DALL'ATLANTICO AI MONTI URALI 1


Maria Velho da Costa

 



Ad Afonso Lopo, mio nipote


Myra attraversò i binari divelti in direzione del mare.
Crescevano erba e sterpaglia e rami di salice piangente marcivano nei giunti e sulle travi e le longherine erano nere per le mareggiate sporche di petrolio. Correva contro il vento, cercando di scansare il pietrisco affilato e i cocci di vetro, saltando in alto per ingannare il freddo e la sua pena.
Il cielo era basso e molto scuro. C'erano strisce verdi e viola nella lontananza più chiara dell'orizzonte, e sembravano, cielo e mare, un'unica onda che si sollevava ad inghiottire la terra. Myra si tolse le scarpe e i calzini bucati e rimase immobile a guardare quella meraviglia.
Se cominciasse a correre là in mezzo nessuno la troverebbe più, né in questo paese qui, né in nessun altro.
Si soffiò il naso all'orlo della gonna e pulì il resto della faccia alla manica del golfino bucato che la mamma le faceva portare in casa e che diceva che veniva da là. A Myra venne in mente la neve sopra i tetti di oro e porcellana. E i blinis che in questa terra non avevano nome. All'inizio niente aveva nome. E la nonna, con lei per mano davanti alle porte delle chiese, l'odore di mille candele, ora facendo sì che stendesse la mano, ora che la nascondesse. Quanta paura.
Per non finire subito il pane rubato, Myra corse giù per la spiaggia con le braccia aperte, una scarpa in ogni mano, in direzione dello stormo di gabbiani posati sulla schiuma gialla e crepitante. Lanciarono grida a non finire e svolazzarono irati sopra la sua testa, ma non la attaccarono. La madre le aveva detto che una volta, là, in un lago, avevano beccato a morte una strega, i gabbiani. Era una bugia per spaventarla o era vero là, in quella terra? Altri mari, altre arie. Lo scialle nero che la nonna le aveva ripiegato sulla fronte le aveva pizzicato gli occhi durante tutto il viaggio. Quanti pochi ricordi.
Cominciò a piovere, prima dei goccioloni, poi fili fini e serrati. Tutto brillava a perdita d'occhio sulla spiaggia deserta. Era come un vapore di luce che s'alzava ruggendo da quel corpo di acqua. Myra cominciò a diventare cieca per tutta quella pioggia che le sbatteva i folti capelli fini sulla faccia e poi le colava giù per il collo. Era come un pianto senza grida. Corse verso il capannone dove aveva giocato a nascondino in quella prima estate in cui ancora parlava soltanto la lingua dei giochi con gli occhi, i gesti le risa. Corse in fretta, salterellando tra detriti, alghe morte sdrucciolevoli, bava di spuma gialla che si rifrangeva nella pioggia.
Era buio pesto e l'acqua picchiava con una forza assordante sui pannelli di zinco del soffitto. Myra spinse a fatica il chiavistello arrugginito. Le dolevano mani e braccia dal tanto proteggersi la testa dall'ultima scarica di botte. Rimase al buio fin quando gli occhi si abituarono alle lame di luce tra le fessure delle travi. C'era odore di salamoia e di urina, di stantio, di pesce andato a male, cordame e nafta. Alle pareti c'erano appoggiati all'insù, ingarbugliati, i pali dei capanni, della tela sbiadita, reti con boe di vetro, bidoni neri, lattine, contenitori di plastica sventrati, rifiuti della spiaggia e del mare. Il pavimento si appiccicava ai piedi, una sabbia immonda e umida. Con il mondo che le si abbatteva sopra la testa, Myra si sedette su una nassa di corda che le pizzicava le natiche e iniziò a piangere dallo sgomento; ancora una volta era fuggita lontano, non sarebbe mai arrivata a casa in tempo per asciugarsi, prima del loro rientro, a notte fonda, sfiniti e sporchi. Le avrebbe prese di nuovo, per la loro stanchezza e per la loro paura. Non serviva a niente che fosse la più brava a scuola, doveva essere la più brava del mondo. O forse voleva tornare laggiù, al freddo, alla miseria di andare nascosta con la nonna a chiedere l'elemosina in mezzo a quelle strade sbattute dal vento. Sì, era quello che voleva, lingua lunga, e gliele davano ancora, esasperati, ammalati di fatica, tanti nella stessa stanza fino a dormire.

