né di canna di palude, e neppure di mámak' , una canna selvatica di gran­dezza straordinaria e due volte più lunga della canna comu­ne. La cavità del mámak' è oscura e profonda. Nelle regio­ni dove non esiste l' huaranhuay gli indios fabbricano pinkuyllus minori di mámak' , ma non s'azzardano a dare allo strumento il nome di pinkuyllu , lo chiamano semplicemente mámak' , per differenziarlo dal flauto familiare. Má­mak' vuol dire la madre, la fattrice, quella che dà l'origine;è un nome magico. Ma non c'è canna naturale che possa servire come materiale per fare un pinkuyllu ; l'uomo deve fabbricarselo da sé. Costruisce un mámak' più profondo e grave; come non ne nascono neppure nella foresta. Una grande canna ricurva. Estrae il cuore dei rami dell' hua­ranhuay , poi lo incurva al sole e lo adatta con nervi di toro. Non è possibile vedere direttamente la luce che entra dalla cavità della parte inferiore del legno vuoto, si distingue solo una penombra che sorge dalla curva, un blando splendore, come quello dell'orizzonte dove è caduto il sole.

Il fabbricante di pinkuyllu apre i buchi dello strumento lasciando apparentemente troppo spazio tra l'uno e l'al­tro. I due primi buchi devono essere chiusi dal pollice e l'indice, o l'anulare, aprendo la mano sinistra in tutta la sua estensione; gli altri tre dall'indice, dall'anulare e dal mignolo della mano destra, con le dita molto aperte. Gli indios che hanno le braccia corte non possono suonare il pinkuyllu . Lo strumento è così lungo che l'uomo medio che pretende servirsene deve stirare il collo ed alzare la testa come per guardare lo zenit. Lo suonano in gruppo, accompagnandosi con tamburi; nelle piazze, in aperta campagna, o nei recinti e cortili delle case, non all'inter­no delle stanze.

Solo la voce dei wak'rapukus è più grave e possente di quella dei pinkuyllus . Ma nelle regioni dove appare il wak'rapuku non si conosce già più il pinkuyllu . Entram­bi servono all'uomo per le medesime occasioni. Il wak'rapuku è una tromba fatta di corna di toro, delle corna più grosse e ritorte. Gli mettono un bocchino d'argento o di bronzo. Il suo tunnel sinuoso e umido è più impene­trabile ed oscuro che quello del pinkuyllu , e come questo esige una scelta tra gli uomini che possono suonarlo.

Nel pinkuyllu e nel wak'rapuku si suonano solo canti e danze epiche. Gli indios ubriachi arrivano al punto di in­furiarsi cantando le antiche danze di guerra; e mentre al­tri cantano e suonano, alcuni si picchiano ciecamente, fino a riempirsi di sangue e poi piangono, all'ombra delle alte montagne, vicino agli abissi; o di fronte ai laghi fred­di, ed alla steppa.

Durante le feste religiose non si sente il pinkuyllu né il wak'mpuku . Avranno i missionari proibito agli indios di suonare nelle chiese, sugli atri o accanto ai troni delle processioni cattoliche questi strumenti dalla voce così grave e strana? Suonano il pinkuyllu ed il wak'mpuku all'atto della rielezione delle autorità comunali; nelle feroci lotte dei giovani, durante i giorni di carnevale; per la marcatura a fuoco del bestiame; nelle corride di tori. La voce del pinkuyllu o del wak'rapuku li offusca, li esalta, scatena le loro forze; sfidano la morte mentre lo sentono. Affrontano i tori selvatici, cantando e maledicendo; aprono strade di grande estensione o tunnel nella roccia, bal­lano senza sosta, senza accorgersi del cambio della luce o del tempo. Il pinkuyllu ed il wak'rapuku scandiscono il ritmo; li incitano e li alimentano; nessuna sonda, nessun elemento arriva più in profondità nel cuore umano.

