I GIORNI DI TERRA IN TRANCE

Caetano Veloso


Se il Tropicalismo si deve, in qualche misura, ai miei atti e alle mie idee, dobbiamo allora considerare come scintilla esplosiva del movimento l'impatto che il film Terra in trance , di Glauber Rocha, ebbe su di me nel mio soggiorno a Rio tra il 1966 e il 1967. Il cuore cominciò a battermi forte subito, alla prima scena, quando, al suono dello stesso cantico di candomblé che c'era anche nel primo lungometraggio di Glauber – Barravento –, si vede avvicinarsi la costa brasiliana in una ripresa dal mare. Il film andava avanti e si succedevano immagini di una potenza straordinaria, confermando via via l'impressione che altri aspetti inconsci della nostra realtà stavano per essere rivelati.

Glauber Rocha, il giovane regista baiano, era diventato ormai un personaggio di primo piano nel mondo culturale. Dopo Barravento , quando ancora viveva a Bahia, aveva colpito critici e registi europei con Il dio nero e il diavolo biondo , un film pieno di selvaggia bellezza che ci aveva fatto intravedere la emozionante possibilità di un gran cinema nazionale. Non si trattava della conquista di un buon livello qualitativo: questo era stato l'obiettivo della Vera Cruz, casa di produzione fondata dall'impresario paulista Franco Zampari, che aveva costruito uno studio ben attrezzato dove, fino alla metà degli anni cinquanta, si giravano film di buona fattura. Per dirigere l'impresa, Zampari aveva invitato Alberto Cavalcanti, il cineasta brasiliano che aveva lavorato con successo in Inghilterra e Francia ed era poi tornato in Brasile accettando l'invito dell'élite brasiliana per impiantare nel nostro paese un'industria cinematografica di alto livello. Era un tentativo di superare quel primo gradino su cui stazionava il cinema commerciale brasiliano, rappresentato dalle commedie carnevalesche di Rio, le cosiddette chanchadas (genere inaugurato con successo negli anni trenta). Il movimento del Cinema Novo, nella prima metà degli anni sessanta, si opponeva tanto alle rispettabili e convenzionali produzioni della Vera Cruz quanto alle ingenue chanchadas . Il Cinema Novo si impose su queste due tendenze non sen­za difficoltà e bisogna anche dire che la disattenzione quasi ostile nei confronti di produzioni come O cangaceiro ["Il brigante"], della Ve­ra Cruz, o O homem do Sputnik ["L'uomo dello Sputnik"], una chan­chada , sembra oggi decisamente ingiusta.

Glauber guidò praticamente e teoricamente il movimento del Cinema Novo. Il suo libro Revisão critica do cinema brasileiro argomentava in favore di un cinema superiore che prendesse spunto dalla miseria brasiliana, come il neorealismo era nato dalla po vertà delle città italiane nell'immediato dopoguerra. Glauber esortava dunque i giovani intellettuali di sinistra che fossero attratti dal cinema a ispirarsi al Nelson Pereira dos Santos di Rio, 40 graus . ["Rio, 40 gradi"] e naturalmente questo voleva dire disprezzare tanto gli onesti artigiani quanto i furbi che producevano divertimento per un pubblico semianalfabeta.

