TRA MORTI E FERITI


Ana de Celorico






-Ciao!- disse quando rispose al telefono. Era allegra, bastava il "ciao" per capirlo.
Era quasi allegra. Che bello, -pensai- era già da un bel po'.
-Tutto bene?- domandai.
-Si, si- e rise lievemente, come un colpo di tosse. Fece una pausa.
-Dimmi.- E pensavo al perché mi avesse telefonato, a metà mattina, orario strano pure per lei, che aveva passato anni a telefonarmi, quasi mai prima di pranzo.
-Boh.- Avevo voglia di chiamarti. Era già un po' che non ti chiamavo di mattina.
-è vero, molto tempo. Ci stavo pensando proprio ora. Anni?
-Me lo sentivo che stavi pensando proprio a questo. Buffo, no? Pensa un pò come ci conosciamo…
-è vero. Ti conosco talmente tanto che mi sa che hai qualche problema che non mi vuoi dire, Nora.-ci pensai un po'- Ma allo stesso tempo, vorrei sbagliarmi, non voglio che tu abbia problemi.
-Eh si, questa è amicizia. Lo so com'è. Proverei la stessa cosa, se non fossi tanto confusa.- disse lei.
Un'altra pausa. Chi parla ora sono io:
-Dai, Nora, che c'è?
-Niente, te l'ho già detto.- e mi impressionò come la sua voce era cambiata, la tristezza dietro le sue parole.
-Stò bene- menti- Ti ho chiamato solo per dirti che ho visto, dalla finestra del salotto, una bambina che stava leggendo un mio libro, dentro una macchina ferma al semaforo.
-Che bello!- ressi il gioco- E che libro era?
-Non lo so- e si fermò di nuovo. Quando proseguì, la voce tremava, quasi piangeva. -Non l'ho ancora scritto.
Mi si gelò il sangue nelle vene. Oh Dio no, di nuovo no!
-Cos'è che hai detto , Nora?- speravo di aver capito male come se lei avesse detto un'altra cosa, qualsiasi cosa che si assomigliasse a ciò che avevo sentito. Lei in silenzio, io la sentivo respirare.
-Nora?
-Non sto bene, caro. Lo so che non stò bene.- disse lei, calma, molto calma, senza nessuna tristezza.
-Nora, dove sei?
-A casa, non te l'ho già detto?
-Si, lo so, ma a casa dove? In salotto?
-Si, in salotto, te l'ho già detto. In mezzo alla stanza.
-Nora, non uscire assolutamente da lì, sto arrivando. Fa ciò che ti dico, per favore.
-scandivo ogni sillaba come se volessi che lei memorizzasse il procedimento. -Sono già lì.
-Un bacio, amico mio. -e lei mi lascio in compagnia del segnale di occupato. Freddo. E pulsante.
Nel tragitto fino a casa di Nora, in taxi, urlai all'autista che andasse più veloce, i ricordi di Nora dietro le sbarre e corridoi catene sirene grida che rimbombano tra le pareti di cemento, lei che era trascurata un'altra volta, buttata in terra, il tonfo di un sacco di carne, Nora, sbattuta sul pavimento, il dolore e l'abbandono che le avevano strappato via la luce dagli occhi, il bianco della pelle, la testa rasata al posto delle dita fra i capelli lunghi, scesi dal taxi e feci due ultimi isolati correndo tra macchine e marciapiedi affollati scontrando inciampando, le urla nella cella, alti ululati, perché noi sentissimo la donna coperto di bruciature e cicatrice che incontrai nel cortile in una giornata di sole, unghie spezzate dal graffiare pavimenti e pareti, le nocchie coperte di croste, un odore acre quanto il mio, il sorriso pieno di lacrime che lasciò vedere che le mancava un dente, salii le scale e il terrore che sentii nel vedere la porta dell'appartamento aperta per metà, due dita di porta aperta, fessura per dove è entrata la mia paura, e da dove era uscito l'amor-proprio di Nora.
La trovai in bagno, caduta, la testa a lato della tazza, tutto intorno sporco di un vomito rosastro che puzzava di macelleria e varichina. Una bottiglia bianca per terra. Al sole, sul davanzale della finestra, la lattina di soda caustica aperta, un cucchiaio infilato nella polvere bianca. Morbida tiepida, quasi bella. Morta.
Andai in salotto. Attraversai il fascio di luce che entrava dalla finestra e proiettava il giallo mostarda del tappeto in tutta la stanza. Mi sedetti sulla poltrona, quella poltrona dove le avevo detto di sedersi e aspettarmi, quella poltrona di velluto color vinaccia, quella poltrona che lei mi disse un giorno, in cella, che avrebbe dato di tutto per poterci stare seduta dieci minuti. Avrebbe dato tutto per posare la faccia su quella sorta di tappetino che aveva messo dove appoggiava la testa. Avrebbe dato tutto per quei dieci minuti in poltrona.
Presi il telefono, ancora profumato della sua ultima chiamata, e chiamai la polizia, sentendo il buon odore. Posai la testa sul tappetino, guardai il soffitto, chiusi gli occhi, e finii di leggere l'ultimo libro di Nora, mentre ascoltavo le sirene che si avvicinavano.

 


Traduzione di Julio Monteiro Monteiro Martins, insieme ai suoi allievi dell'Università di Pisa:
Silvia Mencarelli, Simona Bruno, Claudia Sgadò, Laura Marletti, Maria Teresa Marè, Nunzia De Palma, Viola Fiorentino e Sara Bresciani.



Ana de Celorico è portoghese. Ha due occhi verdi, due figli e due cani, ma non sa attraverso chi di loro deve vedere il mondo. È dipendente dalla caffeina, e soffre di lancinanti dolori di testa. Tratta i suoi non-affetti con la pistola. O con sguardi gelati. Chi è stato del suo sguardo dopo ha detto che, se avesse avuto la possibilità di scegliere avrebbe preferito un colpo. Non le piace il sesso né la poesia



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