L'abbaiare ululante, grave e roco di un grosso cane fu la prima cosa che l'allarmò. Poi ormai vicinissime grida, urla e risate portate dal vento e schiarite tra gli scrosci d'acqua e l'infrangersi delle onde. Myra si nascose dietro un bidone, la faccia gonfia contro il catrame, gli occhi spalancati di nuovo terrore, respirando il meno possibile, il cuore che le batteva dappertutto.
Due ragazzi alti entrarono rumorosamente, trascinando ad una catena un cane scuro. Con la coda dell'occhio Myra vide il cane scrollarsi a fatica. Il pelo sprizzava acqua e sangue. Poi si gettò a terra e lì rimase. Lo spinsero in un angolo facendo attenzione e incoraggiandolo, legarono la catena e lo coprirono con una coperta scossa dall'acqua. Uno era di colore, più basso e tarchiato di costituzione, l'altro aveva i capelli biondi con la sfumatura alta. Erano ben vestiti, con scarponi militari e giacconi neri. Rimasero a guardare il cane, che ansimava. Il negro disse che era una seccatura se ci rimaneva e l'altro disse col cavolo ci rimaneva, erano cani di ferro, nati per quello e per sopportare legnate. E che si sbrigassero se volevano ancora trovarci il materiale, là. Dopo avrebbero portato due stronzate per medicare il cane. Quello vedrai, guarisce che è una meraviglia. Ridendo, si batté sul petto e disse che quello non glielo levava nessuno. E poi il negro parlò al cane e gli disse che era un gran cane, il meglio sulla piazza, e il bianco rise ricordando l'altro cane che cercava di sfuggire alla morte, ai calci del padrone. Ora c'era da far benzina, tornare a prendere il cane e via, per il ponte. Domani potevano già essere in Olanda. Fermo Rambo, tu resti qui. Il cane sollevò la testa, fiutò l'aria e tornò a sdraiarsi. Myra si ritrasse ancora di più. Sbatterono rozzamente la porta sgangherata e se ne andarono. In lontananza ancora sbraitavano, ridevano, veloci, in lontananza, correvano.
La pioggia rallentò. Ora era uno sgocciolio su coperchi, fondi di bacinelle e latte di zinco. Myra uscì dal nascondiglio strisciando, lentamente. Il cane non era enorme, ma era grosso. Aveva il petto ampio e robusto, il pelo corto e chiazzato di nero e fulvo. Gli occhi erano di un nero vivo, piccoli, quasi ai lati della testa larga e camusa. Smise di leccarsi e restò a fissarla, quieto e inquieto nelle narici lucide. Myra, da tanti anni lontana dalla sua terra, riconobbe subito che tipo di cane era: erano i cani che portavano e riportavano pacchi pesanti, i cani da lotta, i cani che ammazzano i cani, il peggior cane del mondo. Il più valoroso, che moriva mordendo. Forte e tarchiato di nobile malvagità.
Myra continuò ad avvicinarsi a gattoni. L'animale, senza rumore, senza dar segno di alzarsi, le mostrò i denti. Myra, rispettosa, interruppe il legame intenso di quello sguardo e si accoccolò, le braccia tra le gambe, lontana dalla catena. La bestia appoggiò la testa tra le zampe, abbassò le orecchie corte, una tutta sfracellata, chiuse la bocca, una piaga aperta dall'orecchio fino all'angolo delle fauci. Restarono così. Il cane chiuse gli occhi ma ansimava.