Il film manifesto fu Il dio nero e il diavolo biondo . I bei film del Cinema Novo come Os fuzis ["I fucili"], di Ruy Guerra, o Vidas secas ["Vite secche"], di Nelson Pereira dos Santos – per rimanere nell'ambito dei film realizzati e usciti più o meno contemporaneamente a Il dio nero e il diavolo biondo e che insieme a esso costituiscono le prime grandi realizzazioni del movimento –, avevano fra gli altri il merito di aver raggiunto un notevole livello di fattura, percorrendo strade molto diverse rispetto alla Vera Cruz, ad Anselmo Duarte o a Walter Hugo Khoury (il solitario autore di film bergmaniani). Il dio nero e il diavolo biondo era buono (e anche migliore) per altre ragioni: osava liberamente oltre e al di sopra della subordinazione alle dinamiche industriali e all'ossequio a certi parametri artistici prestabiliti. Esplorando la tematica del fanatismo religioso nel Nordeste brasiliano – con echi evidenti di Os sertões ["I sertão"], la grande opera di Euclides da Cunha, e riprendendo l'immaginario del banditismo rurale di quella regione, il segno forte di O cangaceiro –, Glauber, senza temere la mano a volte pesante, a volte maldestra, con la quale esibiva insegnamenti estetici di Ejzenstejn, Rossellini, Buñuel o Brecht (con in più nouvelle vague e qualche vezzo del cinema giapponese che noi cominciavamo a conoscere soltanto allora) e ancora le lezioni ideologiche marxiste, presentava un quadro esuberante ed esagerato (in Europa come in Brasile fu definito, secondo me non a torto, "barocco") delle forze epiche radicate nella nostra cultura popolare. In verità, il risul­tato finale di questo film lo avvicina più al geniale Pasolini del Vangelo secondo Matteo che a qualsiasi altro regista: la fotografia scabra, il delirio costruito a partire dalla materia grezza, l'imposizio­ne di un mondo mentale alle immagini – sono tutte caratteristiche comuni a questi due film realizzati nello stesso anno. Il dio nero e il diavolo biondo , però, non nasceva da qualcosa di potentemente genuino come un Vangelo: doveva farcela a partire da un immaginario e una problematica molto particolari tipici del Brasile. Dallo schermo trasudava il desiderio stesso dei brasiliani di fare cinema. Non era un semplice tentativo di fare un buon film (o di dimostrare di esserne capace), ma piuttosto una ricerca, una proposta di nuovi criteri in base ai quali giudicare sbagli e conquiste. Il cineasta spagnolo Fernando Trueba mi ha detto un giorno che anche i brutti film brasiliani non sono mai del tutto brutti, perché possiedono qualcosa di selvaggio che li salva, e che questa componente selvaggia si ritrova, con una concentrazione più elevata, nei film brasiliani ben riusciti. Questa è una verità che anche gli stranieri possono cogliere, ma che non sarebbe mai stata rivelata senza il Cinema Novo – e il Cinema Novo non sarebbe mai esistito senza Glauber. Ciò che in qualche modo riscatta i brutti film brasiliani e illumina, quelli belli è la fiamma che arde in Il dio nero e il diavolo biondo . E stato questo a fare di Glauber un maestro, oltre che una personalità carismatica e autorevole (pur restando sempre polemica – o forse proprio per questo) in tutti i campi della nostra vita culturale. Mentre lui girava Terra in trance , c'era un'enorme aspettativa per quello che avrebbe fatto dopo Il dio nero e il diavolo biondo . Quando finalmente il film uscì, andai a vederlo da solo in un cinema a Copacabana.

Ero arrivato a Rio nell'aprile o nel maggio del '66 e, dopo aver vissuto per un po' a casa di Alex Chacon a Copacabana, mi trasferii al Solar da Fossa [Villa Malinconia], come veniva chiamato questo pionieristico residence di Rio de Janeiro. Era una vecchia casa colonica ristrutturata e suddivisa in piccoli appartamenti, che garantiva un servizio di portineria e pulizia delle stanze. Enormi corridoi, lungo i quali si allineavano gli appartamenti, seguivano il perimetro di un giardino interno. La proprietaria stava spesso nell'atrio, dietro il bancone, con i capelli ossigenati e un sigaro in boc­ca. Ma questa descrizione – o il soprannome con cui era nota la villa – non deve far pensare che il posto fosse deprimente, anzi: tutto li era pulito, allegro, fresco, dall'aria solida. E la proprietaria con il sigaro tra le dita suggeriva l'eccentrica eleganza di un personaggio da film tedesco. I numerosi appartamenti (soggiorno-camera da letto con bagno) erano occupati prevalentemente da artisti: musicisti, poeti, disegnatori e aspiranti attrici. Gente che aveva scoperto un bel modo di vivere in un punto particolarmente suggestivo della Rio di allora (tra Copacabana, Botafogo e Urca) con pochissimi soldi. Dedé, che come d'accordo era venuta con me, viveva vicino a Flamengo, da sua nonna, ma trascorreva al Solar tutto il tempo che avevamo per stare insieme.

Già il soprannome "Solar da Fossa" (il vero nome sarebbe stato Solar Santa Teresinha) aveva un certo non-so-che di sofisticato, per non dire raffinato, dal momento che "estar na fossa" ["essere malinconici, un po' depressi"] era una espressione in , utilizzata dagli abitanti della Zona Sud carioca. Era il gergo dei fan di Bergman e di chi era in analisi. Il termine fossa, nonostante il suo poco elegante significato originario (peraltro coloro che usavano quell'espressione, in genere residenti in quartieri ben attrezzati con fognature e servizi, non lo conoscevano affatto, e io stesso, che provenivo da una civilissima cittadina dell'interno, per molto tempo usai questa parola senza mai soffermarmi sul suo nauseabondo significato), si applicava ai sambas-canções moderni di Maysa, Tito Madi e Dolores Duran della fase pre-bossa nova ed era da tutti considerato chic. Dal Solar si attraversava il Túnel Novo (che collega Botafogo a Copacabana) a piedi e, in cinque minuti, si era in rua Prado Júnior: qui c'era il ristorante Cer­vantes, che negli anni sessanta, con certi squisiti sandwich di pane francese — che si possono gustare ancora oggi — e un'ottima birra alla spina, costituiva il fulcro della vita bohémien. Ricordo che andai a piedi dal Solar fino al cinema dove davano Terra in trance .

