Estraneità nella madrelingua

 

Eva-MariaThüne



1. Sentirsi estranei nella propria lingua

Nell’opera di Christa Wolf, nata nel 1929, è fortemente presente la riflessione sulla lingua, riferita in primo luogo alla ricerca di un linguaggio letterario capace di parlare di contraddizioni esistenti senza perdere il contatto con una prospettiva politica generale. Questo tratto saliente si delinea come ricerca del passato nel libro Kindheitsmuster (1976; trad. it. Trame d’infanzia), in cui la Wolf affronta il difficile recupero dell’infanzia e della sua lingua, intrecciata in modo sconvolgente con la lingua del tempo, segnata dall’abuso nazista. All’interno di questa ricerca linguistica certamente presente nel pensiero della Wolf incomincia ad emergere sempre più insistentemente il desiderio dell’autrice di poter dire in ‘una lingua diversa’ – la promessa a chi legge di poter descrivere meglio la realtà in una lingua fortemente desiderata, sentita necessaria per dire certe esperienze, ma non più o non ancora esistente.
Questo tipo di sensazione sembra diventare sempre più centrale: nel suo testo Befund (1994; trad. it. Referto) l’autrice descrive poeticamente una ‘perdita di parole’ (Worteverlust) che la induce a ricorrere a circonlocuzioni estese, ma in verità poco precise invece di poter esprimere la realtà con parole che ben le si attaglino, come invece era possibile una volta. L’io narrativo si rende conto di non essere in grado di estrinsecare la lingua di modo che le parole indispensabili vengano fuori.

“All’inizio (...) me ne andavo spesso nel parco e in aperta campagna, per conquistarmi lì, inosservata, l’uso della parola a cui credevo di non poter rinunciare. (...) Superfluo dire che tutti i miei sforzi sono rimasti senza successo e che il numero delle parole che mi è proibito pronunciare cresce costantemente, negli ultimi tempi quotidianamente, sicché diventa sempre più difficile salvare in una certa misura determinati contenuti delle mie frasi ricorrendo a circonlocuzioni, cosa in cui peraltro sono diventata maestra”
(Christa Wolf, Referto, in: Congedo dei fantasmi, Roma, e/o, 1995, p. 45).

Quali sono le parole perse per prime? Il testo ci dà precise indicazioni: sono le parole sicuro/a, sicuramente, sicurezza e assicurare, ma anche insicuro/a e parole che indicano astrazioni, non nomi per oggetti concreti.

“Peraltro col tempo non potei fare a meno di percepire che erano solo parole della categoria delle astrazioni a venirmi a mancare. Mi accorsi, e – lo confesso – con sollievo, che non avevo da temere per uomo, tavolo, letto e bambino, che casa e pane e danaro e lavatrice, automobile, tappeto, libro e sedia non mi sarebbero state tolte, anche se, fui costretta ad apprendere, proprio queste parole avevano scarsa pretesa di essere pronunciate, visto che all’occorrenza si possono indicare gli oggetti per i quali esse stanno” (Christa Wolf, Referto, cit., p. 44).
Viene fuori in questa difficoltà una dimensione linguistica che collega l’esperienza, il pensare e le parole. Credo che sia ovvio quanto finora detto dalla Wolf, e cioè che le astrazioni si rivelano inefficaci ed insopportabili, dure ed effimere allo stesso tempo, quando staccate dalla propria esperienza quotidiana, normale come la si vuole chiamare. Ma è la stessa Wolf a ribadire in un’intervista che sente l’importanza del parlare astratto per trovare una formula nella giungla delle sensazioni, impressioni e pensieri paralleli, ma spesso contraddittori, perché legati a momenti diversi. In quest’ottica diventa chiaro perché il pensiero astratto sia avvertito come necessario. Astrarre significa qui: trovare una domanda grazie alla quale è possibile vedere un ordine, un filo rosso nelle sfaccettature dell’esperienza, senza perdere però il legame con l’esperienza, il suo nesso vitale. Bisogna quindi distinguere tra questo tipo di parlare astratto da una parte, che rende la lingua più ampia, più comunicabile e cioè le parole meno attaccate a un senso univoco, e dall’altra parte le astrazioni in cui non si fanno più i conti con l’intreccio vitale dove si trova chi parla. Gli elementi che costituiscono l’esperienza si assomigliano tra di loro e allo stesso tempo sembrano contraddittori. Ma la comunicabilità in questo movimento incessante deriva dalla mia domanda, con il cui aiuto riesco a creare un legame tra i più svariati elementi dell’esperienza, cosicché l’associazione non disturba, ma vitalizza la narrazione. Non si tratta però solamente di un filo rosso che collega l’esperienza e il pensiero. è la mia domanda che crea la traccia del pensare che prende origine dal sé, mi fa trovare le parole che aderiscono all’esperienza lasciando affiorare le sensazioni che ne derivano e allo stesso tempo apre ad altri uno spazio in cui relazionarsi.

