UNA NUOVA CULTURA
Franco Fortini
Quando
si pronuncia la parola cultura, viene fatto di pensare ai libri e allo studio;
perché per i più, infatti, cultura equivale a sistema più
o meno organizzato di conoscenze intellettuali. Per altri, e per noi, cultura
è invece il modo nel quale gli uomini producono quanto è necessario
alla loro esistenza, la particolare maniera, mutevole per il mutare dei mezzi
di produzione, con la quale essi entrano in rapporto con gli altri uomini e con
le cose. Cultura è la forma nella quale gli uomini, nella loro storia,
si sono scambiati i prodotti del lavoro, costruite capanne e cattedrali, scelte
le parole dell'amore; è la forma varia nella quale hanno fissato i costumi,
i riti, le leggi; nella quale hanno arati i campi, esplorato il mare, condotto
gli eserciti, speculato i cieli, composto i poemi. Queste forme noi sappiamo che
non soltanto non sono eterne ma che anzi si mutano più o meno visibilmente
nel tempo secondo una legge necessaria che l'uomo deve cercare di conoscere per
potere efficacemente agire. Mutano i mezzi della produzione e poi, lentamente,
penosamente, muteranno di conseguenza leggi, costumi e filosofie degli uomini.
Un'antica popolazione ne rese schiava un'altra; e il lavoro dei vinti lasciò
respiro ai vincitori, non più costretti all'aratro, per scolpire le statue
di Atene o dettare le leggi di Roma. La scoperta del vapore creò, con la
grande industria, gli enormi proletari del secolo passato; e il lavoro dell'operaio
moderno poté lanciare le transiberiane che recarono all'artista occidentale
le opere d'arte della cultura giapponese e a quella le meraviglie della meccanica
europea. Questi modi, queste forme costituiscono dunque la cultura
(o la civiltà) di una determinata nazione o popolo o classe o individuo,
in un dato tempo o periodo. Ma il tempo odierno, per essere quello d'una profondissima
trasformazione dei mezzi e dei rapporti di produzione, vede anche una crisi rivoluzionaria
della sua cultura. E questo si scorge appunto nel concetto di cultura; che è
ancora, per molti, legato a un'erronea distinzione fra spirito e materia, fra
arte e scienza, tra lavoro dell'intelletto e lavoro delle mani. La rivoluzione
industriale che dovunque, ora è un secolo, portò al potere la borghesia
del capitale provocò un modo di produzione - la grande fabbrica - che era
destinato ad alterare profondamente tutta la cultura della società; ma
sopravvivevano intanto, come tutt'oggi sopravvivono, leggi costumi arti e filosofie
dell'epoca precedente, modi di produzione intellettuale che, per antichissima
tradizione, godevano d'una considerazione privilegiata. Avvenne così
la distinzione della quale oggi soffriamo: i filosofi, gli artisti, gli studiosi
furono "industrializzati" e usati come merce qualsiasi, oppure furono
onorati tanto più quanto il loro "aroma spirituale" si sostituiva
a quello delle screditate religioni ufficiali. Ma furono, al tempo stesso, accuratamente
invitati ad astenersi dalla vita reale della società; invito che, in generale,
fu largamente seguito. Si finì col chiamar cultura solo quella degli studiosi
e dei pensatori e fin quella delle scuole, cioè la cultura dei libri, l'erudizione
o l'informazione invece dell'azione formatrice. Oggi anche noi siamo costretti
a usare in questo senso la parola cultura, per poterci intendere. E così
continuiamo a chiamare, per comodità, uomini di cultura tutti gli intellettuali
che abbiano un certo grado di informazione e di letture. Quelli insomma che dovrebbero
avere nella società contemporanea la funzione di una coscienza vigile.