Nel suo complesso, il film mi sembrò squilibrato. Era persino più respingente di Il dio nero e il diavolo biondo , e questo mi dava fastidio. Gli sfoghi del protagonista — un poeta di sinistra tormentato dalla sua sete di giustizia sociale, ma anche di "assoluto" —mi sembravano, a volte, decisamente scadenti. In più, certi insopportabili difetti del cinema brasiliano — le mediocri e poco convincenti rappresentazioni delle feste eleganti, con le comparse femminili ridotte, su indicazione del regista, a squallide caricature provinciali del glamour sessuale, l'incapacità di raccontare con chiarezza almeno una parte della storia, anche quando sembrava che ce ne fosse l'in­tenzione, ecc. — c'erano ancora tutti. Ciò nonostante, come era già accaduto nei due precedenti film di Glauber (e, con minore intensità in gran parte dei film del Cinema Novo), sullo schermo si susseguivano incessantemente suggestioni di un'altra visione della vita, del Brasile e del cinema, che rendevano meno gravi questi difetti. Nel caso di Terra in trance , lo stesso protagonista si faceva portatore di una visione amara e disincantata della politica, avvolta nella sua re­torica, in netto contrasto con l'ingenuità dei suoi compagni di resistenza alla ditattura militare appena instaurata. Il film ha per argomento il golpe, che ritorna come un incubo, in un lungo flashback nella mente del poeta moribondo. L'impressione di trovarsi di fronte a un remake di L'isola che scotta di Buñuel, con qualche tocco di nouvelle vague e pennellate del Fellini di Otto e mezzo , poteva creare confusione. Confusione che tuttavia contribuiva a rafforzare l'aspetto grottesco del film e che spesso era funzionale alle vicende del personaggio, il cui disperato tentativo di criticare con la maggior lucidità possibile i progetti politici nei quali era coinvolto proprio mentre lottava per consolidarli — tipico dilemma che portò tanti alla follia, al misticismo o agli schieramenti opposti — finiva per condurlo, abbastanza gratuitamente, alla morte. Il pensiero che questo film pos­sa essere considerato una biografia abbastanza fedele dello stesso Glauber è commovente.

Naturalmente il film non fu un successo al botteghino, ma destò scandalo tra gli intellettuali e gli artisti della sinistra carioca. Alcuni leader del teatro impegnato arrivarono al punto di inscenare esaltate dimostrazioni di protesta davanti a un cinema dove avevano appena finito di proiettarlo. Una scena in particolare urtava questo gruppo di spettatori: durante una manifestazione popolare — un comizio — il poeta, che è nel gruppo degli oratori, chiama vi­cino a sé un operaio sindacalizzato e, per mostrare quanto sia poco preparato per lottare per i suoi diritti, gli tappa violentemente la bocca con la mano, gridando ai presenti (e a noi, nella sala di proiezione): "Questo è il popolo! Un imbecille, un illetterato, uno sprovveduto!". Poco dopo uno straccione, rappresentante della povertà disorganizzata, appare tra la moltitudine cercando di prendere la parola ed è azzittito dalla canna di una pistola messagli in bocca da un uomo del servizio di sicurezza del candidato. Questa immagine è reiterata in lunghi primi piani distaccati dal ritmo narrativo, diventando così emblematica.

Ho vissuto questa scena — e le reazioni indignate che suscitò ai tavolini dei bar — come il nucleo di un grande avvenimento e cercai mille modi per descriverlo a me stesso e agli altri: ma la sintetica ed efficace definizione di morte del populismo non affiorava alla mia mente con la facilità di oggi. Indubbiamente, nel film i demagoghi populisti venivano ridicolizzati in maniera spettacolare: li si vedeva portare crocifissi e bandiere in carri scoperti sotto il cielo dell'Aterro do Flamengo 1 , ostentare le loro ville sfacciatamente di cattivo gusto, partecipare alle celebrazioni ecclesiastiche e carnevalesche che toccano il cuore del popolino ecc. Ma erano la fede nelle forze popolari e il rispetto dei migliori per gli uomini del popolo che qui venivano scartati come arma politica o valore etico in sé. Io ero preparato ad affrontare questa ecatombe. Ed eccitato dalla prospettiva di esaminarne le dinamiche interne e prevederne le conseguenze. Niente di quello che poi prese il nome di Tropicalismo avrebbe avuto luogo senza questo momento traumatico.

