Nella
città del pane e dei postini
( - un capitolo del
romanzo - )
Giorgio Messori
Appena arrivato qui, la prima volta che sono sbarcato dall'aeroporto mi è sembrato di entrare in una grotta. In fondo alla grotta dei controlli doganali c'era una città in penombra, e da lì al mio primo alloggio ho attraversato il tunnel di un cielo nero e palazzoni addormentati. Perciò mi sono ritrovato fra le pareti di una casa estranea come se non fossi mai uscito dall'aereo, come se per un inspiegabile incidente fossi scivolato da un'uscita laterale verso un luogo imprevisto, di cui non sapevo niente.
Fin dall'inizio stare qua non è stato propriamente abitare una città, ma trovarmi in una Zona, come veniva chiamato in un film di Tarkovskij un territorio d'incertezze e desideri. Che è quel che si definisce anche un terreno vago, uno spazio che si può popolare di fantasmi perché non presenta alcun volto riconoscibile. Qualcosa di simile capita in quei posti raggiunti nella pausa di un sogno, quando magari si è scampati a un pericolo per approdare a un luogo in cui non succede niente, stupiti di quella calma improvvisa.
Non so come sarà la mia vita dopo che Andrej avrà finito i lavori della casa. Adesso anche per andare a pisciare devo attraversare una passerella appoggiata sulla colata di cemento dove faranno il parquet, e quest'incertezza dell'equilibrio, specie se ho bevuto troppo, è la ripetizione di una piccola conquista di territorio ogni volta che mi alzo dalla sedia. Una gran comodità per i miei viaggi immobili che non vogliono diventare sedentari.
Forse non riesco a spiegarmi, ma qui posso anche ascoltare vecchie canzoni senza per questo intristirmi, annoiarmi. In un certo senso sono uscito pure dalla mia biografia; neppure se chiudessi gli occhi potrei immaginarmi dove avrei previsto di essere se non fossi qui. Ciononostante mi è difficile, pressoché impossibile dire dove sono.
E intanto l'autunno avanza, pioggia e buio anche di giorno, e di notte quasi non ho chiuso occhio per il frastuono di un grillo nascosto da qualche parte, credo sotto la lavatrice che gli faceva da cassa armonica. Nell'altra casa erano invece le lumache sui tappeti, gli scarabei che venivano a morire sotto le finestre. Anche lì non tanto mosche e zanzare, scarafaggi, com'ero abituato nell'appartamento abitato negli ultimi anni, all'ottavo piano di un altro mondo.
Dunque una cesura, come si dice, uno stacco che è pure della gente che ha sempre vissuto qua, come Ljuda con la sua infanzia in uno stato che non c'è più e il ricordo di una città attraversata dai postini, ora praticamente scomparsi, con la cassetta della posta che si riempiva di riviste in abbonamento per accontentare tutti: c'erano i giornaletti per lei, la rivista di pittura per il nonno, quella di taglio e cucito dove la mamma ricopiava i modelli per le sue clienti. Era insomma un mondo chiuso eppure arioso, certo con meno preoccupazioni.
Ora per chi vive qua si sono aperte, almeno teoricamente, nuove possibilità che spesso si traducono in affanni. E allora si fa quel che si può, e per avere le uova si riempiono i cortili di galline, per il latte ci sono le caprette, e la campagna invade la città cambiandole i connotati, un'inversione di rotta nel cosidetto progresso. Perché qui non siamo a New York, esistono da tempo gli orti di guerra, e perciò anche la guerra non può far così paura.
Intendiamoci, questa tendenza non deve spaventare più di tanto perché questo paese, diceva un giornale, l'anno scorso è stato anche il paese che ha piantato più alberi subito dopo il Canada, anche in rapporto al suo territorio. Dunque, anche a stare in città, l'inverno non conosce certo splendori natalizi ma il volto austero degli alberi spogli e allora, giustamente, pure l'anno nuovo non arriva a capodanno ma all'inizio della primavera, nell'antica festa di Navruz quando si ammazzavano e ancora si ammazzano i capretti, e il grano comincia a germogliare dalla terra. E' una festa sentita da tutti, con balli e canti in ogni angolo del paese e infiniti banchetti famigliari.