Ma noi sappiamo che una coscienza senza presa sul reale è illusoria, è
vera incoscienza. Né v'è possibilità di presa sulla realtà
per gli intellettuali della cosiddetta cultura se non nella relazione, nel flusso
e nel riflusso, nello scambio fra i modi e le forme della produzione intellettuale
(la Cultura con la C maiuscola) e i modi e le forme della produzione tecnica (agricola,
industriale). Queste culture hanno divorziato fra loro, nel mondo moderno, riflettendo
la violenza della divisione in classi della società. Ecco che il poeta
scrive i suoi versi come se i suoi lettori fossero venti o cinquanta; e l'editore
ne abbandona il delicato fascicolo sulle bancarelle mobili di tutte le stazioni,
fra i pacchi di prosa dei quotidiani. L'architetto disegna le sue case come vogliono
scienza e arte; e le leggi della proprietà privata gliene impediscono la
realizzazione. Lo scienziato elabora per lunghi anni rimedi contro la tubercolosi
finché il suo governo sferra migliaia di bombardieri sulle città
e sui sanatori. Rendersi conto di questo divorzio è già muoversi
per superarlo; perché, come nell'individuo lo squilibrio fra intelletto
e volontà paralizza l'azione, così nella società le varie
forme di cultura dovrebbero tendere non a elidersi o a ignorarsi ma a entrare
in rapporto dialettico tra loro. Per ciò appunto chiamiamo alta o esemplare
quella civiltà o quella cultura nella quale le varie produzioni sono compiute
secondo un certo comune modo, ubbidienti ognuna a una comune misura. Così
è alta ed esemplare la cultura di certo medioevo perché nella sua
produzione, sia agricola che artigiana, architettonica o scientifica, nelle ideologie
politiche come in quelle religiose, si rivela una singolare unità, superiore
ai contrasti: che è quella del concetto feudale di proprietà o del
nascente diritto comunale. Noi diciamo che la "cultura intellettuale"
del nostro tempo è stata sconfitta e da tempo. Quella che si era fatta
titolo d'onore della propria assoluta indipendenza e irresponsabilità di
fronte alla produzione della volontà politica della classe dominante (le
false democrazie e le dittature) e all'anarchia della produzione industriale (autarchia
e imperialismo economico) sin da prima della guerra del 1914 era stata ottimismo
idealistico o progressista, e fu incapace di disarmare gli eserciti. Fra le due
guerre fu angosciato irrazionalismo che rese possibile tutte le mitologie che
hanno vagato e forse ancora vagano sui continenti. Sappiamo che è un
antico sogno assurdo chiedere agli uomini che producono arti, filosofia e scienza,
di esercitare sulla società le funzioni proprie del politico o del tecnico;
tra uomo di stato e filosofo che lo consiglia, sappiamo che uno dei due ha sempre
la peggio: lo stato o la filosofia. Ma sappiamo anche che cosa ha permesso e favorito
la scissione delle culture della società moderna: la formazione cioè
della grande industria e la conseguente creazione di una minoranza dominante di
privilegiati. Essi hanno fatto sì che i modi e le forme della produzione
industriale favorissero e accrescessero i loro privilegi - e sappiamo bene come.
Così la cultura del capitalismo è scritta sulle facciate delle metropoli
moderne: è la grande officina, la produzione cronometrata, l'esercito motorizzato,
la grande stampa, il cinema. Ma, al tempo stesso, essi avevano ereditato dalla
società precedente l'ossequio superstizioso per l'intelligenza: "Studi
dunque tranquillamente lo scienziato nei suoi laboratori il modo migliore di far
progredire la scienza, l'architetto il modo più sano e più bello
di abitare; e dipinga pure, nel suo studio, il pittore" dissero allora gli
uomini che detenevano il potere economico. "Ma io delle invenzioni scientifiche
userò solo quelle che rafforzeranno i miei privilegi e la potenza dei miei
eserciti; piuttosto che comode case per tutti sarà meglio costruisca archi
e monumenti a testimonianza della mia potenza. E, quanto al pittore, egli dovrà
allietare, con lo scrittore, i miei riposi o morire di fame nelle sue soffitte."
La cultura intellettuale si trovò così senza mani o con deboli mani
asservite; e le mani della cultura industriale e contadina si trovarono cieche,
senza mente, o con deboli menti asservite. Questa è la ragione per
la quale le più grandi intelligenze della grande cultura mondiale, per
quanto abbiano sostenuto il rispetto della dignità e della libertà
umana, della democrazie e della ragione, nulla hanno potuto fare davanti allo
scatenarsi della barbarie. Ma noi non rimproveriamo a quelle ideologie di essere
impotenti a mutare certi modi e rapporti di produzione o a evitarne le conseguenze
distruttrici. Noi rimproveriamo a quelle ideologie di non rendersi sufficientemente
conto di essere appunto le ideologie di quei certi modi e rapporti di produzione
e precisamente di quelli della cultura borghese e non piuttosto di quei modi e
forme della produzione che già, entro la società di oggi, hanno
disegnato quella di domani. Rimproveriamo quindi all'idealismo di Croce, all'umanesimo
di Mann e allo "spirito non prevenuto" di Gide (o meglio agli idealismi,
umanesimi, spiritualismi, esistenzialismi di oggi; almeno per quella parte di
essi che vorrebbero farci credere di aver trionfato con la carta Atlantica e la
bomba atomica) di essere cultura insufficientemente critica verso se stessa e
perciò sterile e regressiva. Ma sappiamo anche che non esiste possibilità
di separare l'uomo di ieri da quello di oggi e di domani. Quella cultura intellettuale
sussiste e agisce tuttora come, separate da quella, sussistono tutte le forme
della produzione industriale e contadina. E la cultura degli sfruttatori. Che
possiamo giudicare dunque, tranquillamente, barbarie. Sappiamo perciò
che agire per una nuova cultura intellettuale - vale a dire per una nuova
filosofia e per una nuova sociologia ed economia e arte e teatro e scuola - equivale
a lottare per una nuova società e quindi anche per la modificazione
della sua struttura economica, premessa di ogni altra. Parallelamente dunque e
non indipendentemente dall'azione sociale e politica corre la nostra via, che
attua nuove forme di produzione intellettuale (di "servizi" intellettuali)
a quel modo stesso che i ricostruttori sociali e politici attuano forme nuove
di produzione e di distribuzione dei beni. Solo la coscienza e la volontà
di questa interdipendenza può far sì che opposte culture, nel seno
d'una medesima società, si integrino in una unità che convien dire
dialettica. Così che il ritmo di lavoro dell'operaio, la struttura dell'ambiente
in cui vive, le leggi che lo governano, il suo modo di divertirsi, di parlare,
eccetera, rechino il segno d'una possibile perfezione dettata dall'intelletto;
e che, inversamente, le produzioni dell'intelletto non siano dettate dal privilegio.
