STEINER
E L'EUROPA
Mario Vargas Llosa
È possibile
riassumere in un pugno d'istituzioni, di idee, di tradizioni e di costumi cos'è
l'Europa? George Steiner pensa di sì, e ha tentato questa sintesi in un
libro ingegnoso e provocatorio pubblicato qualche tempo fa dal Nexus Institute
di Amsterdam: The Idea of Europe. Secondo lui l'Europa è innanzitutto un
caffè pieno di gente e di parole, in cui si scrivono versi, si cospira,
si filosofeggia e si pratica la conversazione civile; un caffè che da Madrid
a Vienna, da San Pietroburgo a Parigi, da Berlino a Roma e da Praga a Lisbona
è inseparabile da tutte le grandi imprese culturali, artistiche e politiche
dell'Occidente, su tavolini di legno del quale, tra pareti ingiallite dal fumo,
sono nati tutti i grandi sistemi filosofici, gli esperimenti formali, le rivoluzioni
ideologiche e quelle estetiche. È vero che nell'Europa anglosassone
il caffè non esiste quasi, e che il pub e l'osteria mancano di fondamenta
intellettuali; sono luoghi in cui si va più a mangiare e a bere che non
a conversare, leggere o pensare, e pertanto questo denominatore comune si dirada
parecchio quando passiamo dall'Europa continentale e mediterranea all'Inghilterra,
all'Irlanda e ai paesi nordici. Il secondo marchio dell'identità europea,
invece, è condiviso da tutti i paesi europei senza sconti né eccezioni:
è il paesaggio camminabile, una geografia su misura dei piedi. Quel paesaggio
civilizzato è tale perché lì la natura non ha mai schiacciato
l'essere umano, si è sempre piegata alle sue necessità e attitudini,
senza mai ostacolarne o paralizzarne il progresso. Al posto dei deserti roventi
del Sahara, delle selve geroglifiche dell'Amazzonia, delle pianure ghiacciate
e sterili dell'Alaska, l'Europa ha sempre avuto un ambiente naturale amico dell'uomo,
che ha facilitato il sostentamento e favorito la comunicazione tra popoli e culture
diversi donandogli una sensibilità e un'immaginazione più acute.
Anche mentre gli europei si ammazzavano a vicenda per ragioni religiose o politiche,
il paesaggio non tendeva ad allontanarli, bensì li avvicinava. Il terzo
tratto condiviso è quello di chiamare strade e piazze col nome dei grandi
statisti, scienziati, artisti e scrittori del passato: cosa che, dice Steiner,
sarebbe inconcepibile in America, dove i grandi viali sono identificati da un
numero e le vie da una lettera dell'alfabeto, o tutt'al più dal nome di
una pianta o di un fiore. Solo in Europa, a Dublino per esempio, alle fermate
dell'autobus si informano i viaggiatori sulla vita dei poeti che hanno abitato
le case del quartiere. Tutto ciò, dice ancora Steiner, non è un
caso: si spiega con l'opprimente presenza del passato nella vita europea del presente,
mentre l'America preferisce guardare al futuro piuttosto che ai tempi andati.
In Europa l'essere vecchio e corroso dai secoli è un valore, qualcosa che
dà consistenza e bellezza, mentre in America non è che un disturbo
perché tutta la vita è proiettata in avanti. L'Europa è il
luogo della memoria; l'America, quello delle visioni e delle utopie futuriste. La
quarta credenziale condivisa dai popoli d'Europa, secondo l'autore di Linguaggio
e silenzio, è il fatto di discendere simultaneamente da Atene e da Gerusalemme;
vale a dire dalla ragione e dalla fede, dalla tradizione che ha umanizzato la
vita, reso possibile la convivenza sociale, portato alla democrazia e alla società
laica, e da quella che ha prodotto i mistici, la spiritualità e la santità,
ma anche la censura e il dogma, il fanatismo religioso, le crociate e le grandi
carneficine giustificate nel nome di Dio e della verità religiosa. Conflittuale
e sincretica, questa doppia tradizione ellenica ed ebraica (per Steiner, cristianesimo
e utopie socialiste sarebbero solo "note a piè di pagina" dell'ebraismo)
costituisce il substrato della grande tensione che, mentre precipitava l'Europa
in guerre e atrocità mostruose che devastavano il continente causando milioni
di morti, portava anche avanti la civilizzazione e cioè i concetti di tolleranza
e convivenza, i diritti umani, la sindacabilità dei governi, il rispetto
delle minoranze religiose, etniche o sessuali, la sovranità dell'individuo
e lo sviluppo economico. L'europeo è condannato dal peso di questa doppia
tradizione a vivere cercando incessantemente di sposare questi due rivali che
si contendono la sua esistenza e che fondano due modelli sociali contrapposti:
"la città di Socrate e quella di Isaia". Il quinto tratto
dell'identità europea è il più inquietante di tutti. L'Europa,
dice Steiner, ha sempre pensato di dover morire: che, dopo il raggiungimento di
un certo apogeo, sopraggiungerà la rovina e la fine. Già prima che
Valéry parlasse di "morte delle civiltà" e che Spengler
profetizzasse il "tramonto dell'Occidente" questa convinzione escatologica
impregnata di fatalismo si insinuava nelle filosofie e nelle religioni, e si riflette
nella teoria della storia di Hegel secondo cui il divenire storico continuerà
a progredire fino a raggiungere un vertice dopo il quale, prevedibilmente, non
ci sarà più nulla. Come respingere questa fatidica premonizione
che ha vagato per l'Europa durante tutta la sua parabola vitale, si domanda Steiner,
dopo ciò che è accaduto nel xx secolo? E ricorda che tra il 1914
e il 1945, da Madrid al Volga e dall'Artico alla Sicilia, circa cento milioni
di esseri umani - bambini, anziani, donne - sono morti di guerra, di carestia,
di deportazione, di pulizia etnica e delle "bestialità indescrivibili
di Auschwitz o del gulag". Ciò che era cominciato in modo quasi
giocoso, con la bella e brillante evocazione del ruolo svolto dai caffè
nella vita culturale e politica d'Europa, finisce dunque con la nota cupa e scontrosa
di chi, senza volerlo, riesce a vedere solo ombre e abissi nel futuro di una civiltà
che, come dice benissimo Rob Riemen, autore del prologo al libro, Steiner stesso
incarna meglio di chiunque altro. Nato in Francia da una famiglia ebrea di lingua
tedesca, formatosi negli Stati Uniti, docente a Ginevra e a Cambridge, lettore
vorace in tutte le lingue europee colte e cittadino parimenti disinvolto nel mondo
della filosofia come in quello della storia, della letteratura e delle belle arti,
poche figure contemporanee incarnano meglio di lui il prototipo dell'umanista
europeo moderno nella grande tradizione di Erasmo, Voltaire, Goethe e Montaigne.
