LA FORZA DELL'AZIONE




La rivista Sagarana compie questo mese sette anni. Una pubblicazione interamente dedicata alla letteratura, nel suo settimo anniversario, deve essere in grado di dire anche cosa la letteratura non è, cosa non deve mai diventare. La letteratura non deve essere un'espressione artistica con scopi commerciali, sottomessa alle regole dell'"industria dell'intrattenimento", scritta su misura per i gusti del pubblico, invece di modellare e perfezionare quei gusti, com'è suo dovere. La letteratura non dev'essere uno strumento mistificante della realtà che sfrutta le lacune lasciate dall'ignoranza di parte dei lettori, avidi di risposte semplici, seppur false, alle domande complesse che li assillano. La letteratura non deve essere un prodotto accessorio e supplementare del suo autore e della sua immagine pubblica. Anche lui, o lei, in questo modo resi "prodotti" dell'industria del "divismo mediatico" che cerca attraverso il marketing di occupare illegittimamente lo spazio della cultura per fini economici, colonizzando gli spazi originalmente riservati all'arte e al pensiero originale. Infine, la letteratura non deve essere un pretesto per veicolare i "partiti presi ideologici" e non può fare propaganda politica attraverso "parabole" create a tavolino per confermare la pretesa solidità di questa o di quella tesi, e servire così alla manipolazione dell'opinione generale in favore di cause prescelte, pur legittime che siano.
Possiamo ora domandarci: cosa può fare lo scrittore per difendere la letteratura da queste insidie della modernità? Oppure, com'è possibile per lo scrittore - l'elemento più centrale, anche se il più vulnerabile, con minor potere contrattuale nella catena della produzione letteraria - non cedere a tutto ciò "che la letteratura non deve diventare" e sottrarsi ai condizionamenti, spesso impositivi, dell'industria editoriale e dei media, per poter realizzare la sua profonda vocazione e per essere in grado così di produrre testi di reale valore? La risposta non è semplice. Il cerchio attorno allo scrittore si chiude sempre di più e i suoi confini si restringono.
Innanzitutto, non deve illudersi: il sistema editoriale è al servizio dei valori del sistema generale e lo rappresenta fedelmente, scegliendo sempre e comunque prodotti intellettuali che non disturbino la logica prevalente, quella dell'economia neoliberale, della società di consumo e delle caste capitalistiche delle quali le grandi case editrici rappresentano uno dei pilastri più vitali. Povera letteratura però, quella che dovrà svilupparsi alla mercé di questo sistema e che dovrà confermare i suoi valori per poter essere ammessa, stampata, distribuita e diffusa. Sarà una letteratura addomesticata, ostaggio del sistema stesso che avrebbe dovuto invece sviscerare e denunciare.
Quanto alle piccole case editrici - una parte di queste ancora disposte a garantire il rispetto della qualità e dell'originalità dei testi che pubblicano, oltre che ad offrire libertà creativa ai suoi autori - sono state bandite dai banconi e dagli scaffali delle librerie italiane, e non solo, poiché purtroppo si tratta di un trend mondiale. Gli spazi delle librerie, soprattutto quelli delle grande catene librarie e dei supermercati, sono lottizzati tra le grandi case editrici, quelle di stampo esclusivamente commerciale, che li occupano in modo totale, con i titoli di più richiamo, proprio quelli promossi istericamente dai media o che trattano di argomenti modaioli di livello bassissimo. Al pubblico dei lettori è offerto soltanto il peggio dell'industria editoriale, opere create ad hoc per quel genere di marketing che servono soltanto a confermare gli stereotipi e i preconcetti più grossolani, opere che non sono altro che un intreccio di luoghi comuni e di banalità su carta patinata, opere infine che spacciano per letteratura una deprimente emissione dell'ovvio, smerciato come genialità. Non c'è più, in questo deserto, nessuno spazio per l'invenzione, né per la verità, né per l'ambiguità, né per la complessità e men che meno per la profondità, per quella indispensabile luce proiettata sulla vita per illuminare i suoi angoli ancora bui e sconosciuti, che è da sempre una prerogativa della letteratura. Qualsiasi testo che presenti oggi una di queste caratteristiche - tradizionalmente ritenute positive - sarà rifiutato senza indugio, considerato ingombrante, scomodo, sconveniente ai propositi venali dell'industria culturale.
Gli scrittori di oggi, divisi, isolati, sprovvisti di una vera comunità letteraria in cui riconoscersi e all'interno della quale scambiarsi esperienze e tracciare strategie future, si sono ulteriormente indeboliti di fronte alla potenza del profitto commerciale. Non possono più contare sugli strumenti che avevano nel Ventesimo secolo che gli consentivano in qualche modo di imporre un certo standard di qualità all'editoria, e la grande stagione degli editori colti e appassionati della letteratura nell'Italia del dopoguerra ne è un ottimo esempio. I funzionari delle case editrici di oggi, invece, non hanno più alcuna sensibilità specifica e non vanno oltre il pedissequo adattamento al "gusto del pubblico". I grandi editori - come ha illustrato con lucidità Grazia Cherchi, nel suo libro Scompartimento per lettori e taciturni - sono stati rimpiazzati da una classe di professionisti "rampanti" provenienti dalle scuole di economia e commercio, che non hanno mai avuto nessuna affinità con quella che un giorno è stata la generosa e saggia editoria italiana del Novecento, diretta da personaggi del calibro di Cesare Pavese, Italo Calvino, Giulio Einaudi, Valentino Bompiani, Elio Vittorini o la stessa Grazia Cherchi. Gli editori di oggi, con rarissime eccezioni, non sono altro che gestori contabili che abborriscono l'intelligenza umanistica e non sono in grado di capire o di apprezzare nessun discorso che trascenda i cliché che abbondano nei coseddetti best seller, stranieri o nostrani.