Se invece ripenso a solo pochi mesi fa, quando ho voluto celebrare a Bukhara quello che pomposamente veniva chiamato l'inizio di un nuovo millennio, ho il ricordo di una ricorrenza che si doveva fare senza che però fosse realmente sentita da nessuno. Eravamo stati a mangiare, io e Ljuda e altri amici, a un nuovo ristorante aperto ai vecchi bagni pubblici, poi siamo voluti andare a vedere quello che era annunciato come il primo carnevale della città, una trovata per attirare i pochi turisti che c'erano e che potevano sentire nostalgia di veglioni e tappi di champagne che saltano.
Per raggiungere questo carnevale siamo usciti dalla città guidati dall'eco di musiche festose. La festa era in uno spiazzo asfaltato di periferia illuminato da qualche lampione, ma la vera sorpresa è stata scoprire che il primo carnevale della città si erano vestiti tutti da babbo natale, così lo spiazzo era invaso da tanti babbi natale con barba e cappuccio rosso che saltellavano al ritmo delle canzoni più in voga. E vedere così tanti babbi natale saltellanti, sullo sfondo di cupole azzurre e minareti, subito sortiva un effetto comico che però col tempo diventava sgradevole, per la sensazione d'essere entrati in un film sbagliato. Così la bottiglia di spumante ce la siamo presi a un banchetto della festa, ma l'abbiamo poi stappata sul taxi che ci riportava in albergo, a cavallo della mezzanotte.
Storie, certo, aneddoti divertenti. Ad essere più onesti bisognerebbe forse raccontare del bambino dei vicini che aveva ingoiato l'acido ed è stato rifiutato da un paio d'ospedali perché la madre, agitata e confusa, prima d'uscire di casa s'era scordata di prendersi dietro dei soldi e allora si sentiva rispondere che lì non avevano i mezzi per soccorrere il figlio e che perciò era meglio rivolgersi altrove. Perché al pronto soccorso, mi spiegava Andrej, i soldi non li chiedono mai, però se non glieli dai non hanno neppure la garza per fasciarti un dito. A lui era successo proprio così, quando s'era tagliato con la sega elettrica, e si è salvato il dito solo perché un'infermiera misericordiosa gli aveva indicato una donna dirimpetto all'ospedale, una che in casa aveva tutte le garze e le tinture che voleva. Bastava andare lì a comprarle e poi tornare a farsi medicare.
Fortuna il bambino dei vicini non aveva buttato giù l'acido, così gli si è bruciata solo la bocca ma niente gola e stomaco, come gli hanno diagnosticato al terzo ospedale dove il padre, avvertito da una telefonata, si era precipitato con un po' di soldi in tasca. Perché anche alla Città del Pane, inutile nasconderselo, da tempo hanno già cominciato a squillare le trombe dei mercanti ad annunciare nuove apocalissi. Non c'è bisogno di varcare una nuova frontiera per incontrare la guerra, basta aver bisogno di un ospedale dove capitano cose, mi assicurava Ljuda, che non sarebbero mai successe nella città dei postini che ricordava lei da piccola.
E' chiaro che anche a me, ogni tanto, capita di uscire dalla mia Zona per fare incursioni nella città vera e propria. Può capitare quando vado a lavorare, quando entro in un ufficio pubblico, dove piccole o grandi strategie di guerra si inscenano ogni giorno.
Non c'è niente da fare: anche qui, come altrove, è inevitabile crearsi una zona di protezione in cui rifugiarsi, e a questa zona dare magari il nome di realtà. Ma in effetti è solo di questa realtà che m'interessa parlare, perché è lì che voglio vivere. Non mi è mai interessato fare il corrispondente di alcuna guerra, anche se la guerra fosse la realtà più evidente. E chissà, forse la Città del Pane o la Città dei Postini non sono neppure mai esistite, però riuscire a raccontarle, immaginarle, è l'unica strada che conosco per scongiurare le apocalissi già raccontate dai giornali e la tivù.
(Capitolo tratto dal romanzo Nella città del pane e dei postini, Diabasis, Reggio Emilia 2005.)
Giorgio Messori è nato a Castellarano (Reggio Emilia) nel 1955. Ha pubblicato racconti nelle raccolte L'ultimo buco nell'acqua (Aelia Laelia 1983) e Narratori delle riserve (Feltrinelli 1992), e nelle riviste "Il semplice" (Feltrinelli) e "Riga" (Marcos y Marcos). Ha tradotto il libro di Peter Bichsel Il lettore, il narrare (Marcos y Marcos 1989) e pubblicato saggi sulla letteratura e sull'arte, fra cui Atelier Moranti (Palomar 1992), realizzato insieme al fotografo Luigi Ghirri.
Attualmente vive a Tashkent (Uzbekistan), nella cui università insegna.
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