Questo spazio è il senso più concreto del contesto in cui avviene una comunicazione. Possiamo facilmente ricostruire il contesto storico in cui sono nate le frasi di Christa Wolf sopracitate: la perdita di parole, l’impossibilità di definirsi sicure sarebbe legata ad un trauma vissuto, e nell’opera della Wolf molto probabilmente si riferisce – anche se il senso del testo non si esaurisce certamente in questo – alla caduta del muro di Berlino e tutti gli avvenimenti che seguono. Dopo questo sconvolgimento per l’io narrante c’è qualcosa che non torna più, vengono meno le coordinate del sentire e del dire (perché si perde sia la parola ‘sicura’ sia il suo contrario), e mancano nuove parole per esprimersi, soprattutto dove si vuole parlare di tutto ciò che non è vicino, immediato, indicabile e materiale. Non esiste più un contesto in cui avviene una comunicazione nel senso dello scambio, della negoziazione del senso, ma tutto sembra ridursi ad un indicare quasi non-verbale di quello che è rimasto, e cioè la sfera concretamente più vicina, la sfera personale.
Wolf in questo testo, in questo momento storico ha descritto la situazione come una strada senza uscita, dove lei rimane fissata al suo punto tra le opposizioni senza trovare le parole, senza spostare la comunicazione, un lutto verso il passato, un vivere il passato come completamente condizionante per il futuro, tuttavia con la forza di stare in questo lutto, questa tensione. Assistiamo, in tutta la narrativa della Wolf, a spostamenti continui in questo campo di tensione: tante volte lei disegna situazioni in cui una singola non riesce più con le sue parole, pur dicendo il vero, a raggiungere gli altri. Questa dinamica s’imprime anche nella sua scrittura, dove è dominante lo stile della lingua parlata: lo dimostrano più elementi come frasi senza punti e senza virgole, ritmo a volte incessante, ma a volte anche lentissimo, dove in certi momenti la sintassi della frase viene estremamente ridotta, per es. ad ellissi, pochissime parole, quasi al silenzio. Ma poi riprende. Nei suoi ultimi saggi invece leggiamo una prosa di grande chiarezza, quasi che lo stare presso la lingua ascoltata, la lingua parlata renda più chiara la descrizione e la riflessione sulla realtà.
Se nel 1989 il muro visibile è caduto, quello invisibile persiste in vari modi: sembra che il mondo di quelli di là (drüben) ora sia ben visibile, ma che le vite vissute, i legami creati e il loro significato si sottraggano alla percezione. Per riuscire a cogliere ciò che si potrebbe anche non menzionare, perché è visibile, posso ricorrere di nuovo solo alla lingua, alle sue parole, cercando di affidarmi di nuovo a loro per evitare in questa maniera il pericolo di cadere nel silenzio. È necessario esprimere le esperienze, nominarle, perché ci si renda conto della loro esistenza, che altrimenti svanisce. Sembra a prima vista impossibile ricominciare là dove vengono meno le parole, ma bisogna forse affidarsi ad altre parole, quelle che – come dice l’autrice – non vengono mangiate e risucchiate da un cespuglio che cresce in gola. Quest’immagine ci richiama un blocco nell’espressione, in cui le proprie possibilità vengono meno. Non di rado succede che le nostre parole ci sembrino svuotate del loro significato, allora per noi non è ancora del tutto possibile descrivere con altre parole il senso del cambiamento. È un momento di transizione quello in cui ricominciare risulta più facile, se ci affidiamo alla nostra naturale capacità di narrare le nostre esperienze. Ed è esattamente questa la proposta dell’autrice in tale situazione di perdita della lingua.
Una via per capire meglio è raccontare le storie di vita vissuta come propone Christa Wolf al filosofo Jürgen Habermas, quando – di fronte a qualcosa che sfugge alle sue parole – invita ad incominciare a raccontare per capire la diversità delle vite e la specifica differenza della storia in Germania Est e Ovest:

“Mi accorgo comunque di continuare a girare intorno al problema, senza mai metterlo ben a fuoco. Di una cosa però sono sicura: abbiamo storie diverse, dobbiamo rendercene conto, quindi dovremo cominciare a raccontare queste storie” (Christa Wolf, Vom Gepäck deutscher Geschichte – Briefwechsel mit Jürgen Habermas, in: Auf dem Weg nach Tabou, München, dtv, 1994, p. 154; traduzione mia).

