I processi pubblici
Georg
H. Hodos
Introduzione
Il partito è un cadavere, pensava Rubašov, non può respirare né muoversi, solo le sue unghie continuano a crescere. "È andato tutto in malora", disse all'inizio del suo interrogatorio al colonnello Ivanov della NKWD, "gli uomini, le conquiste, le speranze. Sapevamo dell'umanità piú di quanto l'uomo avesse mai saputo prima, per questo ci è riuscita la piú grande rivoluzione. E ora voi avete mandato tutto in malora." (Koestler, A.: Sonnenfinsternis, Frankfurt am Main, 1979, pp. 75)
Rubašov, la personificazione letteraria della vittima delle purghe staliniane, era già ben prima del suo arresto un individuo segnato, disilluso. La sua rivoluzione era stata tradita dal Nr. 1, da Stalin, trasformata in uno strumento di potere privo di principi. Per il suo tragico eroe Koestler si ispirò a Bucharin, con gli occhiali a molla di Trockij sul naso, ma Rubašov rappresenta un po' tutta la vecchia guardia dei Bolscevichi, i compagni di lotta di Lenin. Tutti costoro esperirono in prima persona la perversione dei loro ideali, e una volta relegati all'opposizione dovettero assistere senza muovere un dito al loro graduale, sistematico e impietoso allontanamento dal potere, mentre la gloria e i meriti di partito venivano gettati nel fango, perché d'ostacolo all'anelito d'onnipotenza di Stalin. Il dittatore aveva strumentalizzato la destra contro la sinistra, per poi cambiare fronte e aizzare il centro contro entrambi. Infine annientò tutti nei processi pubblici durante il Grande Terrore degli anni Trenta.
Dopo la guerra, quindici anni piú tardi, un nuovo gruppo divenne oggetto di persecuzione: la giovane guardia dei comunisti dell'Europa Orientale. Costoro non erano oppositori, bensí fedeli allievi di Stalin all'apice del potere appena conquistato, allorché vennero scelti dal loro maestro per recitare la parte dei traditori. Rajk, Slánský, Gomulka e compagni non erano simili a Rubašov, perché fedeli alla linea dettata da Mosca alla stessa maniera dei loro carnefici. Questa differenza si riflette anche nei metodi degli interrogatori e nei modi con cui vennero strappate molte confessioni. Quando Rubašov venne condotto all'interrogatorio, ad attenderlo con un sorriso sulle labbra c'era il suo vecchio amico Ivanov: "Consentimi", disse Rubašov "di riprendermi dalla sorpresa". "Siediti", disse Ivanov con un gesto d'invito. (pp. 21)
Rubašov apprese a riconoscere la sua colpa: "Mi dichiaro colpevole" confessò alla fine "di non aver saputo riconoscere gli obblighi fatali della politica di governo, e di aver perciò assunto posizioni d'opposizione. Inoltre mi riconosco colpevole di aver ceduto a impulsi sentimentali in contraddizione con la necessità storica... infine mi dichiaro colpevole di aver posto il concetto di uomo sopra quello di umanità... riconosco che tutto ciò nell'attuale situazione è oggettivamente deleterio e di conseguenza controrivoluzionario." (pp. 160)
Il passo successivo fu la confessione di crimini deliberati e abietti. Gletkin, il suo secondo inquisitore, non ebbe bisogno che della luce di una lampada da tavolo, della falsa testimonianza di un galeotto e della capacità corrosiva degli interrogatori pressoché ininterrotti. Rubašov non poté sottrarsi alla procedura: "Improvvisamente i ruoli furono scambiati: non Gletkin, bensí egli stesso, Rubašov, stava cercando di ricusare tramite cavilli un palese reato. L'accusa, che fino a quel momento gli era parsa tanto assurda, sostituiva semplicemente gli anelli mancanti di una catena perfettamente logica." (pp. 174)
Forse a Bucharin accadde lo stesso. In fin dei conti dieci anni di angherie dovettero aver minato alla radice la sua resistenza. Testimoni attestano che nei quattordici mesi di custodia preventiva non venne mai torturato. È possibile.
