LA MOSTRUOSA VIVISEZIONE DELL'INDIA

Henri Tinq



A Thoa Khalsa 84 donne ingoiano l'oppio e saltano in un pozzo una dopo l'altra. I musulmani occupano questo villaggio del Pendjab nell'aprile del 1947, qualche mese dopo la divisione dell'India, e la tradizione sikh vuole che le donne s'immolino quando gli uomini non sono più lì per difenderle. Di quelle donne ne sopravvivranno quattro perché nel pozzo non c'è abbastanza acqua per affogarle tutte, ma le altre sono delle “ martiri ”. Morendo hanno preservato l'onore della comunità. Sono martiri anche quelle ragazze uccise dai loro padri, con la sciabola o con le loro stesse mani, per evitare che fossero rapite, violentate, convertite all'islamismo. Mangal Singh, con i suoi due fratelli, ha ucciso 17 membri della sua famiglia, figli, nipoti. In Le vie della divisione Indo-Pakistana , Urvashi Butalia fa una recensione delle crudeltà legate a questo capitolo della storia indiana che, sessant' anni dopo, tormenta ancora il paese con rabbia e rimorsi.

Le donne rapite – 75000 secondo le stime – vengono violentate, vendute, convertite con la forza. Sono obbligate a camminare nude nelle strade, hanno i seni tagliati, il sesso tatuato con i segni dell' “altra” religione. Perché, nell'orgia di violenza nata dalla divisione, un'ossessione sommerge l'India: rapire, violare la donna dell' “altro” per umiliarlo, intimidirlo, distruggere la sua capacità di riproduzione. Ossessione che, per rivalità mimetica, sconvolge sia gli indù che i musulmani. Mutilate, strappate alla loro comunità, queste donne sono la metafora del corpo amputato dell'India, Madre eterna - Bharat Mata . Si capisce quindi perché una delle caricature più amate dai nazionalisti indù rappresenti un corpo femminile che aderisce alla sagoma dell'India con Nehru che ne amputa un braccio che rappresenta il Pakistan.

Il 15 agosto 1947 è proclamata l'indipendenza, e allo stesso tempo la divisione, abborracciata , dei due stati: l'Unione indiana, a maggioranza indù, e il Pakistan, a maggioranza musulmana. L'Inghilterra e Lord Mountbatten, ultimo vicerè delle Indie, scappano a gambe levate dal gioiello della corona, diventato ormai un pantano infernale. Nel marzo 1947, oltre ai suicidi collettivi, le sommosse fanno milioni di morti a Rawalpindi (Pendjab). O nel Bengala, quando, nel novembre 1946, alcuni pellegrini indù massacrano, a Garh Mujhteshwar, dei commercianti musulmani. Nell' agosto del 1946, a Calcutta, un Action Day della Lega musulmana degenera nella “grande carneficina”: armati di asce, bastoni, spiedi e armi da fuoco, gli uomini uccidono, saccheggiano, nell'epoca dei veri pogrom, e profanano alcune moschee. Per rappresaglia, nel distretto di Noâkhâli dei musulmani uccidono e bruciano dei templi.

Tutti sanno che la divisione degenererà in un bagno di sangue, ma, nell'agosto del 1947, il Congresso tira un sospiro di sollievo. Jawaharlal Nehru, padre dell'indipendenza, confessa: “ Eravamo sfiniti. Bisognava smetterla. Pensavamo che la divisione sarebbe stata temporanea. ” Capo della lega musulmana, Mohammed Jinnah vede realizzato il sogno della sua vita: un'India indipendente in “ due nazioni ”. Ma “ nessuno sa dove andrà questo Pakistan utopico, questo paese inesistente ”, scrive lo storico Eric-Paul Meyer. Votato a Londra a luglio, l'Atto d'indipendenza dell'India non fa cenno ai rischi dell'esodo, della disgregazione delle famiglie. La commissione Radcliffe traccia una frontiera che mutila città e campi, le popolazioni sono mischiate. Il Pendjab e il Bengala sono a maggioranza musulmana, ma sono abitati da grandi minoranze di hindù e sikh. Lahore e Karachi, città di commercianti e funzionari, sono a maggioranza indù.