La terminazione yllu significa il propagarsi di questa specie di musica e illa , il propagarsi della luce non solare. Killa è la luna, e illapa il fulmine. Illariy indica l'alba, la luce che sorge lungo l'orizzonte, senza la presenza del sole. Illa non indica la luce fissa, la splendente e sovrauma­na luce solare. Indica la luce minore; il chiarore, il lampo, il fulmine, tutti i tipi di luce vibrante. Quella specie di luce non completamente divina con cui l'antico peruviano crede d'aver ancora legami profondi, tra il suo sangue e la materia folgorante.

Zumbayllu ! Nel mese di maggio Antero portò il primo zumbayllu al collegio. Gli alunni piccoli Io circondarono.

– Andiamo in cortile, Antero!

– In cortile, fratelli! Fratellini!

Palacios corse tra i primi. Saltarono il terrapieno e sali­rono al campo polveroso, gridando:

– Zumbayllu , zumbayllu !

Io li seguii ansiosamente.

Che cosa poteva essere lo zumbayllu ? Che cosa poteva indicare questa parola la cui terminazione mi ricordava oggetti belli e misteriosi? L'umile Palacios era corso quasi in testa a tutto il gruppo di ragazzi che andavano a vedere lo zumbayllu ; aveva fatto un gran salto per arrivare primo al campo di ricreazione. E stava lì, a guardare le mani di Antero. Una gran gioia, un anelito, davano al suo volto uno splendore che non aveva prima. La sua espres­sione era molto simile a quella degli scolari indios che giocano all'ombra dei molles , per le strade che uniscono le capanne lontane con i villaggi. L'Añuco stesso, il su­perbo, l'accigliato e pallido Añuco, guardava Antero da un'estremità del gruppo; sulla sua faccia gialla, sul suo volto aspro, eretto sul collo magro, coi nervi cosi affilati e tesi, c'era una specie di tenera ansia. Sembrava un angelo nuovo, appena convertito.

Io ricordavo il grande Tankayllu , il danzatore coperto di specchi, che ballava a grandi salti sull'atrio della chie­sa. Ricordavo pure il vero tankayllu , l'insetto volante che inseguivamo tra gli arbusti in fiore in aprile e maggio. Pensavo ai bianchi pinkuyllus che avevo sentito suonare nei paesi del Sud. I pinkuyllus facevano venire in mente la voce dei wak'rapukus , e quanto è somigliante la voce dei pinkuyllus e dei wak'mpukus al lungo muggito dei tori in calore quando si sfidano attraverso i monti e i fiumi!

Non potei vedere la piccola trottola né come Antero l'avvolgeva nella corda. Mi lasciarono tra gli ultimi, vicino all'Añuco. Vidi solo che Antero, in mezzo al gruppo, dava una specie di colpo col braccio destro. Poi sentii un canto sottile.

Era ancora presto; le pareti del cortile facevano una grande ombra; il sole incendiava la calce dei muri, dalla parte di ponente. L'aria delle gole profonde e il sole caldo non sono propizi alla diffusione dei suoni; spengono il canto degli uccelli, lo assorbono; ci sono invece boschi che permettono d'essere sempre vicini agli uccelli che cantano. Nei campi temperati o freddi, la voce umana o quella degli uccelli è portata dal vento a grande distanza. Eppure, sotto il sole denso, il canto dello zumbayllu si propagò con una strana chiarezza; sembrava che fosse affilato. Tutta l'aria doveva essere colma di quella voce sottile; e tutta la terra, quel suolo sabbioso da cui pareva nascere.

- Zumbayllu , zumbayllu !

Ripetei il nome molte volte, mentre sentivo il ronzio della trottola. Era come un coro di grandi tankayllus fer­mi in un posto, prigionieri sulla polvere. E dava allegria ripetere quella parola, così simile al nome dei dolci insetti che sparivano cantando nella luce.