Rajk, Slánský, Kostov, Patrascanu, Gomulka e tutte le altre vittime del dopoguerra non avevano alcun senso di colpa soggettivo che poteva essere "politicizzato" in reato oggettivo. E i loro carnefici non avevano tempo da perdere. La tortura fisica doveva togliere in breve tempo ai dirigenti comunisti all'apice del potere la dignità e le convinzioni personali, ridurli ad ammassi di carne sanguinolenta. I prigionieri venivano colpiti con manganelli e calci di fucile, erano costretti a leccare sale da terra senza poter bere altro che l'urina dei torturatori, venivano strappate loro le unghie oppure venivano messi in acqua e flagellati con la corrente elettrica, non veniva consentito loro di dormire o sedere, venivano rinchiusi in gabbie dove potevano solo strisciare - la lista è lunga e varia. In aggiunta occorre considerare le minacce di far arrestare mogli e figli - se non era già accaduto. Le vittime avevano l'impressiore di essere state sepolte vive, di venire derubate persino dell'ultima possibilità, quella di togliersi la vita. Piú alta era la loro posizione in seno al partito o all'apparato statale, con maggiore brutalità venivano torturati.
Solo di rado accadevano degli "incidenti", raramente qualcuno veniva torturato a morte o impazziva, poiché i prigionieri avevano ancora una parte da recitare nei processi pubblici. Conversazioni filosofiche come quelle descritte da Koestner, appelli alla fedeltà al partito o a rendere un ultimo servigio al comunismo mondiale subentravano solo alla fine del trattamento, quando le resistenze psico-fisiche delle vittime erano ormai crollate.
Rajk e compagnia non erano Bucharin del dopoguerra. E neppure "nazional-comunisti", come è possibile leggere in tanta storiografia occidentale. Affibiare loro "tendenze titoiste" è un assoluto misconoscimento della loro posizione politica, una falsa analogia con gli anni Trenta che in fin dei conti conduce a una perversa giustificazione dei carnefici. Stigmatizzare le vittime come "potenziali Tito" è pura speculazione che fa il gioco della propaganda stalinista, in fin dei conti è espressione di un immenso imbarazzo. L'ultima fase del potere di Gomulka, la carriera di Husák o il ruolo di carnefice di Kádár confutano al di là di ogni ragionevole dubbio questa interpretazione.
Inevitabilmente anche senza la rottura di Tito con Stalin avrebbero avuto luogo processi pubblici allo scopo di soggiogare i "partiti fratelli" al dettato sovietico, anche se sarebbe stato inventato un altro copione. Se nelle lotte di potere tra le fazioni degli anni Trenta i protagonisti erano noti fin dall'inizio, ma occorreva scrivere un copione che si adattasse loro addosso, negli anni Quaranta venne concepito prima il copione e solo in seguito si cercarono i personaggi piú adatti a recitarlo. I grandi processi del dopoguerra non sono stati una semplice copia delle epurazioni moscovite, bensí costituiscono, nonostante le analogie, un nuovo capitolo nella storia dei processi pubblici. La differenza maggiore consiste negli obiettivi di fondo: il Grande Terrore degli anni Trenta serviva al consolidamento del potere unico di Stalin in Unione Sovietica, mentre l'ondata di omicidi nell'Europa Orientale aveva lo scopo di sigillare l'asservimento totale degli stati satelliti, con i quadri dirigenti risparmiati dai processi degradati al rango di semplici governatori coloniali.