Il colpo al populismo di sinistra liberava la mente per focalizzare il Brasile in una prospettiva più ampia, consentendo critiche mirate di natura antropologica, mitica, mistica, formalista e morale, prima impensabili. Se rimasi incantato dal coraggio di quella scena che indignò i comunisti, fu perché le immagini precedenti e successive cercavano di spiegare come siamo fatti e ponevano delle domande sul nostro destino. Una grossa croce sulla spiaggia domina un gruppo formato da politici demagoghi, effeminati travestiti per il concorso di fantasie del ballo del Teatro municipale e indios carnevaleschi: si sperimentano simultaneamente l'elemento grottesco e la leggerezza caratteristici del Brasile, quest'isola sempre appena scoperta e sempre misteriosa; in mezzo alla ressa di un comizio, un vecchietto balla il samba con mosse aggraziate e insieme ridicole, osceno e al tempo stesso angelico, allegramente smarrito: il popolo brasiliano è colto nei suoi paradossi e non si capisce se siano disperanti o suggestivi; decisioni politiche si discutono in un cortile di cemento in cui le fughe tra una lastra e l'altra mettono in risalto o fanno passare inosservate le entrate e le uscite dei personaggi; la cinepresa passeggia tra gruppi di quattro, cinque, sei agitatori inquieti, che si muovono e agiscono ognuno indipendentemente dall'altro; il tutto in una fotografia in bianco e nero in cui enormi spazi luminosi vengono coperti da gigantesche macchie nere. Era una drammaturgia politica che si discostava dalla consolidata tendenza a semplificare nella caricatura schematica della lotta di classe. Soprattutto, era la retorica e la poetica della vita brasiliana del post '64: un grido profondo di dolore e rivolta impotente, ma anche uno sguardo attualizzato, quasi profetico, sulle nostre reali possibilità di essere e sentire.

Eppure, forse non avrei reagito così a questi stimoli se non fosse stato per l'influenza determinante esercitata su di me, già da qualche tempo, dall'intelligenza e dalla sensibilità di un intellettuale singolare, entrato nella mia vita sul finire del '64 e a quel punto, due an­ni dopo, ormai un mio vero amico: Rogério Duarte, anche lui baiano, trasferitosi a Rio nello stesso anno in cui ero arrivato a Salvador.

Nella prima metà degli anni sessanta, prima che lasciassi la Bahia, sentivo ripetere molto spesso il nome di Rogério Duarte nei discorsi dei miei compagni, alla facoltà di Filosofia. La sua intelligenza inquieta e originale era diventata una leggenda. Si diceva che parlasse con grande arguzia e che le sue opinioni, a volte scandalose, scioccassero l'interlocutore per il fervore con cui le difendeva. Non aveva nemmeno finito il liceo, eppure affascinava studenti e professori universitari. Altrettanto leggendaria era diventata la sua passione per una ragazza davanti alla cui porta, nel quartiere dei Barris, si diceva restasse per notti intere, in muta serenata. Era Anecir, la sorella minore di Glauber, che quando ancora frequentavo l'università, poco prima del mio incontro con Rogério, ebbe un ruolo decisivo nella mia vita.

Quando arrivai a Rio con Bethânia, nel '64, Rogério comparve una sera al Teatro Opinião e, alla fine dello spettacolo, uscimmo insieme per fare due chiacchiere. Niente di quello che mi avevano raccontato di lui a Bahia avrebbe potuto prepararmi all'impatto che eb­be su di me. La sua voce era più possente, la sua mente più agile e le sue idee più sconcertanti di quanto sarei stato capace di immaginare. Tra lui e i suoi discorsi c'era una sorta di coinvolgimento allo stes­so tempo viscerale e metafisico che moltiplicava all'infinito il potere di persuasione dei suoi argomenti. Ed era anche sorprendentemente gentile e amichevole. Nei confronti del nostro gruppo, dei baiani abbastanza più giovani di lui, aveva un atteggiamento affettuoso e ironico e capivamo che si commuoveva quando idealizzava la nostra presunta purezza dicendo: "Voi non siete nevrotici, siete diversi dai miei coetanei di allora, a Bahia". Questo non gli impediva, comunque, di sconvolgerci con uscite politicamente blasfeme. Sembrava voler proteggerci da un certo cinismo amaro che la vita gli aveva già insegnato e, allo stesso tempo, metterci in guardia da un'adesione troppo ingenua all'ideologia dominante nell'ambiente intellettuale. Tremai sentendogli dire che era stato un bene che l'edificio dell'Unione Nazionale degli Studenti (UNE) fosse stato bruciato. L'incendio dell'UNE, un atto vandalico compiuto dai gruppi di destra subito dopo il golpe dell'aprile del '64, aveva suscitato l'indignazione di tutta la sinistra, spaventato i liberali e i benpensanti in generale. Rogério esponeva con veemenza le sue ragioni personali per non unirsi a questo coro: l'intolleranza che i membri dell'UNE avevano manifestato verso la complessità delle sue idee faceva di loro una minaccia alla sua libertà. La strana esaltazione che provai accorgendomi di comprendere perfettamente le sue ragioni, e anche di condividerle, superò lo choc iniziale prodotto dalla sua affermazione eretica. Non tardai a scoprire che Rogério fustigava con foga ancora maggiore i reazionari che avevano appoggiato l'aggressione all'UNE. Questo, per tanti un'assurda incoerenza, era per me prova di fermezza e rigore: lui identificava embrioni di strutture oppressive all'interno dei gruppi che lottavano contro l'oppressione, ma non per questo era disposto a lasciarsi confondere con coloro che effettivamente li opprimevano. La stessa vivacità intellettuale e la stessa inquietudine di spirito avevano portato alcuni leader della sinistra dell'UNE – dei quali, comunque, era amico – a soprannominarlo Rogério Caos. Il valore peggiorativo attribuito al nomignolo lo feriva doppiamente: definivano caotico esattamente ciò che in lui c'era di più logico e costruttivo e disprezzavano il caos, che lui, ad altri livelli, amava appassionatamente.