Feci un grande sforzo; spinsi altri alunni più grandi di me e riuscii ad arrivare al circolo che attorniava Antero. Aveva in mano una piccola trottola. La sfera era fatta con mio di quei piccolissimi cocchi grigi che si vendono in scatole nei negozi; la punta era grande e sottile. La sfe­ra aveva quattro buchi rotondi, a mo' di occhi. Antero avvolse intorno alla trottola, lentamente, una corda sotti­le; le fece fare molti giri, avvolgendo la punta dalla sua estremità affilata; poi la lanciò. La trottola si trattenne, un attimo, nell'aria e poi cadde ad un estremità del circolo formato dagli alunni, dove c'era il sole. Sulla terra smossa, la sua lunga punta tracciò linee rotonde, girò but­tando raffiche d'aria dai suoi quattro occhi; vibrò come un grande insetto cantatore, poi s'inclinò, rovesciandosi sull'asse. Un'ombra grigia faceva da aureola alla sua testa ruotante; un cerchio nero lo divideva lungo il centro della sfera. Ed il suo canto acuto sorgeva da quella fascia oscu­ra. Erano gli occhi della trottola, i quattro grandi occhi che sprofondavano, come in un liquido, nella dura sfera. La polvere più sottile si sollevava in volute avvolgendo la piccola trottola.

E canto dello zumbayllu penetrava nell'udito, ravvivava nella memoria l'immagine dei fiumi, degli alberi neri appesi alle pareti degli abissi.

Guardai la faccia di Antero. Nessun bambino osserva in quel modo un giocattolo. Quale somiglianza, quale cor­rente c'era tra il mondo delle valli profonde ed il corpo di quel piccolo giocattolo mobile, quasi proteiforme, che scavava cantando nella sabbia, in cui il sole sembrava disciolto?

Antero aveva i capelli biondi, la sua testa nei giorni di gran sole sembrava in fiamme. Anche la pelle del suo vol­to era dorata; ma aveva molti nei sulla fronte. "Fiamma, lo chiamavano i suoi compagni; altri lo chiamavano Markask'a, «il Marcato», a causa dei suoi nei. Antero osservava lo zumbayllu con una concentrazione contagiosa.

Mentre la trottola ballava, tutti stavano in silenzio. Cosi attento, chinato, col volto affilato, col naso magro e lun­go, Antero sembrava affacciarsi da un altro spazio.

Improvvisamente, quando ancora la trottola non era caduta, Lleras gridò:

– Fuori di qui, akatank'as 1 ! Cosa state a guardare que­sta stregoneria del Fiamma! Fuori di qui, puzzoni!

Nessuno gli diede retta. Neppure l'Añuco. Continuam­mo ad ascoltare lo zumbayllu .

– Puzzoni, puzzoni! Poveri k'echas (piscioni)! - apo­strofava Lleras, con voce quasi indifferente.

Lo zumbayllu s'inclinò fino a sfiorare il suolo; appena toccò la polvere, la sfera rotolò in linea curva e si fermò.

– Vendimelo! - gridai ad Antero. - Vendimelo!

Prima che qualcuno me lo potesse impedire mi buttai per terra ed afferrai la trottola. La punta era lunga, di legno giallo. Quella punta e gli occhi, aperti con un chiodo rovente, col bordo nero che sapeva ancora di carbone, davano alla trottola un aspetto irreale. Per me era un essere nuovo, un'apparizione nel mondo ostile, un legame che mi univa a quel cortile odiato, a quella valle dolorosa, al collegio. Contemplai attentamente il giocattolo, mentre gli altri bambini mi circondavano sorpresi.

– Non venderlo al forestiero! – chiese ad alta voce l'Añuro.

– Non venderlo a quello li! - disse un altro.

– Non venderglielo! – esclamò con voce autoritaria, Lleras. – Non venderglielo, ho detto.