Con tali antecedenti, le pagine finali della sua "idea d'Europa" non
si possono leggere senza un brivido. Steiner è tormentato dal sopravvivere
anche ai giorni nostri di ciò che chiama l'incubo della storia europea:
l'odio etnico, lo sciovinismo nazionalista, i regionalismi sfrenati e la resurrezione,
a volte dissimulata, a volte esplicita dell'antisemitismo. Ma anche, e forse soprattutto,
dall'omologazione culturale verso il basso derivante dallaglobalizzazione che,
a suo giudizio, sta cancellando la grande varietà linguistica e culturale
che era il patrimonio migliore del vecchio continente. La frase più dura
di tutto il libro è una protesta contro la banalità e volgarità
dei prodotti culturali di consumo: "Non è la censura politica che
uccide [la cultura]: sono il dispotismo del mercato di massa, le ricompense di
una fama commercializzata". Ma a questo punto io non lo seguo più:
e me ne dispiace, perché anche se il professor Steiner a volte mi irrita,
pochi saggisti moderni sanno stimolarmi e sedurmi come lui. Tanto pessimismo mi
sembra ingiustificato. Pur con tutti i difetti che si trascina dietro l'Europa
è, nel mondo odierno, l'unico grande progetto internazionalista e democratico
ancora in cammino e che, pur con tutte le deficienze che si possono segnalare,
continua ad avanzare. Quello che era cominciato come un mercato comune del carbone
e dell'acciaio tra una manciata di paesi oggi è una lega di 25 nazioni
che stanno sopprimendo le barriere tra di loro e che, oltre a integrare progressivamente
i mercati, cercano anche di armonizzare le proprie istituzioni e di darsi obiettivi
politici comuni nel segno della cultura democratica. Questo bel progetto ha dei
nemici, è ovvio, ma che per ora sono in minoranza e non possono frenarlo
e men che meno affossarlo. E non soltanto per gli europei è importante
che l'Unione Europea si consolidi e progredisca. Il mondo sarà più
equilibrato se una grande comunità europea farà da contrappeso all'unica
superpotenza rimasta sulla scena dopo la disintegrazione dell'impero sovietico.
Contrappeso significa concorrenza, dialogo, amichevole tensione forse, e non ostilità. E
non mi convince nemmeno il lugubre epitaffio di Steiner sul tema della cultura,
nonostante anch'io, come lui, sia rattristato dall'incredibile spreco costituito
dal consumo di massa di prodotti pseudoculturali che si nota in Europa (come nel
resto del mondo). Ma non credo sia questa la cosa più importante, bensì
l'altra faccia della medaglia, e cioè il notevole incremento nel numero
dei consumatori di prodotti culturali genuini che caratterizza la società
moderna, e soprattutto in Europa. Quando mai nella storia ci sono stati tanti
lettori di narrativa di qualità come oggi? Per limitarci all'Europa anglosassone,
mai Joyce, T.S. Eliot o Virginia Woolf hanno avuto così tanti lettori,
le opere di Shakespeare così tanti spettatori, o i musei hanno visto le
folle gigantesche che ai giorni nostri si recano alla Royal Academy per vedere
i quadri di Tamara de Lempicka, o che vanno alla Tate Modern per deprimersi davanti
all'America congelata delle tele di Edward Hopper. L'alta cultura è sempre
stata patrimonio di piccole minoranze. Che sono tali anche oggi, ma che grazie
allo sviluppo e all'internazionalizzazione sono cresciute in misura straordinaria.
Non credo si possa sperare di più. Immaginare che un giorno il numero dei
lettori di Mallarmé potrà eguagliare quello dei tifosi di calcio
è un'ingenuità. L'arte di Mallarmé, come tutto ciò
che le somiglia, non può arrivare a tutti gli abitanti della polis senza
snaturarsi. Quella cultura che George Steiner ama e conosce meglio di chiunque
altro sarà sempre minoritaria.
(Introduzione al saggio Una certa idea di Europa, di George Steiner, Garzanti,
Milano, 2006.)
Mario Vargas Llosa, scrittore peruviano nato ad Arequipa (Peru) nel 1936,
è considerato uno dei migliori narratori contemporanei dell'America Latina.
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