LA CONFESSIONE
Stefano Redaelli
"Dio ha fiaccato il mio cuore, l'Onnipotente
mi ha atterrito" Giobbe 23,16 Mettiamo
le cose in chiaro. Non sono qui per confessarmi, né per ricevere un'assoluzione.
Non sono pentito di quello che ho fatto. Non provo soddisfazione, né rimorso.
Salvezza e dannazione mi sono del tutto indifferenti. Mi preme solo raccontare
una cosa che potrebbe interessarla. Se ha tempo e voglia, mi ascolti. Altrimenti
fa lo stesso. Me la cavo da solo. Non so neanche quanto lei c'entri in tutto questo
e perché sono entrato in una chiesa, in fondo, come le dicevo, di salvezza
e dannazione me ne importa ben poco. Voi fate molta confusione con questa storia
della vita eterna, mettete la gente fuori strada. La vita è effimera e
sfugge dalle mani, questo sarebbe un buon punto di partenza, un'indicazione da
dare alle anime che cercate di portare salvo. In salvo da cosa? Se la vita fosse
eterna agli uomini non premerebbe così tanto accaparrarsene a tutti i costi
qualche giorno, anche solo una manciata di ore. Starebbero tranquilli al loro
posto, in attesa che la vita gli porga finalmente la mano, li inviti a ballare.
Musica che riempie ogni centimetro cubo d'aria, la musica desiderata sulla quale
ognuno vorrebbe danzare i propri anni, luci puntate sul palcoscenico, blu, rosse,
gialle, luci diffuse nella sala, tutti a guardare a bocca aperta, senza invidia,
consapevoli che arriverà il loro turno, al momento giusto, lo riconosceranno
dalla musica che quella è la loro danza, quei passi sono i loro e di nessun'altro.
Se la vita fosse eterna quel palcoscenico sarebbe per tutti. Invece non lo è.
E neppure la musica è quella giusta. Per questo non si danza la propria
vita come si vorrebbe, non si danza e basta. E a forza di stare seduti in platea
a guardare l'espressioni beate di ballerini fortunati, o di restare in piedi dietro
le quinte ad aspettare che qualcuno cambi il disco, sperando che parta la nostra
musica, ci si stanca e si decide di far da soli. Mi segue? Capisco che è
abituato a sentire discorsi diversi dietro la sua grata e che il suo ruolo di
confessore non consiste propriamente nell'ascoltare chi non mostra alcun segno
di contrizione. Ma non mi dica di andare da uno psichiatra, quello che ho da dire
interessa più a lei che ad uno psichiatra. E poi non sopporto quei lettini,
l'idea di sdraiarmi mi dà fastidio, come si fa a parlare della propria
vita sdraiati? Mi pare più giusto parlarne in piedi, è per questo
che non mi inginocchio, non si sarà offeso, credo di no, visto che è
ancora lì, così come si aspetta in piedi il momento di entrare in
scena, ha mai visto un ballerino seduto o sdraiato dietro le quinte? Non sarebbe
la posizione giusta per iniziare a danzare. La musica nella mia vita non arrivava
mai. Arrivavano solo note estranee, melodie straniere. Non c'è niente di
peggio di sentire all'infinito musiche che non ci appartengono. Anzi, c'è
una cosa peggiore: sentirsi dire "Perché non balli? Non startene fermo
lì come un palo. Non la senti la musica?" La sento, ma non è
la mia. Non è la mia. Io su questa musica non muovo neanche un passo, non
saprei dove andare, quanti giri fare, non avrei la voglia e la fiducia di lasciarmi
portare. Non sarebbe una danza. Sarebbe una caricatura. Ed io sarei un manichino.
Io non sono un manichino. Io adesso vado a prendere la mia musica e la metto su
quel maledetto giradischi e vi faccio vedere come so ballare. Avevo trent'anni.
Pioveva. Presi la macchina ed uscii di casa. Erano le otto di sera. Non avevo
moglie, né figli a cui spiegare dove andavo, quando sarei tornato, cose
del genere. Avevo tutto il tempo. Eppure ho agito con rapidità. Forse inconsciamente
avevo paura che non sarei andato fino in fondo. Invece l'ho fatto. Quella sera
ho commesso il gesto più scellerato della mia vita. Non si aspetti che
le dica quale. Che importanza ha? Era un gesto scellerato e io l'ho commesso.
Non le basta sapere questo? E non è stato neanche troppo difficile, se
la cosa la può interessare. Quello che ho sentito dopo è stato un
brivido sotto la pelle, su tutto il corpo, una corrente fredda, la sensazione
di aver lasciato un'impronta, di essermi mosso, di aver fatto il primo passo.
E' una sensazione inebriante, mi creda; una vita fermi ad aspettare e d'un tratto:
movimento. Sembra d'iniziare a vivere, come se il tempo prima fosse stato una
preparazione a quel momento, e quel momento il primo di una lunga serie. Il primo
gesto. I successivi sono venuti in modo naturale. Da parte mia hanno richiesto
solo un po' di sistematicità e fantasia. Ogni settimana, la sera di un
giorno sempre diverso, alle otto in punto, uscivo di casa e compivo un nuovo gesto
scellerato. Che c'è? La mette a disagio questa confessione senza una colpa
precisa? Preferirebbe una litania di iniquità, recitata come una filastrocca,
tutta d'un fiato, per togliersi il veleno di bocca? E poi? Averle nominate le
mie colpe, a cosa servirebbe? Ad essere meno stupito la volta dopo, prima di ricommetterle
identiche? A riconoscerle in anticipo e dare loro il benvenuto, come ad un vecchio
amico? Se questo può aiutare la sua immaginazione, pensi al decalogo: ogni
sera ho violato un comandamento diverso. E quando finivo il giro, ricominciavo
da capo. Va bene adesso? Non è importante il nome delle iniquità,
mi creda, è la loro successione che andrebbe studiata, il lento, ineluttabile,
scivolare della vita verso il basso. E' il movimento che conta. E' una danza.