Lleras si fece strada a spintoni e si fermò di fronte ad Antero. Lo guardai negli occhi. Io so odiare, con odio passeggero ma irrefrenabile. Negli occhi di Lleras c'era una specie di cavità poco profonda, sporca e densa.

Qualcuno aveva mai trattenuto il lampo torbido di quegli occhi? Qualche piccolo era mai rimasto tranquillo davanti a lui, guardandolo con un odio crescente, che travolgeva qualsiasi altro sentimento?

– Te lo vendo, forestiero. Te lo regalo, te lo regalo! - esclamò Antero, mentre lo sguardo di Lleras stava ancora scontrandosi con il mio.

Abbracciai il Markask'a, mentre gli altri facevano bac­cano, come se applaudissero.

– Lascia stare i k'echas , campione, – parlò l'Añuco con una certa dolcezza.

– Regalo anche questi! – disse Antero. E buttò in aria vari zumbayllus ,

I piccoli lottarono allegramente per impadronirsi delle trottole. Lleras e Añuco se ne andarono nel cortile d'o­nore.

I padroni degli altri zumbayllus si improvvisarono delle corde; riuniti in piccoli gruppi cominciarono a far bal­lare le trottole. Si sentiva la voce di qualche zumbayllu . Dalle estremità del cortile arrivava il ronzio lieve e pene­trante. Era come se da qualche bosco d'arbusti fioriti fosse arrivata una piccola massa d'insetti cantori, che, smarriti nel cortile secco, s'alzassero o cadessero nella polvere.

Pregai Antero di tirare la sua trottola. Accanto a noi, si riunì di nuovo il gruppo di alunni più numeroso. Nes­suno faceva ballare la trottola per più tempo né più in­tensamente di Antero. Le sue dita avvolgevano la trottola come un grande insetto impaziente. Quando tirava la cor­da, la sfera grigia s'alzava fino al livello dei nostri occhi, e cadeva lentamente.

– Adesso a te, – mi disse. – Ormai hai visto come la faccio ballare io.

Ero sicuro che avrei avvolto bene lo zumbayllu nella corda e l'avrei lanciato come si deve. Ero impaziente e timoroso. Afferrai la trottola e incominciai ad avvolgerla. Sistemavo la corda in punta, stringendola lentamente ad ogni giro e tirando forte. Mi assicurai la trottola tra le dita nella mano sinistra; tirai fuori estremità della corda nell'arco formato dall'indice e l'anulare, come l'avevo visto fare al Fiamma.

– Che pretese il forestiero!

– Il forestieruccio!

– Lo sciocco!

Incominciarono a gridate gli abanchini.

– Questo gioco non è fatto per qualsiasi forestiero.

Ma Antero, che era rimasto ad osservarmi attentamen­te, esclamò:

– Va bene! Va bene così, fratello!

Tirai la corda, con gli occhi chiusi. Sentii che lo zum­bayllu mi girava nel palmo della mano. Aprii le dita quan­do tutta la corda si fu srotolata. Lo zumbayllu saltò in aria sibilando; gli alunni che erano in piedi si buttarono indietro; gli fecero posto perché cadesse per terra. Mentre lo stavo contemplando, tra il silenzio degli altri piccoli, suonò la campana che annunciava la fine della ricrea­zione. Gli alunni del gruppo fuggirono quasi tutti. Rima­sero solo due o tre, di fronte ai quali Antero mi fece le sue solenni congratulazioni.

– È un caso! – dissero gli altri.

– Zumbayllero di nascita! – affermò il Fiamma. – Zumbayllero , come me!

L'attaccatura dei suoi capelli era quasi nera, simile alla peluria di certi ragni che attraversano lentamente i sentieri dopo le piogge torrenziali. Tra il colore della ra­dice dei suoi capelli e i suoi nei c'era una specie di inde­finibile ma chiara identità. E i suoi occhi sembravano neri a causa dello stesso inspiegabile mistero del suo san­gue.