Gli scrittori di valore e di talento, che producono all'ombra del sistema e di cui la Sagarana ne è testimone, per poter liberarsi da questo giogo editoriale farebbero bene ad organizzarsi, a cercare di ripristinare la voce perduta, e soprattutto a creare spazi di pubblicazione e di diffusione al di fuori dei canali esistenti, inquinati dalle pressioni commerciali e in combutta con la peggior industria del libro. Probabilmente gli scrittori dovrebbero utilizzare meglio Internet e le loro possibilità, come ha fatto la stessa Sagarana in questi anni, raggiungendo con questo mezzo di comunicazione la media giornaliera attuale di tremila visite.
Tuttavia, si può fare ancora molto di più. Ho fresca nella memoria la mia partecipazione, nel 1977, a Rio de Janeiro, alla creazione del Sindacato degli Scrittori Brasiliani, insieme ad altri colleghi come Ana Maria Machado, Rubem Fonseca e José Louzeiro. L'anno successivo, insieme ad altri autori di São Paulo, tra cui Lygia Fagundes Telles e Paulo Emilio Salles Gomes, abbiamo scritto e portato a Brasília il Manifesto degli Intellettuali contro la Censura. Queste iniziative prese dagli stessi scrittori, senza l'appoggio di nessuna organizzazione, anzi, sotto la sorveglianza ostile dei servizi segreti del Governo, sono state decisive per mettere fine alla repressione censoria che ci era imposta ormai da più di un decennio dai militari, e ha spinto le case editrici più importanti del paese, che fino a quel momento si limitavano a pubblicare i best seller statunitensi e i libri di self-help - per non indisporre i militari - ad abbandonare in parte quelle pratiche e ritornare alla pubblicazione di autori nazionali, soprattutto quelli più bravi e originali, gli anticonformisti e critici del sistema. Alla fine, questo giro di boa nella politica editoriale brasiliana ha avuto come splendido sbocco il "boom letterario" degli anni '70, la più grande diffusione di opere di narrativa e di poesia che il Brasile abbia mai conosciuto nella sua storia.
Ma non era la prima volta. Già negli anni '50, grandi scrittori brasiliani come Carlos Drummond de Andrade, Fernando Sabino, Vinícius de Moraes e Rubem Braga, insoddisfatti della linea editoriale mediocre delle case editrici di allora, si sono associati per conto loro e hanno creato la Editora do Autor, di cui loro stessi erano i direttori. Questa è stata la responsabile di una rivoluzione non solo editoriale ma anche grafica nel panorama brasiliano. In quel periodo, tra gli anni '50 e '80, anche i più importanti scrittori argentini e messicani hanno intrapreso con successo iniziative di questo genere e lo dimostrano riviste come Marcha, Crisis, Ficção, Escrita o la casa editrice Siglo XXI.
Questo movimento di superamento e di promozione della migliore letteratura è scaturito da un'unione spontanea degli scrittori e dalla loro mobilitazione in favore dei propri interessi, opposti a quelli dell'industria editoriale. Il loro talento ha prevalso aiutato dallo scambio intellettuale e dalla "compattezza di categoria" che ne è derivata, nonostante le profonde differenze tra le loro scritture e anche tra le loro personali visione di mondo e affinità politiche: basti ricordare che tanto la rivista filocomunista argentina Crisis diretta da Eduardo Galeano, quanto la rivista anticomunista Plural, diretta dal messicano Octavio Paz, facevano parte di questo sforzo autonomo degli scrittori di allora.
Più che l'America Latina, l'Italia di oggi ha un urgente bisogno di iniziative di questo genere, perché patisce una censura ancora più insidiosa ed efficace della censura politica delle dittature militari, la censura del mercato, che non vieta esplicitamente i libri condannati (ciò che avrebbe almeno l'effetto collaterale benefico di attirare l'attenzione su di essi) ma elimina ogni spazio possibile, uccidendoli sul nascere, cancellandone preventivamente l'esistenza. Gli scrittori attivi e organizzati potrebbero diventare una forza viva e propositiva nella società italiana, un'istanza della società civile che potrebbe avere un potere d'ascolto sui media, potrebbe influire sulle scelte strategiche dell'industria editoriale come nella politica culturale del Governo nei suoi diversi livelli. Potrebbe influire senz'altro sull'improrogabile correzione dei sistemi inerenti i premi letterari che oggi in Italia sono interamente in mano ad un gruppo di grandi case editrici e nei quali il merito non conta più niente. Potrebbe anche stabilire canali diretti con il loro pubblico, per motivarlo, per chiarire cos'è la vera letteratura in mezzo alle acque intorbidite dai media e per mettere in rilievo le funzioni critiche e originali delle opere importanti. Per riaprire il gioco, insomma. Per difendere con rinnovato vigore una qualità letteraria che da molto tempo non è prioritaria nelle politiche editoriali e nelle pagine dei giornali.
Per chi scrive seriamente, ma anche per chi legge, studia e insegna, questa correzione di rotta è vitale. Sono convinto oggi, come lo ero in quel lontano 1977, che aspettare che quelli che detengono il potere ci rinuncino spontaneamente è ingenuo, inutile e logorante. Bisogna riunire le forze con le nostre mani, qui, oggi, e smettere di aspettare passivamente. Bisogna costruire ora, noi stessi, quello che altrimenti resterà incompiuto o mancante: una nuova grande letteratura italiana, ora in un contesto mondializzato.
C'è un momento per sperare e un momento per fare. Questo è il momento di fare, e se facciamo insieme è più probabile che riusciamo. È una vecchia storia. Qualcosa ne abbiamo imparato.

Julio Monteiro Martins  



              Copertina