Dal 15 Agosto, giorno in cui la linea di frontiera diventa ufficiale, le case sono evacuate. A Delhi, città di frontiera tra i due nuovi stati, la milizia indù RSF caccia i musulmani, rifugiati nelle moschee, dai loro quartieri par far posto agli indù che arrivano in treni stracarichi. Karaki si svuota dei suoi abitanti indù come Delhi dei suoi musulmani. Nei quartieri misti persone normali massacrano i loro vicini senza altra ragione che la differenza religiosa. In india è la prima volta che si eliminano fisicamente e ad un tale livello delle popolazioni solo per creare zone etno-religiose pure.

Politici e preti fanatici attizzano l'odio. È il momento della grande “pulizia” – safa'i. Un sikh della frontiera d' Attari racconta: “ Un giorno tutto il nostro villaggio si è messo in cammino per raggiungere un villaggio musulmano vicino per una spedizione punitiva. Siamo impazziti veramente... E tutto questo mi è costato cinquant'anni di rimorsi, di notti insonni. Non riesco a dimenticare i volti delle persone che ho ucciso.” Stessa storia per Nasir Hussain, contadino musulmano: “Nell'arco di due giorni siamo stati sommersi da un'ondata selvaggia d'odio. Non riesco neppure a ricordarmi quanti uomini ho ucciso.”

La divisione fa dell'India un territorio divorato dalle tarme. Le due parti del neo Pakistan, quella occidentale e quella orientale, sono divise da 1300 chilometri di territorio indiano. E il numero delle vittime è altissimo. Secondo le stime più elevate, un milione di morti in tre mesi e un esodo umano mai visto. Quindici milioni di persone attraversano la frontiera nelle due direzioni: nove milioni di indù e di sikh arrivano dal Pakistan; 6 milioni di musulmani lasciano l'India. Un milione l'hanno raggiunta a piedi nei kafila , colonne lunghe decine di chilometri, uomini e donne vestiti di stracci, affamati, esausti, annientati dal dolore, ma che riescono, nonostante tutto, a trovare ancora un po' di forza per provocare l'altro. In una notte migliaia di famiglie sono smembrate, vite distrutte per sempre. Urvashi Butalia: “ E' difficile separare due vite. Separarne milioni è pura follia.”

Una “mostruosa vivisezione” , aveva avvertito il mahatma Gandhi a proposito della Divisione. A 77 anni, Gandhi, eroe shakespeariano, vaga allucinato, come re Lear, tra le rovine e il caos del mondo. Del suo mondo. Cammina nelle strade deserte di Calcutta dove gli abitanti si nascondono nelle carcasse carbonizzate di auto o nelle case incendiate. Arriva nei villaggi rasi al suolo in cui gli avvoltoi si aggirano già attorno ai cadaveri. Organizza delle riunioni di preghiera, ascolta le descrizioni delle atrocità, “ asciuga le lacrime di tutti gli occhi” , dice la scrittrice Christine Jordis nella sua biografia. Fino all'ultimo minuto, sull'asse di legno che usa come letto e scrivania, ha provato di tutto: stringere legami, digiunare, cercare un accordo con Mohammed Jinnah per convincerlo a non cedere al miraggio di un'India mozzata che per lui è un controsenso storico, un nonsense assoluto.