Fino a quella mattina degli zumbayllus , Antero s'era fatto notate unicamente per lo strano colore dei capelli e per i grandi nei neri. Il soprannome lo individuò, ma tol­se ogni importanza alla stranezza del suo volto. – E il Fiamma, il Markask'a, – mi dissero quando chiesi di lui. Era più grande di me e faceva la seconda media; era più avanti di me di due anni. Nella sua classe non spiccava né tra i migliori né tra i più indietro. Non aveva amici intimi ed era discreto. Tuttavia, doveva avere qualche po­tere, qualche autorità, dato che i suoi compagni non lo presero di mira, non ne fecero cioè lo zimbello della classe, il mite, o lo strambo, il prediletto degli scherzi. Gli misero solo un soprannome che non ripetevano con esa­gerazione né in tono di burla.

Quando usciva dal collegio o dall'aula, la sua testa ri­chiamava l'attenzione dei nuovi venuti. Nel collegio, du­rante la ricreazione, stava appoggiato alle colonne dei portici, guardava gli altri giocare e certe volte interveni­va, ma non nei giochi crudeli.

 

 

– Senti, Ernesto, m'hanno detto che scrivi come un poeta. Vorrei che mi facessi una lettera, – mi disse il Markask'a qualche giorno dopo l'esordio degli zumbayl­lus .

Venne a trovarmi nella mia aula. Uscirono tutti per la ricreazione e noi restammo soli.

– Così, semplicemente, io non chiederei un piacere del genere a quelli di qui. Tu sei diverso.

– Certo! Molto bene, fratellino! – gli dissi. – Ti scri­verò la lettera più bella. È per una ragazza; vero?

– Sì. Per la regina di Abancay. Tu devi sapere chi è, vero?

– No. Dimmi qual è la tua regina, fratello.

– Che stupido sono! Non mi ricordavo che tu sei il fo­restiero. Tu non conosci Abancay. Cammini tra i canneti di Patibamba. Sei stordito, fratello. Ma io ti aprirò gli occhi. Ti farò un po' da guida in questo paese. Da lonta­no e da vicino ho guardato tutte le ragazze. E lei è la re­gina. Si chiama Salvinia. Va al collegio de Las Mercedes. Abita in Avenida de Condebamba, vicino all'ospedale. Ha gli occhi piccoli e neri. La frangetta le nasconde la fronte. È ben scura di capelli, quasi nera.

– Come uno zumbayllu , fratello Markask'a!

– Esattamente, Ernesto. Come uno zumbayllu , quando sta ballando dall'alba. Ma devi vederla prima di scrivere la lettera. Devi guardarla bene. Ed essendo mia, tu non te ne innamorerai. Vero?

– Non devi neppure dirlo. È come se fosse già mia so­rella.

– Domani che è sabato andremo in camera mia. Stanotte ti farò uno zumbayllu speciale. Ho un winku 2 , cholo . I winkus cantano in maniera diversa. Hanno un a­nima.

– Penserò alla lettera. Tu le parli già?

– No. Ancora no. Ma gliel'ho mandato a dire dalla sua cameriera. La sua cameriera è del mio paese.

Suonò la campana ed uscimmo a metterci in squadra, nel cortile. Sulla porta della mia aula ci stringemmo la mano in segno d'alleanza.

II Markask'a attraversò il cortile ed andò a mettersi in fila coi suoi compagni di classe.

 

 

Dopo l'ultima lezione del mattino, quando gli esterni uscirono dal collegio, io rimasi solo nella mia classe. Sen­tivo il bisogno di pensare all'incarico del Markask'a.