Nel '66, poco prima che vedessi Terra in trance , Rogério mi aveva presentato allo scrittore paulista José Agrippino de Paula. La semplice presenza di Zé Agrippino rappresentava una specie di approfondimento delle idee più audaci di Rogério, che mi raccontò come si erano conosciuti: vedendo un giorno Agrippino camminare per strada – un perfetto sconosciuto – e senza mai avergli rivolto la parola o averlo sentito parlare, Rogério aveva detto tra sé: "Non ho mai visto un uomo così intelligente in vita mia". Gli si av­vicinò e diventarono amici.

Zé Agrippino opponeva le icone della cultura di massa americana all'intellettualismo del nostro giro bohémien. Ma dietro a questo atteggiamento iconoclastico agiva soprattutto la volontà di valorizzare gli scrittori di lingua tedesca (in particolare Kafka e Musil, ma credo di averlo sentito parlare anche di Hõlderlin, e sicu­ramente di Heidegger e Nietzsche) e di lingua inglese (Joyce, Melville e Swift; Kerouac, Ginsberg e la beat generation ). Mi colpì, comunque, quando dichiarò orgogliosamente di preferire nettamente i film di 007 a Jules e Jim , il delicato film di Truffaut tanto amato dalle platee universitarie. Agrippino non era eloquente quanto Rogério e non giustificava mai le sue posizioni: si metteva lì e lasciava cadere le sue conclusioni come macigni nel bel mezzo della conversazione. Con uno sguardo, annichiliva il basso livello della competitività brasiliana in tutti i settori, inveiva contro la tradizione degli impiegati e le forme di nepotismo – ed esemplificava la forza del cosiddetto irrazionalismo di fronte agli spasmi del pensiero sistematico. Essendo di São Paulo, Agrippino vedeva le cose in un'ottica diversa dalla nostra: essere nato in Brasile, per esempio, era per lui un dato oggettivo, non una fortuna ma neanche una disgrazia, si limitava a considerare vantaggi e svantaggi pratici con lucida obiettività. Se gli svantaggi superavano di gran lunga i vantaggi, questo non influiva minimamente sui suoi sentimenti verso il paese: era soltanto un dato concreto in più da registrare. Per molto tempo lo considerai una specie di personaggio di Rogério. Senza dubbio, l'aneddoto riguardo al loro incontro contribuiva a creare questa impressione. In ogni modo, lui costituiva la rappresentazione più efficace di un detto che Rogério ripeteva spesso e che non so se fosse una citazione: "Il problema per me, scrivendo un romanzo, è che non mi accontenterei di essere l'autore – vorrei essere anche il personaggio". Ambedue, ciò nonostante, stavano scrivendo ognuno un romanzo: Rogério, quello che sarebbe stato il suo esordio letterario se non lo avesse distrutto prima di provare a pubblicarlo; Agrippino, il suo secondo libro, un'epopea intitolata Panamérica che presto avrebbe seguito Lugar público ["Luogo pub­blico"], uscito un anno prima che ci conoscessimo.

Zé Agrippino sembrava un uomo delle caverne, con la sua barba nera e la sua imponenza fisica. Non dispensava mai i sorrisi convenzionali che ci si scambia quando gli sguardi si incontrano casualmente e spesso questo mi metteva a disagio. Ma non era scortese o grossolano e quando un sorriso gli affiorava alle labbra era tanto più prezioso perché così raro e soprattutto carico di significato perché realmente sincero. Naturalmente la sua fidanzata, Maria Esther Stockler, anche lei di São Paulo, condivideva questa decisione di non fare concessioni ai riti convenzionali della convivenza piccolo-borghese. Lei, ancor più di lui, era autenticamente aristocratica, una costante lezione sulla vera eleganza, la dimostrazione vivente di come e perché qualcosa normalmente considerato volgare – la lunghezza di una gonna, un colore, un gesto – poteva essere, alla fine, il miglior esempio di raffinatezza. Faceva la ballerina e apparteneva a una ricca famiglia di São Paulo. In pubblico non si baciavano né si toccavano mai. Al massimo, arrivavano insieme e se ne andavano insieme. Rogério, invece, raccontava che quando li ospitava a casa sua a Santa Teresa 2 a volte passavano una notte e un giorno interi senza uscire dalla stanza da letto, neanche per mangiare, sessualmente abbandonati l'uno all'altra. Sulla spiaggia, le ragazzine guardavano Maria Esther a bocca aperta perché non si depilava l'inguine e nemmeno le ascelle. Eppure era maestosa come una regina, mentre loro sembravano delle coriste. Lei e Agrippino leggevano riviste in inglese e, a differenza di Rogério, non usavano mai parolacce o espressioni gergali. Parevano stranieri (nonostante Agrippino fosse un tipo molto brasiliano, mentre lei sembrava una oriunda del Caucaso), o arrivati da un'altra epoca: lui paleolitico, lei prerinascimentale, tutti e due futuristici.