Per capire meglio la diversità delle vite nascoste dietro la storia generale prendiamo un testo autobiografico di Klaus Theweleit che parla di lingua e violenza in Das Land, das Ausland heißt, (1995, ‘Nel paese che si chiama estero’).
L’autore di cui parlo, che oggi vive come libero pubblicista a Friburgo (Germania), in Germania è famoso per la sua ricerca – ormai ritenuta un classico e tradotta in varie lingue – sulla coscienza fascista degli uomini, che nel 1977 rappresentò un primo risultato del pensiero autocritico maschile ed è stata pubblicata con il titolo Männerphantasien (trad. it. Fantasie virili. La paura dell’eros nell’immaginario fascista, Milano, Il saggiatore, 1997).
Theweleit, nato nel 1942 nella Prussia Orientale (territorio fino al 1945 tedesco e poi spartito tra Polonia e URSS), cresce nello Schleswig-Holstein, la regione al confine con la Danimarca dove la famiglia si è rifugiata alla fine della guerra. Già da piccolo si sente fortemente estraneo, se non altro per la strana pronuncia, la “R” caratteristica del dialetto prussiano tanto marcato e diverso dal dialetto del nord, il plattdütsch. Gli altri si prendono gioco di lui, del suo nome strano e così diventa il clown, non più in grado di parlare nella sua madrelingua, ma usandola per far ridere, con grosse difficoltà, balbettando. Il suo senso di estraneità aumenta nel momento in cui – diventato più grande – capisce che i genitori, che dimostrano resistenza ad imparare la nuova lingua, “perché volevano tornare” (in Prussia), nella loro lingua non parlano mai veramente anzi si vietano di parlare del passato. Contrariamente ai suoi fratelli, che finiscono anch’essi per tacere, lui supera le sue difficoltà contraddicendo soprattutto gli insegnanti a scuola e più tardi nell’attività politica dei gruppi di opposizione del movimento studentesco. Colpisce comunque il fatto che Theweleit scelga la scrittura, mentre nella lingua parlata rimane l’imbarazzo, trasferito nel comico oppure in un codice segreto con gli amici, perché la lingua degli adulti serve soltanto per impartire dall’alto punizioni o insegnamenti.
Da questo vicolo cieco Theweleit esce scoprendo da una parte l’inglese come lingua della musica rock, delle emozioni forti e trasgressive, dall’altra parte imparando il linguaggio marxista del movimento studentesco, che diventa l’apertura verso un linguaggio pubblico. In questo linguaggio pubblico che decisamente si vuole staccare dalla lingua standard confluiscono altri linguaggi appartenenti allora a zone extraterritoriali del sapere e parlare ufficiali, come per es. quello di Wilhelm Reich, insieme ad altri linguaggi scientifici, politici ed artistici che garantiscono la possibilità di un legame tra il parlare proprio con l’ambito pubblico.

Nel suo racconto Theweleit descrive come lentamente la costrizione al silenzio o al parlare in modo comico (“costrizione al silenzio, all’inghiottire le parole, la maschera comica bambinesca e senile”) perda presa su di lui; esplode invece un parlare con una pluralità di voci, appartenenti a luoghi fisici e spirituali diversissimi. Questa mescolanza di linguaggi trova la sua espressione pubblica nella lingua scritta, inizialmente nella scrittura di volantini.

“Nel periodo dal 1967 al 1970 si mescolavano tante lingue, di ogni immaginabile provenienza: linguaggi scientifici, dello happening e dell’action-theater (...). Quello che li accomunava era l’essere tutti linguaggi provocatori: il linguaggio di Marx, il linguaggio del Freud sessuale o di Reich, il linguaggio degli ebrei perseguitati, tutto ciò poteva prendere il posto della lingua di Elvis e del be-bop e di Billie Holliday, perché originari da analoghi ambiti extraterritoriali. Si trattava di linguaggi banditi dall’ambito pubblico, lingue straniere, lingue di nemici, lingue non-tedesche” (Klaus Theweleit, Das Land, das Ausland heißt, München, dtv, 1995, p. 149; traduzioni mie).