Come avrei cominciato la lettera? Non ricordavo quella piccola regina di Abancay. L'Avenida Condebamba era ampia, senza marciapiedi. La chiamavano avenida per gli alberi di more che crescevano sui bordi. Dicevano che era stata la strada d'ingresso di una grande tenuta. Quando arrivai ad Abancay, univa il paese al campo di foot-ball. Non ricordavo d'aver visto nessuna ragazza con la fran­getta accanto a qualche porta delle poche case che c'erano dietro i mori, né affacciata a qualche finestra. Gli al­beri crescevano a ridosso dei muri di pietra. Le foglie grandi, percorse da venature, facevano un'ombra fitta sulla strada. Nei paesi andini non ci sono alberi di more. Ad Abancay li aveva portati un sericoltore che era fallito perché i grandi possidenti erano riusciti a far emanare un'imposta contro di lui. Ma i mori si moltiplicarono negli orti della città; crebbero con un'esuberanza senza pa­ri; si trasformarono in alberi grandi e frondosi, pacifici e nobili. Gli uccelli e i bambini si godevano i loro frutti. I muri di pietra conservavano la macchia rosa del frutto. All'epoca del raccolto, gli uccelli golosi di frutta si radunavano negli orti del paese per saziarsi di more; i loro escrementi erano rossi e cadevano sulla calce delle pareti, sullo zinco dei tetti, a volte sul cappello di paglia dei passanti.

In che casa, a che distanza dalla fine del viale avrà vis­suto la regina del Markask'a? Era una bella strada per aspettare la bambina amata.

Io non conoscevo le signorine del paese. Di domenica mi immergevo per i quartieri, nelle chicherías , nei piccoli casali vicini. Considerai sempre le signorine come esseri lontani, ad Abancay come in tutti gli altri paesi. Mi facevano paura, le sfuggivo; benché le adorassi nell'immagine di qualche personaggio dei pochi racconti e romanzi che avevo potuto leggere. Non erano del mio mondo. Scintil­lavano in un altro cielo.

Dall'inferriata della grande tenuta che circonda e strangola Abancay, sentii molte volte suonare al piano un valzer sconosciuto. Cantavano le allodole e le centinaia di cardellini che c'erano tra gli alberi, accanto al portico della casa-fattoria. Non riuscii mai a vedere la persona che suonava il piano; ma pensai che doveva essere una donna bianca, coi capelli biondi, a suonare quella musica lenta.

Nella vallata dell'Apurímac, durante il viaggio che ave­vo fatto con mio padre, dovemmo prendere alloggio in una tenuta. Il mulattiere ci condusse alla stalla, lontano dalla gran residenza del padrone. Io avevo la faccia gon­fia per il caldo e per le punture delle zanzare. Passammo sotto il belvedere della residenza. Sulle cime innevate c'e­ra ancora il sole, il bagliore di quella luce giallastra e così lontana sembrava che si riflettesse nei pennacchi dei can­neti. Io avevo il cuore stordito, febbricitante, eccitato dai pungiglioni degli insetti, dal rumore insignificante delle loro ali, e dalla voce avvolgente del gran fiume. Ma girai gli occhi verso l'alto belvedere della casa-fattoria, e vidi una ragazza magra, vestita di giallo, che contemplava le rocce nere del precipizio di fronte. Da quelle rocce nere, umide, pendevano lunghi cactus coperti d'erba selvatica. Quella notte dormimmo tra montagne di erba medica profumata, accanto al recinto dei cavalli. La faccia mi pulsò tutta la notte. Eppure potei ricordarmi dell'espres­sione indifferente di quella ragazza bianca; della sua capi­gliatura castana, delle sue braccia magre appoggiate alla balaustra; e la sua bella immagine mi vegliò tutta la notte nell'immaginazione.

La musica che sentii nella residenza di Patibamba aveva una strana rassomiglianza con la capigliatura, le mani e l'atteggiamento di quella bambina. Che distanza c'era tra il suo mondo ed il mio? Forse la stessa che c'era tra il belvedere di cristallo in cui la vidi e la polvere d'erba medica e gli escrementi dove passai la notte attanagliato dalla danza degli insetti carnivori?