Utilizzo qui il termine "processo pubblico" nel senso concreto piú che in quello lato. Lo circoscrvo da una parte alla liquidazione dei comunisti e dei socialdemocratici, lasciando da parte i "processi pubblici" a danno dei nemici effettivi del regime, come per esempio gli esponenti dei partiti borghesi e conservatori o della Chiesa cattolica. D'altra parte mi rifaccio non solo agli atti dei processi effettivamente pubblici - sebbene vi potessero assistere solo osservatori scelti, le udienze venivano trasmesse per radio -, ma anche a quelli segreti, i quali, per mezzo di dicerie messe in giro con propagandistica precisione tra i tesserati, divennero una sorta di processi pubblici invisibili, nella loro segretezza forse piú efficaci di quelli apparentemente controllabili per mezzo di testimoni oculari o uditivi. Il caso iugoslavo resta fuori da questo libro, perché le epurazioni interne al partito volte a debellare i "cominformisti" (ovvero quei comunisti che nel conflitto all'interno del Cominform si erano schierati dalla parte di Stalin o semplicemente avevano palesato dei dubbi sulla rottura con l'URSS) appartengono a un altro capitolo del comunismo totalitario. Oppositori effettivi o solo presunti del corso indipendentista di Tito vennero perseguitati, braccati o incarcerati. Malgrado le analogie formali e la non minore brutalità dei mezzi adottati, il terrore titoista si differenzia da quello stalinista nel contenuto e nell'essenza. La rottura di Tito con l'URSS non bloccò solo la marcia di Stalin sulla Iugoslavia, ma anche quella di Tito verso lo stalinismo dei processi pubblici.
Sono uno dei fortunati sopravvissuti del processo Rajk e ho potuto osservare dalla prospettiva della vittima il meccanismo e la psicologia dei processi, altrimenti inaccessibili a un estraneo. Dal giorno del mio arresto ad oggi non sono riuscito a liberarmi di una semplice domanda: come è potuto accadere tutto ciò? Sorprendentemente non sono riuscito a trovare alcun libro che offra un'illustrazione complessiva dei "processi pubblici" del dopoguerra. Mi sono dovuto accontentare di frammenti, il cui faticoso accorpamento in un insieme compiuto è finito per diventare un'esigenza interiore. Molte risposte me le hanno fornite le mie esperienze personali, allargate e approfondite da poche memorie di alcuni compagni di sventura, testimonianze dei processi pubblici in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, DDR. I resoconti di esperienze vissute illuminano però inevitabilmente solo un aspetto del complesso, per di piú in maniera oltremodo soggettiva. Al contrario della letteratura sul Grande Terrore degli anni Trenta o sul fenomeno generale dello stalinismo, esistono solo rari studi storici che abbracciano la totalità dei processi pubblici in Europa Orientale, e in quei pochi i processi stalinisti occupano relativamente breve spazio, in quanto parte di una storia generale. Nelle monografie del dopoguerra sui singoli stati o sui loro partiti comunisti, i processi vengono trattati sbrigativamente e senza uno sguardo complessivo sugli altri paesi. Quali furono i retroscena delle epurazioni di partito, fino a che punto i singoli stati satelliti applicarono le direttive di Mosca, che peso ebbero fattori specifici o singole personalità (Rákosi, Gottwald, Bierut, Gheorgiu-Dej e gli altri soprastanti locali del potere sovietico) sui processi? Che ruolo ha rivestito Noel Field, colui che venne eletto a figura-chiave per l'ondata di liquidazioni che si allargò a macchia d'olio da Budapest a Praga, da Varsavia a Berlino-Est, fornendo a Stalin quel movente a metà strada tra il titoismo e lo spionaggio per gli americani? Cosa accomuna tutti i processi, dove risiedono le analogie e dove le differenze? Secondo quali criteri vennero scelte le vittime e i diversi copioni per condannarle? Come mai non vi furono processi pubblici in Romania, Polonia o nella DDR? Le risposte a queste domande non possono essere trovate nell'analisi di singoli partiti o paesi, ma richiedono un quadro storico complessivo. La prima edizione di questo libro nacque nel 1988 dall'esigenza di rispondere alle domande che mi ossessionavano. Questo nuovo tentativo di un quadro generale è stato reso possibile da una forte motivazione interiore, da un intenso impegno sulla materia, dal decennale studio delle fonti pubblicate e non, dalla raccolta di informazioni confidenziali sia da parte dei perseguitati che dei persecutori, nonché dall'apertura degli archivi dopo la caduta del comunismo europeo.