Danza in discesa. A volte, per sentirsi vivi si danza su musiche discendenti,
questa è la realtà, che si preferisce occultare dietro nomi di colpe,
reati da scontare, malattie mentali, peccati mortali. Ci sono troppi giudici,
medici, sacerdoti che non vogliono spartire il palcoscenico con nessuno. Vorrebbero
danzare solo loro. Ma io ho cambiato musica. E i passi che tutti vedono ora sono
i miei. E se la bocca è spalancata dalla paura, invece che dall'ammirazione
non importa. Le luci adesso puntano su di me, mi cercano ovunque, in ogni scelleratezza
cercano la mia firma. Le altre danze sono ormai desuete. Passi prevedibili, senza
ingegno, senza rischio, senza slancio. A chi interessa una danza così?
Non interessa più a nessuno. Le mie piroette, invece, tolgono il respiro.
I miei salti mortali passano alla storia. Ho messo su una scuola di danza. Sono
in tanti a cercarmi, vogliono imparare da me, bramano entrare in scena: assassini,
ladri, infami, maniaci, eretici. Lo spettacolo della vita e della morte sotto
i vostri occhi. Venite a vedere tutti. Venite e danzate anche voi. Non dice niente?
Sta cercando di ricordare la formula di un esorcismo? Mi attaccherà con
l'acqua santa e maledirà in latino? Coraggio, ci provi. Non riuscirà
a farmi scendere dal palcoscenico. Quello è il mio posto, il mio mondo
e di quelli che seguono i miei passi e danzano sulle mie note. E sono vivi. E
vivranno. Per sempre.
Il
bastone appoggiato alla parete del confessionale scivolò per terra. Il
sacerdote alzò la testa e contemporaneamente aprì gli occhi. Il
cuore gli batteva all'impazzata. Si chinò in avanti per aprire gli sportelli.
Sporse la fronte sudata, guardò di fronte a sé tra le panche della
chiesa in penombra. Non vide nessuno. Poi voltò il capo verso l'uscita:
anche lì solo ombre e panche vuote. Si rigirò in fine verso il tabernacolo.
Un fiammella tenue lo illuminava. Ebbe l'impressione che la luce si affievolisse,
quasi stesse per spegnersi. Gli si appannò la vista. Tornò ad appoggiarsi
con la schiena alla spalliera del confessionale. Il cuore non voleva rallentare
il suo battito frenetico. Continuava a sudare. Rimase immobile. Aveva paura di
chinarsi per raccogliere il bastone, sarebbe finito anche lui sul pavimento. In
quel momento pensò alla morte. Pur essendo avanti con gli anni, non ci
pensava spesso e quando lo faceva lo avvolgeva un principio di stanchezza e serenità.
Riteneva di aver visto e sentito abbastanza dolore nella sua vita, di aver sparso
misericordia e consolazione così come aveva potuto. Era da cinquanta anni
confessore. Le sue orecchie avevano ascoltato scelleratezze innominabili, silenzi
angoscianti, pianti disperati. La sua voce aveva dispensato parole clementi. Pensava
di meritare una morte serena ed un riposo eterno. Quella volta il pensiero della
morte gli gelò il sangue. "Signore, non lasciarmi morire nel buio."
Disse. Le lacrime gli scivolavano sul volto seguendo i canali delle rughe. Chiuse
gli occhi. Si fece il segno della croce. I suoi confratelli vegliarono tutta
la notte in preghiera al suo capezzale. Lo avevano ritrovato accasciato nel confessionale
con la corona del rosario tra le mani. Il medico aveva dato poche speranze. Alle
sei di mattina il respiro si fece più regolare. Anche il polso tornò
alla normalità. Alcuni dei presenti giurarono di aver notato una chiara
distensione nelle linee del volto. Qualcuno vide addirittura un sorriso. Morì
alle sette e tredici.
Stefano
Redaelli è laureato in fisica presso l'Università de L'Aquila,
ha conseguito il dottorato in fisica presso l'Università di Varsavia. Vincitore,
nel 2001, di un premio speciale della giuria del Premio internazionale di Poesia
Orient-Express sezione giovani "Guglielmo Maio"; finalista l'anno seguente.
Ha frequentato il Laboratorio di Narrativa full immersion della Scuola di Scrittura
"Sagarana" di Lucca. Si occupa di caos e vento solare nel Centro di
Ricerca Spaziale dell'Accademia Polacca delle Scienze a Varsavia. Collabora col
quindicinale "Città Nuova" nelle rubriche di Cultura e
Testimonianze. E' traduttore per le Edizioni San Paolo in lingua polacca. Insegna
lingua e cultura italiana nella facoltà di Studi Mediterranei dell'Università
di Varsavia e nell'Istituto Italiano di Cultura di Varsavia. Libri: Sull'Autobus
- Poema a fermate per le vie di Varsavia, Edizioni Orient-Express, Castel
Frentano, 2002, Obietnica czas próby - promessa tempo di prova,
Monika Anna Gasiorek - Stefano Redaelli, Edizioni Nowy Swiat, Varsavia, 2004,
Arrivano in tempo - Storie di angeli custodi, Città Nuova, Roma,
2005
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