Sia Rogério sia Agrippino mi avevano in qualche modo predisposto ad apprezzare Terra in trance . Il primo era intimo amico di Glauber dai tempi di Bahia e aveva un forte ascendente sul regista. Tuttavia, è evidente che non c'era bisogno che me lo dicesse lui di prestare particolare attenzione a un film di Glauber. Barravento — sul quale avevo scritto una recensione molto positiva per un giornale di Salvador ben prima di conoscere Rogério — mi era sembrato straordinariamente bello e Il dio nero e il diavolo biondo era il film più esuberante e suggestivo di tutto il Cinema Novo. Per me, l'ho già detto, Glauber era un mito. Il tamtam che aveva preceduto l'uscita di Terra in trance — che titolo! — faceva presagire novità da lasciarci esterrefatti. Zé Agrippino aveva letto il copione, non so come mai, e i suoi commenti erano stati entusiastici — conoscendo il personaggio, sempre laconico e molto esigente, doveva trattarsi di un autentico capolavoro. Nonostante tutto, però, più di qualsiasi riferimento diretto al film che mi apprestavo a vedere, fu l'atmosfera estetica e critica che la convivenza con Rogério e Agrippino aveva creato a determinare la mia particolare predisposizione d'animo.

Duda era arrivato da Bahia per trasferirsi a Rio e fino a quando non avesse trovato una sistemazione definitiva sarebbe rimasto nella mia stanza al Solar da Fossa. Vide il film per la prima volta con me, che invece ero già alla terza o alla quarta. Malgrado gliene avessi parlato in termini molto positivi il film non gli piacque, e me lo disse subito. Le sue motivazioni non erano le solite opposte dalla sinistra. Lui criticava la disomogeneità stilistica del film, le sue evidenti ambizioni e i suoi obiettivi mancati, più che l'eventuale "messaggio politico" che veicolava. Potevo capire certe riserve (in verità, come ho già detto, anch'io dovetti superarle prima di decidermi a favore del film), ma mi premeva spiegargli da cosa nasceva il mio bisogno di lodare Terra in trance . Non avendo condiviso con me quella par ticolare atmosfera estetica e intellettuale, Duda esprimeva un'opinione che avrebbe potuto essere la mia, se non avessi incontrato Rogério e Zé Agrippino. Ebbi l'impressione, che mi accompagnò per qualche tempo, che in verità stavo soltanto sforzandomi maldestramente di piacere ai miei nuovi maestri, formulando opinioni che supponevo coincidessero con le loro. Questo malessere mi insegnò parecchio sulle pressioni del gruppo e mi fece riflettere sul modo in cui formiamo i nostri gusti. In quella discussione Duda era stato ancora una volta rigoroso e autentico, mentre io annaspavo nel vuoto. Curiosamente, però, né Rogério né Agrippino commentarono mai il film con me, dopo la sua uscita. Non ho mai saputo se Agrippino avesse esteso la sua approvazione del copione al film nella sua totalità, dopo il montaggio. E Rogério, che frequentavo più assiduamente, sembrava non fosse mai andato a vederlo. Il fatto è che la mia era una ricerca solitaria. Era questa la mia maniera di cercare, l'unica per me possibile. Inoltre, è certo che il destino ci prepara incontri rivelatori delle nostre vocazioni più intime. La storia dell dell'incontro di Agrippino con Rogério, come la raccontava lui, ne è una parabola. Loro dur, come già avevano fatto Duda e Alvinho Guimarães, inquadravano in una prospettiva più ampia le questioni che si agitavano dentro di me ancora a livello embrionale e le trasformavano in sfide, che io accettavo con entusiasmo.

Non sapevo ancora che Gobineau avesse formulato ia sarcastica definizione: "Le brésilien est un homme qui désire passionnément habiter Paris" , quando Zé Agrippino colse e incentivò una tendenza antifrancese nella formazione dell'estetica tropicalista. Ci fu infatti, tra le istanze che avevano portato alla nascita del movimento una naturale reazione al tradizionale allineamento con la cultura francese. Tale reazione era l'espressione di un impulso che da tempo stava lentamente — e non senza una certa appreensione — prendendo forma nello spirito dei