Io sapevo, nonostante tutto, che potevo attraversare quella distanza, come una saetta, come un tizzone ardente che sale verso l'alto. La lettera che dovevo scrivere all'a­dorata del Markask'a sarebbe arrivata alle parte di quel mondo. “Adesso puoi scegliere le tue migliori parole, – mi dissi. – Scriverle!” Non importava che la lettera fosse scritta per altri; era forse meglio cominciare così. – Alzati in volo, sparviero cieco, sparviero vagabondo, – esclamai.

Un orgoglio nuovo mi infiammava. È come uno che entri in combattimento, cominciai a scrivere la lettera del Markask'a:

“Voi siete la padrona della mia anima, bambina adora­ta. Voi state nel sole, nella brezza, nell'arcobaleno che splende sotto i ponti, nei miei sogni, nelle pagine dei miei libri, nel canto dell'allodola, nella musica dei salici che crescono accanto all'acqua pulita. Mia regina, regina di Abancay; regina dei pisonayes fioriti; sono venuto all'alba fino alla tua porta. Le dolci stelle dell'aurora riposavano sulla tua finestra; la luce dell'alba circondava la tua casa, formava su di lei una corona. E quando i cardellini ven­nero a cantare dai rami dei mori, quando arrivarono le cesene e le allodole, il viale sembrava immerso in una lu­ce di gloria. Mi parve di vederti, allora, camminare da sola, tra due file d'alberi illuminati. Ninfa adorata, tra i mori giocavi come una farfalla...”

Ma un'improvvisa scontentezza, una specie d'acuta vergogna, mi fece interrompere la stesura della lettera.

Appoggiai le braccia e la testa sulla cartella; con il volto acceso mi soffermai ad ascoltare questo nuovo sentimen­to. “Dove vai, dove vai? Perché non continui? Che cosa ti spaventa, chi ti ha tagliato il volo?” Dopo queste do­mande ripresi ad ascoltarmi ardentemente.

“E se loro sapessero leggere? Se io potessi già scrivere loro?”

E loro erano Justina e Jacinta, Malicacha o Felisa, che non avevano i capelli corti e la frangetta, né portavano il tulle sugli occhi. Ma trecce nere, fiori di campo nel na­stro del cappello... “Se io potessi scrivere loro, il mio amore scaturirebbe come un fiume cristallino; la mia let­tera potrebbe essere come un canto che va per i cieli ed arriva a destinazione”. Scrivere! Scrivere per loro era inutile, inservibile. “Va'; aspettale per strada, e canta! E, se fosse possibile, se potesse cominciare?” E scrissi:

“Uyariy chay k'atik' niki siwar k' entita...”

“Ascolta l'uccello-mosca color smeraldo che ti segue; deve parlarti di me; non essere crudele, ascoltalo. Ha le piccole ali affaticate, non potrà più volare; fermati ormai. Sta vicina la pietra bianca dove riposano i viaggiatori, aspetta li e ascoltalo; senti il mio pianto; è solo il messag­gero del mio giovane cuore, ti deve parlare di me. Senti, bella, i tuoi occhi sono come grandi stelle, bel fiore non fuggire più, fermati! Un ordine dei cieli ti porto: ti comandano d'essere la mia tenera amante...!”

Stavolta, mi fermò il mio pianto. Per fortuna, a quell'ora, gli interni giocavano nel secondo cortile ed ero solo in classe.

Non fu un pianto di dolore né di disperazione. Uscii dalla classe eretto, con un orgoglio sicuro; come quando attraversavo a nuoto i fiumi gonfi dell'acqua pesante e turbolenta della piena di gennaio. Mi trattenni per qualche minuto a camminare nel cortile di pietra. (…)

 

- - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - - -

Note:

1 – Sono gli scarabei stercorari, dal quechua aka =”sterco” e tankay = “spingere”.