Tracciare le linee di questa cultura unitaria vorrebbe dire ripetere inutilmente
i temi della polemica politica e sociale che la società nuova conduce da
decenni dentro la vecchia e a cui l'ultima guerra dei tiranni ha dato così
tragica risonanza. E vorrebbe dire anche rischiare il generico di un programma
che, in sé per sé, non può esistere. Possiamo solo ripetere
che alla meta della nostra opera sta anzitutto il superamento del dualismo, generato
dalle classi, fra cultura intellettuale e cultura della produzione o tecnica che
dir si voglia; e al suo inizio vi sta il concetto di "persona umana"
o di "uomo", obiettivo e origine di ogni cultura, inteso come l'individuo
nella coscienza della propria correlazione col prossimo e delle proprie determinazioni
storiche. Che è come dire, con esclusione di quanto tende a distruggere
la persona o nella direzione dei miti sotterranei e collettivi della razza, del
sangue e della natura (massa indifferenziata) o in quella dei miti celesti di
un astratto Spirito o di un astratto Io (individualismo anarchico). Settembre
1945
(Tratto
da Saggi ed epigrammi, Mondadori, I meridiani, Milano, 2003)
Franco Fortini (pseudonimo di Franco Lattes), nato a Firenze il l0 settembre
1917,da padre ebreo e madre cattolica (Fortini è il cognome della madre
da lui adottato nel 1940), ha compiuto i suoi studi nella città natale
laureandosi in lettere e in giurisprudenza. Espulso, in seguito alle leggi
razziali, dall'organizzazione universitaria fascista, dopo l'8 settembre 1943
ripara in Svizzera dove si unisce ai partigiani della Valdossola. Dal l945
si stabilisce a Milano, che diventa sua città d'adozione e dove oltre all'insegnamento
svolge molteplici attività di copywriter, consulente editoriale, traduttore
e, infine, come docente universitario di Storia della Critica all' Università
di Siena. Franco Fortini ha attraversato la problematica dell'ermetismo, per
arrivare presto a una forma di marxismo critico che lo ha collocato in una posizione
fortemente polemica, sia verso l'establishment letterario, sia verso le neoavanguardie,
tra le cui file si è mosso.Testimone intransigente di quella speranza di
rivoluzione, che aveva sostenuto la lotta partigiana, nelle sue forme più
avanzate, come la Repubblica della Val d'Ossola, Fortini si è costantemente
impegnato, da intellettuale rivoluzionario, nelle lotte ideologiche del suo tempo,
con opere di critica e di narrativa, con reportages ed epigrammi, in cui come,
un Aiax mastigophoros alla rovescia, ha "trattato da eroi quelli che erano
poco più di un gregge". Dei suoi scritto ricordiamo "Foglio
di via e altri versi", Einaudi, Torino, 1946; "Agonia di Natale",
Einaudi, Torino, 1948; "Dieci inverni" (1947-1957), Feltrinelli, Milano,
1957; "Poesia ed errore (1937-1957)", Feltrinelli, Milano, 1959;"Verifica
dei poteri", Il Saggiatore, Milano, 1965; "L'ospite ingrato", De
Donato, Bari, l966; "I cani del Sinai", De Donato, Bari, 1967; "Questioni
di frontiera", l977; "Insistenze", l985; "Composita solvantur",
Einaudi, Torino, l995. Della sua vasta attività di traduttore
ricordiamo: M. Proust, "Albertina scomparsa", Einaudi, Torino, 1952;
e, dello stesso autore, "Jean Santeuil", Einaudi, Torino, l953; Bertold
Brecht, "Poesie e canzoni", Einaudi, Torino, 1961; W. Goethe, "Faust",
Mondadori, Milano, 1970; "Il ladro di ciliege", Einaudi, Torino, l983;
"Composita solvantur", Einaudi, Torino, 1994. Franco Fortini ha
collaborato ad alcune tra le più importanti riviste del Novecento: a "Letteratura"
(di Bonsanti) e "Riforma letteraria" (di Carocci e Noventa), sotto il
regime fascista; e, dopo la guerra, a "Il Politecnico" (di Vittorini),
"Ragionamenti" (da lui fondata nel l955 con L. Amodio, S. Caprioglio,
e Roberto e Armanda Guiducci) "Officina" e "Comunità",
nonché a diversi quotidiani: dall' "Avanti!" (di cui è
stato redattore dal l945 al l948) al "Corriere della Sera", al "Sole-24
0re". Franco Fortini è morto a Milano nel l994.
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