brasiliani e che andava nel senso del disvelamento o dell'elaborazione di un valore culturale autonomo. La fecero propria anche gli eruditi — visto che era una conseguenza del modernismo, un marchio dell'epoca – che volevano avvicinarsi alla cultura di massa, criticandola o identificandosi con essa, o ancora servendosene per criticare se stessi. Questo fenomeno ebbe come conseguenza la comparsa di uno sperimentalismo di massa – che il poeta avanguardista Décio Pignatari definì " produssumo" , con un neologismo che univa produzione e consumo in una sola parola. Ebbene, non sarebbe sbagliato affermare che, confondendo la cultura francese con la cultura erudita, decidemmo di contrapporle la cultura americana, che aarivava da noi principalmente come cultura di massa. Eppure era stato proprio un autore francese, Edgar Morin, il primo a suggerirmi tutto questo. Era stato lui — i cui libri Rogério commentava e a volte mi leggeva ad alta voce — che, riferendosi alle stelle hollywoodiane e ai personaggi dei fumetti in termini di una nuova mitologia, mi aveva aperto la mente alla comprensione dell'arte pop, a un reale assorbimento della poetica di Godard, al ridimensionamento del rock'n'roll e del cinema americano. È curioso che abbia incluso Godard in questo elenco. Godard, francese non meno di Morin (ma con qualche goccia di sangue svizzero), mi insegnò a cogliere la poesia della cultura di massa americana, di Hollywood, della pubblicità. I suoi film erano – e lo sono ancora –i miei preferiti fra tutta la produzione cinematografica di quell'epoca. Da quando Duda mi aveva consigliato Fino all'ultimo respiro avevo capito non solo di aver trovato un nuovo idolo tra i registi cinematografici, ma anche che il cinema in sé andava riconsiderato da una nuova prospettiva. Terra in trance mi aveva dato tutto, in un certo senso, ma ciò che avremmo voluto realizzare, se ne avessimo avuto la possibilità, era molto più vicino ai film di Godard. Questa è la mia vita , Il bandito delle ore undici e La donna è donna sono opere fondamentali nell'iniziale fermento del Tropicalismo. E Il maschio e la femmina – con le sue scene in studio di registrazione, i suoi "figli di Marx e della Coca-Cola", la sua sessualità adolescente – quando lo vidi a São Paulo mi sembrò una scena del nostro vissuto quotidia­no: era come assistere alle prove di una pièce di Agrippino e Maria Esther, andare a registrare il programma Jovem Guarda, incontrare i Mutantes (gruppo rock paulista di quegli anni)... come vivere, semplicemente. Più tardi, La cinese e Week-end – Un uomo e una donna dal sabato alla domenica costituirono una sorta di ponderato commento sulla parte dell'avventura già vissuta.

Non leggevamo mai Morin, né parlavamo di lui, davanti ad Agrippino. Lui era piuttosto insofferente nei confronti degli intellettuali francesi, anche quelli che cercavano di procedere nella sua stessa direzione. Era anni luce avanti rispetto a tutte queste conversazioni tra Rogério e me, sul bello della post-Rivoluzione industriale, il Kitsch ("l'arte della felicità"), i cartelloni pubblicitari. i sambas-canções di cattivo gusto, e di Godard se ne infischiava.