In questo libro ho inserito anche alcune esperienze personali - come illustrazione delle considerazioni generali. Le esperienze individuali di un comunista alle prese con l'apparato del terrore stalinista possono forse rinforzare i contorni nella mappa dei processi pubblici. Ho cominciato il mio lungo viaggio nella convinzione di aver trovato un'ottima risposta al pessimo mondo. Il comunismo reale ha distrutto queste sicurezze. Stalin mi rinchiuse in carcere, cinque anni dopo Chrušcëv mi restituí la libertà, e gli aiutanti degli aiutanti dei carnefici mi rimisero in mano la tessera del partito annunciandomi che ero stato riabilitato.
L'autunno di Budapest reso possibile dal disgelo russo, il risveglio critico degli intellettuali e la denuncia dei crimini stalinisti, aprirono la strada alla Rivoluzione del 1956, capace di risvegliare in me ancora una volta la speranza di un rinnovamento socialista. I carri armati che Chrušcëv fece sfilare tra le strade di Budapest soffocarono rapidamente le mie speranze. Avvertii che se fossi rimasto ulteriormente in Ungheria sarei soffocato. Le ferite psichiche subite durante i processi pubblici sono rimarginate. Il lavoro di ricerca e la stesura di questo libro mi hanno aiutato a capire in che misura quei crimini siano stati in relazione con i problemi del mondo diviso nel dopoguerra, ovvero con la reazione dello stalinismo ai medesimi. Un effetto balsamico ha avuto anche la vita successiva in occidente, che con la proclamata sicurezza di rappresentare il migliore dei mondi possibili conferma continuamente la mia fede in uno ancora migliore. La realtà devastata nell'Europa centrale e orientale dopo il crollo del socialismo ne è solo l'ultima, per me particolarmente dolorosa dimostrazione. La fine trionfalmente annunciata di ogni alternativa al capitalismo reale non potrà essere di lunga durata, perché il desiderio di un futuro piú giusto e umano non può morire. Questo desiderio resta la coscienza dell'umanità, il risultato del pensiero critico che contrappone il possibile all'esistente.
(Traduzione di Antonello Piana.)
L'epurazione orchestrata da Mosca di buona parte della nuova élite comunista nella Mitteleuropa del secondo dopoguerra rappresenta una delle pagine piú scure e oscure del Novecento. Il libro di Georg H. Hodos "Schauprozesse" (Aufbau Verlag, Berlino 2001), aggiornando un precedente saggio del 1988, offre un inedito sguardo complessivo sulle purghe staliniste in tutti i paesi dell'Europa Orientale dalla fine degli anni Quaranta alla morte di Stalin nel 1953. La vivace prosa scientifica dello storico si accompagna a toccanti intermezzi autobiografici, che hanno il merito di illustrare il processo di presa di coscienza dello stalinismo da parte di un intellettuale comunista in buona fede.
Nato nel 1921 in una famiglia colta ebreo-ungherese, Georg H. Hodos entra nel 1937 nel Partito Socialdemocratico e nel 1939 in quello Comunista. Durante l'esilio svizzero studia filosofia a Zurigo. Nel 1945 ritorna in Ungheria, dove collabora con il Ministero degli Esteri e con la Neue Zürcher Zeitung, in qualità di redattore economico e corrispondente. Nel 1949 viene arrestato insieme ad altri compagni del gruppo svizzero. Nel 1950 viene condannato a 8 anni di carcere nell'ambito del processo Rajk. Nel 1954 viene riabilitato. Dopo la repressione della rivoluzione del 1956 emigra in Austria, dove è attivo come consulente economico e giornalista. Nel 1969 si trasferisce negli USA. Insegna fino all'emeritamento in diverse università californiane. Dal 2002 vive nuovamente a Budapest. Appartiene al comitato scientifico dell'"annuario di ricerca sulla storia del comunismo".
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