Ma nessuno ascolta più Gandhi. È odiato dagli attivisti dei due schieramenti, che ormai da molto non credono più alle virtù dell' ahimsa (non violenza). Lo detestano gli inglesi, che l'hanno sempre visto come un politico scaltro o un santo fanatico. Si è mai visto un oppositore che avverte cortesemente la potenza coloniale delle azioni di resistenza civile che lo avrebbero fatto diventare il rivoluzionario più originale del mondo? Il massacro del 1947 e l'esodo segnano il fallimento della sua battaglia per lo swaraj , l'emancipazione di un' India tanto desiderata. Aveva sostenuto la convivenza armoniosa delle religioni, ma queste si abbandonano ad un massacro spietato. Si era dichiarato contrario all'” intoccabilità” , provocando l'odio di tutti gli estremisti indù. Contrario all'oppressione delle donne, ma sono loro le prime vittime della sciagura indiana. Gandhi a perso. Riprende il suo arcolaio e la sua marcia cantando con il poeta Tagore, suo amico: “ Cammina solo. Se non rispondono al tuo appello, cammina da solo.

La crudeltà della divisione è stata per molto tempo un segreto troppo pesante da conservare, un parto doloroso che non si deve ricordare perché altre bufere si profilano all'orizzonte. Nel Cachemire, per esempio. L'assassinio di Gandhi, il 30 Gennaio 1948, è rimasto il gesto isolato di uno squilibrato indù piuttosto che l'ultimo di una lunga serie di omicidi. Ironicamente, Jinnah muore di tubercolosi otto mesi dopo Gandhi. Poi improvvisamente le lingue si sono sciolte, come se ci fosse un bisogno compulsivo di spiegare, capire, esorcizzare. Ma ogni sommossa successiva – contro i sikh dopo l'assassinio di Indira Gandhi nel 1984, la distruzione della moschea di Ayodhya nel 1992, i massacri antimusulmani di Gujarat nel 2002 – riattiva il ricordo della divisione. Sessant'anni dopo, si è appena cominciato a ricordare.



A lungo la tentazione è stata quella di contrapporre le due religioni e i loro valori antitetici: l'islam, monoteista, egualitario, proselito; l'induismo, politeista, gerarchico, tollerante. Nonostante fosse la religione minoritaria, l'Islam ha conquistato e dominato l'India per sei secoli, dalla fondazione del sultanato di Delhi alla decadenza dei Mongoli nel XVIII secolo. Ma la conquista inglese (1715-1818) ha posto fine all'egemonia musulmana e ne ha svelato la debolezza numerica. “ L'Islam ha smesso di essere in India il riferimento politico e culturale dominante” spiega l'islamista Marc Gaborieau. Ormai le due religioni dovevano affrontarsi. Nel 1940 Jinnah affermava: “ Gli indù e i musulmani appartengono a due civiltà diverse, fondate su idee e concezioni antitetiche.”

Questa giustificazione dei massacri, definita “ primordialista ”, è stata sostenuta da Louis Dumont nel libro Essai sur le système des castes (1966). È la teoria condivisa anche dagli storici ufficiali, dagli islamisti pakistani e dall'estrema destra indù. L'altra tesi, detta “ artificialista ”, invece, nega l'opposizione di fondo tra Islam e Induismo e addita i colonizzatori inglesi come causa della catastrofe della divisione. In nome dell'eterno principio “dividere per regnare”, la riforma Morley-Minto del 1909 cede alle richieste musulmane di separare l'elettorato nelle province, trasformando le comunità religiose in circoscrizioni elettorali.

Tutto questo aumenta la tensione tra la Lega musulmana, fondata nel 1906, e il Partito del Congresso (1885) che riunisce per la maggior parte le élite nazionaliste indù. La teoria delle “ due nazioni ” nascerà da un riflesso di paura della minoranza musulmana. Gli effetti combinati della democrazia e della politica del raj (impero) avrebbero quindi fatto esplodere conflitti intercomunitari estranei alla storia dell'India.

Questa tesi si basa su una supposta età dell'oro – precoloniale – in cui musulmani e indù sarebbero sempre stati buoni vicini. I sovrani indù sceglievano ufficiali e guru tra i musulmani e i sovrani islamici donne, generali e consiglieri tra gli indù. Parlano le stesse lingue, hanno gli stessi gusti nella musica, nell'architettura, in cucina, hanno le stesse strutture familiari (la poligamia). I valori che condividono sono più numerosi di quelli che li separano. Lungi dall'essere “ egualitario ”, sottolinea Marc Gaborieau, l'Islam indiano riproduce gerarchie sociali non così lontane dal sistema delle caste.