La luce che filtrava stava affievolendosi. Nella mezza penombra Myra si lasciò andare, la pancia si lamentò, svuotandosi dall'angoscia. Il cane tornò a guardarla e guaì, un guaito di cucciolo, un gemito. La scapola gli sanguinava ancora per un'altra ferita che brillava nell'oscurità, un coagulo nero che scorreva piano fino alla punta della coperta. Myra, senza avvicinarsi gli dette il nome con il quale lo aveva sentito chiamare e cominciò a parlargli, piano, nella sua lingua materna. Povero, poverino Rambo, povero te. Mio infelice, mio tsarevitch. Che cosa ti hanno fatto i malvagi della terra, povero il mio Rambo. L'animale senza muoversi abbozzò un movimento con la coda. Smise di fissarla e cominciò a leccarsi. Con mille lente attenzioni, Myra tirò fuori dalla tasca della gonna il pane con il wurstel che aveva rubato dalla casa comune e lo mise sopra la coperta, proprio vicino al naso del cane. Prendi, mangia cane, poi ne troveremo ancora, vedrai. Il cane girò la testa di lato per addentare dal labbro intatto, sollevò il tronco e cominciò a mangiare. Myra si alzò e andò a prendere un coperchio di latta con l'acqua piovana.
Fu allora che Myra pensò di essersela fatta sotto per la paura. Aveva le gambe appiccicose, bagnate all'interno. Si toccò e vide dalla macchia scura sulle dita che era sangue vivo. Doveva essere proprio oggi la prima volta Rambo, disse al cane senza paura. Sangue chiama sangue.
Myra posò l'acqua davanti al cane. Ansimando come un bue sacrificale si alzò e la lasciò avvicinare. Bevve, la coda dichiaratamente grata. Una coda che cominciava a saper sorridere. Poi iniziò a leccarle uno dei piedi nudi, la caviglia sudicia, il sangue secco colato. Myra gli appoggiò la mano sull'ampia collottola, con dolcezza e determinazione. Ci hanno fatti l'uno per l'altra, Rambo. Astuzia e forza, astuzia e forza. Io dico che ti ho trovato per strada, sei molto pregiato. Ora dobbiamo fuggire prima che loro ritornino, un posto lo troviamo, vedrai. Alla malvagità non c'è mai fine.
Si pulì con le mutande e l'acqua della pioggia, che poi strizzò sulle ferite del cane, del tutto remissivo. E iniziò a cantare la canzone del cammino per Zagorsk, quella delle sette basiliche, dove era andata con la nonna a bere l'acqua santa, per rendere grazie al miracolo che le avrebbe separate,

Andiam per valli
andiam per venti
andiam per mari
andiam tra' ghiacci
andiamo fin dentro l'uovo,
sul dorso della carpa
fino al regno dei cieli.

Svelta, sciolse la catena del cane e aprì con entrambe le mani, la porta cigolante che dava sull'oscurità e sul mugghiare del mare basso, che era nero, bordato di bianco. Non pioveva, c'era il chiaro di luna, in lontananza si vedevano le luci della città di Caparica, la città nuova.
Andiamo Rambo, prima che loro ritornino, ripeté Myra in un portoghese da manuale.
Andiamo fratellino, in russo.



Nota
1 Una versione precedente di questo racconto, intitolata "Um amor de Cão" [Un amore di Cane] era uscita nel numero tematico sull'amore della rivista Egoísta; e in un secondo momento nel numero tematico, dedicato agli animali, della rivista Ficções.


(Traduzione dal Portoghese di Paola Pallini.)


Maria Velho da Costa, uno dei nomi più importanti della letteratura portoghese, è nata a Lisbona il 28 giugno 1938. Si è laureata in Filologia Germanica, poi ha frequentato il Corso del Gruppo Analisi della Società Portoghese di Neurologia e Psichiatria. Giornalista e ricercatrice, è stata lettrice di portoghese al King's College di Londra, ha lavorato presso l'Istituto Camões e come Addetto Culturale alle dipendenze degli Ministero Affari Esteri, è stata inoltre Presidente dell'Associazione Portoghese degli Scrittori dal 1973 al 1978. Maria Velho da Costa è anche drammaturga (Madame; 2000), traduttrice teatrale e sceneggiatrice, infatti ha collaborato con alcuni dei più importanti registi portoghesi come João César Monteiro, Alberto Seixas Santos e Margarida Gil, per i quali e con i quali ha adattato o scritto i dialoghi di molti film. Nel 2002, ha ricevuto il Premio Camões, il più importante riconoscimento attribuito agli scrittori dei Paesi di Lingua Portoghese. L'opera di questa scrittrice è poco tradotta all'estero nonostante alcuni dei suoi romanzi siano riconosciuti tra i più importanti del panorama portoghese contemporaneo. Di seguito ne ricordiamo alcuni: Maina Mendes (1969); As novas cartas portuguesas (1972)- con Maria Isabel Barreno e Maria Teresa Horta - Casas pardas (1977); Missa in albis e Irene ou o contrato social (2000). In Italiano: Le nuove Lettere portoghesi, (1977); "Donne nella rivoluzione", in: Il Ponte - rivista letteraria, (1979); "Rivoluzione e Donne" in Gli abbracci feriti. Poetesse portoghesi di oggi, (1980); ); "La dama della boscaglia e il suo cane Confetua", in Antologia della letteratura portoghese (1999); e "Fatima" in L'anima navigante (2006).


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