In verità, Rogério e io ci eravamo accostati a queste tematiche per puro caso. Inizialmente, i nostri discorsi avevano per oggetto le cose che accadevano intorno a noi (teatro, cinema, musica popolare – oltre ai commenti un po' moralistici, un po' psicologici sui comportamenti di conoscenti, o al semplice pettegolezzo), quando non si riducevano a ispirati monologhi di Rogério su Proust, Mozart, Heidegger, Villa Lobos o Lota Macedo Soares. Con tutti questi personaggi, Rogério esibiva un'intimità che io non avrei mal neanche sognato di raggiungere, mi accontentavo di sentirne parlare da lui, perché – nonostante leggessi Sartre, Fernando Pessoa, Lorca e Drummond 3 – ritenevo che conoscerli fosse responsabilità di geni come Rogério o di grandi e saggi eruditi. Dedé aveva trovato lavoro in un giornale e, in quel momento, doveva scrivere un pezzo sui fotoromanzi. Non avendo molta esperienza come giornalista e, per di più, disprezzando l'argomento (del quale peraltro non sapeva nulla), aveva chiesto aiuto a Rogério. Lui scardinò i pregiudizi di Dedé su questa forma di letteratura facendo ricorso a diverse teorie sulle espressioni culturali tradizionalmente considerate deteriori. Fu così che Rogério mi introdusse a Edgar Morin, ben prima che conoscesse Zé Agrippino. Le idee di Morin mi colpirono fin da subito. Zé Agrippino, quando finalmente entrò in scena, mi infiammò ulteriormente e portò ancora più lontano la mia im­maginazione, dichiarando il proprio interesse per il rock a detri­mento della MPB, affermando che Chacrinha – lo stravagante e ori­ginale presentatore televisivo brasiliano – era "la personalità teatrale più illustre del paese", cogliendo nella società tecnologica, in anticipo su tutti gli altri, la possibilità di una libertà selvaggia. Vidi dunque Terra in trance con grandi aspettative di cambiamento. Se mi identificai con Rogério appena lo conobbi fu perché con i colleghi dell'Università di Bahia mi ero ritrovato in una situazione simile alla sua con gli amici dell'UNE a Rio. Non mi ero realmente confrontato con loro, come invece aveva dovuto fare lui, ma il mio atteggiamento reticente di fronte alle loro certezze politiche suscitava un'ironica sfiducia. Io ero uno di quei temperamenti artistici che i più saggi amavano definire "alienati". I miei rapporti con i compagni della sinistra erano affettuosi, ma il primo lungo articolo che firmai in vita mia – più lungo di qualsiasi recensione cinematografica avessi mai scritto prima – fu una violenta ed eloquente ramanzina contro il libro di José Ramos Tinhorão sulla musica popolare brasiliana. Si trattava di un saggio di sapore sociologico in cui la bossa nova veniva descritta, da un lato, come una sottomissione culturale al modello americano e, dall'altro, come un'appropriazione indebita della cultura popolare da parte della classe media. Era la difesa articolata dell'ideologia nazionalpopolare che permeava i giudizi della sinistra brasiliana. Scrissi l'articolo per una rivista universitaria, perché trovavo intollerabile che certe idee fossero accettate acriticamente dagli studenti più intelligenti. Io sapevo che la bossa nova era un'altra cosa – qualcosa di prezioso per tutti noi – e il mio testo si proponeva di essere un gesto dimostrativo: bisognava fare qualcosa di concreto per plasmare le menti e le coscienze. La politica nel suo specifico, sotto forma di campagne per la presidenza del collegio accademico, discussioni alle assemblee e opinioni precostituite su uomini pubblici i cui nomi e facce ricordavo a malapena, mi annoiava. E chiaro che le idee generali sulla necessità della giustizia sociale mi interessavano, ed ero entusiasta di appartenere a una generazione che sembrava avere l'opportunità di cambiare radicalmente l'ordine delle cose. Ma l'espressione "dittatura del proletariato" mi suonava male. Quando definirono la mia reazione "deviazione piccolo-borghese" credo che in una certa misura avessero ragione. Non era soltanto la parola "dittatura" che rifiutavo; neanche "proletariato" mi suonava particolarmente stimolante: i poveri che vedevo intorno a me mi sembravano dolorosamente disorganizzati e il "proletariato" di certi articoli e certi discorsi mi pareva formato da operai con il casco. L'operaio con il casco era una novità che a Santo Amaro, dove continuavo a passare le vacanze estive, era arrivata da poco, portata dalla Petrobrás 4 e i giovani si sentivano miracolati, pensando alla vita miserabile dalla quale li avevano salvati i salari della Petrobrás, che fra le altre cose permettevano loro di rifare le facciate delle case (distruggendo così, in poco tempo, gran parte del patrimonio architettonico del recôncavo). I pensieri e i sentimenti che provavo di fronte alla spersonalizzazione della mia città erano piuttosto ambivalenti: per un certo verso un po' mi mancava l'uniformità architettonica alla quale ero abituato, ma in fondo anch'io desideravo le case moderne con il parquet o addirittura sognavo di abitare in un appartamento nuovo e razionale per abbandonare quei villoni limacciosi in cui ero nato e cresciuto (mi sembrava che un appartamento dall'aria impersonale mi avrebbe reso più libero e allegro). Su certe questioni per me fondamentali, in verità mi sentivo molto meno piccolo borghese dei miei detrattori: loro non discutevano mai temi come il sesso o la razza, l'eleganza o il gusto. l'amore o la forma. Il mondo, loro, lo accettavano per quello che era. Gli uomini erano sostituiti dai salariati e, come ho già detto, quello del salariato era, tra i più poveri, uno status davvero invidiabile. Io, sinceramente, non pensavo che gli operai delle imprese edili di Salvador, o i pochi operai delle fabbriche o ancora i comparativamente più numerosi operai della Petrobrás – e tanto meno le masse operaie dei film e delle fotografie –, potessero o dovessero decidere del mio futuro. Perciò, quando il poeta di Terra in trance decretò la morte della fede nelle energie liberatorie del "popolo", io, in platea, vidi non la fine delle possibilità, ma l'annuncio di nuovi compiti per me.

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Note:

1) Grande e bel viale di Rio, ricavato dal rinterro di una parte della Baís da Guanabara, fiancheggiato da un parco progettato dal paesaggista Burle Marx.

2) Suggestico e panoramico quartiere d'archittetura coloniale situato su una collina nel centro di Rio.

3) Carlos Drummond de Andrade, tra i più grandi poeti brasiliani, modernista della seconda generazione.

4) Compagnia petrolifera statale brasiliana.






(Brano tratto dal saggio Verità tropicale, Feltrinelli, Milano, 2003. Traduzione di Monica Salles de Oliveira Paes, con supervisione di Giovanna Salvia.)


Caetano Veloso



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