2 – Deformità degli oggetti che dovrebbero essere rotondi.




(Tratto dal romanzo I fiumi profondi, Einaudi editori, Torino, 1971. Traduzione di Umberto Bonetti.)





José María Arguedas (1911-1969) - Scrittore e antropologo peruviano. Il suo lavoro come romanziere, come traduttore e diffusore della letteratura quechua, e come antropologo e etnologo, fecero di lui una delle figure chiavi tra coloro che hanno cercato, nel secolo XX, di incorporare la cultura indigena alla grande corrente della letteratura peruviana scritta in spagnolo. In questo processo segue e supera il suo compatriota Ciro Alegría.

La questione fondamentale che propongono le loro opere, ma in speciale quella di Arguedas, è quella di un paese diviso in due culture - la andina di origine quechua, la urbana di radici europee - che devono integrarsi in una relazione armonica di carattere meticcio. I grandi dilemmi, angosce ed speranze che questo progetto propone sono il nucleo della sua visione.

Nato a Andahuaylas il 18 gennaio 1911, nel cuore della zona andina più povera e dimenticata dal paese, fu in contatto dalla infanzia con gli ambienti e personaggi che incorporerebbe nella sua opera. La morte di sua madre e le frequenti assenze di suo padre avvocato, gli obbligarono a cercare rifugio tra i servi contadini della zona, la cui lingua, credi e valori acquistò come suoi. Come studente universitario a San Marcos, iniziò il suo difficile compito di adattarsi alla vita di Lima senza rinunciare alla sua tradizione indigena, vivendo in carne propria l'esperienza di ogni trapiantato andino che deve acculturarsi e assimilare un'altro ritmo di vita.

Nei primi tre racconti della prima edizione di "Acqua" (1935), nella sua prima novela "Yawar Fiesta" (1941) e nella raccolta di "Diamantes y Pedernales" (1954), si apprezza lo sforzo dell'autore per offrire una versione la più autentica possibile della vita andina da un angolo interiorizzato e senza i convenzionalismi di denuncia della anteriore letteratura indigena. In quelle opere Arguedas rivendicò la validità del essere indio, senza cadere in un razzismo alla rovescia. Relazionare questo sforzo con le proposte marxiste di José Carlos Mariátegui e con il romanzare politicamente impegnato di Ciro Alegrí offre interessanti paralleli e divergenze.

L'opera matura di Arguedas comprende almeno tre romanzi: "I fiumi profondi" (1956), "Tutti i sangue" (1964) e " La volpe di sopra e la volpe di sotto" (1971); l'ultima è il romanzo-diario troncato dalla sua morte. Di tutte esse, l'opera che espressa con maggiore lirismo e profondità il mitico mondo degli indigeni, la loro unità cosmica con la natura e la persistenza delle loro magiche tradizioni è I fiumi profondi. Il suo merito è presentare tutte le sfumature di un Perú andino in intenso processo di meticciato. In "Tutti i sangue", presentando le principali forze che lottano tra di sé, lottando per sopravvivere o imporsi, raccoglie un racconto sulla distruzione dell'universo, e le prime avvisaglie della costruzione di uno nuovo. Altri racconti come " Il sesto" (1961), "L'agonia di Rasu Ñiti" (1962) e "Amore mondo" (1967) completano questa visione.

Il processo di adattarsi alla vita di Lima mai fu completato da Arguedas, i cui traumi portati dalla infanzia lo debilitarono psichicamente per finire la lotta che si era proposto, non solo sul piano culturale ma anche su quello politico. Questo e l'acuta crisi nazionale che il paese cominciò a soffrire a partire del 1968 lo spinsero al suicidio, morto dopo lenta agonia il 2 dicembre 1969, atto che non fece altro che convertirlo in una figura mitica da molti intellettuali e da movimenti impegnati nello stesso compito politico.




         Successivo          Copertina