Le due spiegazioni, quella “ primordialista ” e quella “ artificialista ”, sono entrambe caricaturali. Nonostante i secoli di coabitazione più o meno pacifica, le due culture sono rimaste schiena contro schiena: in nome delle regole di purezza le due popolazioni non mangiano assieme, non si toccano, non si sposano. Gli indù considerano l'Islam o il cristianesimo religioni impure e barbare. Musulmani e cristiani sono, come gli intoccabili, all'ultimo gradino della scala. Un sikh racconta quest'aneddoto inaudito nel libro di Urvashi Butalia: “ se un musulmano fosse venuto verso di noi e ci fossimo scambiati una stretta di mano, se avessimo avuto in mano un pacchetto di cibo, questo cibo sarebbe stato sporcato e non lo avremmo potuto mangiare. Se avessimo avuto un cane in una mano e del cibo nell'altra, il cibo non avrebbe posto alcun problema.”

La vera frattura infatti era all'interno dei due schieramenti. Di fronte all'arroganza del colonizzatore, alla fine del XIX secolo le identità si risvegliano. Gli indù ripristinano i riti di purificazione, riprendono il ricordo mitizzato del passato premusulmano, le caste ritornano ad avere un senso rigoroso, sono reintrodotti il culto della vacca e il sacrificio delle vedove. Il nazionalismo indù sfrutta il malcontento di popolazioni reticenti all'occidentalizzazione dell'India che si riuniscono nel riferimento ad un vedismo originale che sarebbe stato deteriorato dall'Islam e dal cristianesimo.

Stessa evoluzione nei musulmani che vogliono “ disinduizzare ” l'Islam, eliminare il culto degli idoli, ritornare all'interpretazione letterale del corano, eliminare il sufsma , percepito come una contaminazione dell'induismo a scapito dell'islam. È così che il fondamentalismo nasce in Bengala e nel Pendjab. Nel 1927 il movimento di predicatori chiamato Tabligh (Fede e pratica) – ancora oggi molto diffuso in Francia – nasce con l'intento di purificare, purgare ciò che secoli di coabitazione hanno inquinato.

Lo stesso anno un intellettuale occidentalizzato, Maududi, uno degli ispiratori dei Fratelli musulmani in Egitto, pubblica un libro clamoroso sulla “ guerra santa ”, che incoraggia in tutto il mondo musulmano, e fonda nel 1941 il Jamaat al-Islam, che trasformerà il Pakistan in una Repubblica islamica.

Il recupero politico di questi estremismi religiosi predispone la tragedia. La milizia indù, il Rashtriya Svayamsevak Sangh (RSS) organizza manifestazioni rituali che sono allo stesso tempo dimostrazioni di forza. D'altro canto la Lega musulmana riprende la proposta fatta nel 1930 dal poeta-filosofo Iqbal di uno stato indipendente che avrebbe l' intento di riunire tutti i musulmani. Eppure Mohammed Jinnah è tutto furchè un islamista. È un riformatore moderno, sposato con un'ismaelita, che mangia maiale e beve whisky, ma ha capito che avrebbe potuto creare il Pakistan solo con l'appoggio degli ulama. “ È solo perché dei politici hanno considerato che era conveniente per loro sfruttare queste spaccature religiose, conclude il ricercatore Christophe Jaffrelot, che queste sono diventate pertinenti, cosa che non erano prima.” Tutto era già pronto per il peggio.



(Articolo tratto dal giornale Le Monde, dell'8 agosto 2007. Traduzione di Nunzia De Palma.)

Henri Tinq è lo specialista di questioni religiose del quotidiano parigino Le Monde.



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