Le voci che compongono la lingua di Theweleit sono liberatorie, perché provengono da un sapere fin allora escluso dalla verbalizzazione della lingua ufficiale e questa nuova possibilità di esprimersi diventa pubblica tramite la lingua scritta, anche se inizialmente come lingua dell’opposizione. Questa insistenza sulla lingua scritta pubblica non avviene casualmente: in una cultura della scrittura solo un testo scritto rimane “leggibile anche il giorno successivo, difendibile, e non dà motivo di arrossire come invece i passati tentativi lirici di espressione personale oppure il balbettio della semiscientificità ai seminari universitari” (Klaus Theweleit, Das Land, das Ausland heißt, cit., p. 151).
Theweleit descrive la sua nuova lingua comunque come una lingua giuntagli in un determinato momento storico, in cui le sue emozioni hanno trovato espressione e possono essere comunicate in un linguaggio che attinge a nuove fonti di spiegazioni. L’orizzonte si era allargato e con esso la lingua diventa più ricca e si inserisce nell’istituzione università. Ma quando questo momento storico felice sarà concluso la pluralità delle lingue verrà di nuovo regolamentata anche tramite un uso sterile della lingua politica: la pluralità delle lingue si contrarrà di nuovo in dogmatiche norme linguistiche e in piattaforme politiche.
Così, alla fine nella sua autoanalisi, l’autore si trova a affermare che è un bene non essere ‘a casa in nessuna lingua’, perché solo in questo modo si incomincia a sentire le voci degli altri, la possibilità di sapere qualcosa su una realtà diversa. Rimane però per lui una tensione sofferta, perché comunque avverte che c’è una differenza tra la sua prima lingua in cui è cresciuto e la nuova lingua che si rivela una costruzione liberatoria grazie all’esperienza politica e personale di una determinata generazione.

“Non riuscirò facilmente a disfarmi del mio corpo tedesco, smuoverlo è un problema; ma non me lo devo portare in giro come fosse il mio destino. Tanto meno questo vale per la lingua tedesca, la mia lingua, il mio corpo si possono mescolare, cioè, a volte con l’aiuto di altri, si lasciano decolonizzare per scappare da quell’inferno circoscritto che rappresenta il tedesco preso per se stesso”
(Klaus Theweleit, Das Land, das Ausland heißt, cit., p. 156).

La situazione di Theweleit è quella di un rifiuto nei confronti della lingua madre, che viene a mala pena sopportata perché sovraccarica di peso storico e non più vissuta come una lingua che dà accesso al luogo dell’infanzia e alle relazioni primarie. Per questo Theweleit desidera un pluralismo delle lingue, dove ci sia posto per tutte le voci, dove la madrelingua non si distingua dalle altre lingue (straniere), per vivere in un mondo variopinto, ma costruito, per udire un’altra voce, ma non la prima.

In che cosa si differenzia l’esperienza di Theweleit da quella di Eva Schwartz, della quale ho avuto modo di fare intima conoscenza?
Nata in Germania Est a metà degli anni Cinquanta, anche la sua famiglia fugge e si stabilisce nell’Ovest. Una fuga dall’Est nella Bundesrepublik poteva essere – espressa per es. nel linguaggio dei partiti politici – soltanto un’esperienza positiva, liberatoria, e infatti nel caso della famiglia di Eva lo fu, ma questo è un fatto contingente. Più decisivo fu il fatto che al di fuori di discorsi politici ben precisi non c’erano racconti che potessero permettere una comunicazione su ciò che avveniva affettivamente, anche se doloroso. E a questo vuoto tanta gente sfuggita dall’Est rispondeva con un rapporto rivendicavo oppure – come i genitori di Theweleit – con una rimozione totale, inaridendo così ancora di più il linguaggio di esclusione reciproca caratteristico della guerra fredda. A casa di Eva la famiglia si riuniva per parlare della vita nell’Est, del loro passato e ogni domenica si costruiva un’immagine idilliaca sentimentale di una realtà a cui erano sfuggiti. Per la bambina questo era difficile da capire, perché lei non conosceva bene quella realtà, la sua era quella attuale, che dalle persone da lei più amate sembrava rigettata, come se il luogo dove stava crescendo e le sue relazioni fossero di poco valore sin dall’inizio.
Uno dei primi ricordi di Eva riguarda la scuola: Eva si meravigliava della vita apparentemente piana e indisturbata delle sue amiche, quando per lei la percezione della realtà si era fatta doppia, perché aveva visto qualcosa che loro ignoravano e che lei a sua volta difficilmente riusciva a dire. Questa sensazione è rimasta per tanto tempo viva anche in contesti mutati e si è concretizzato sempre di più in un senso di non-adeguatezza rispetto a certi linguaggi, ma anche al suo personale dispositivo linguistico.
Anche Eva ha conosciuto una possibile uscita da questa mancanza, imparando un linguaggio intellettualistico, critico trasmesso nella scuola, che rimaneva astratto perché senza legame con la sua realtà. E l’inglese imparato a scuola non le faceva più sentire le voci libere che aveva sentito Theweleit. La musica e i testi inglesi erano negli anni Settanta largamente commercializzati e l’inglese veniva trasmesso per lo più in funzione economica oppure con l’illusione di potersi orientare meglio in tutto il mondo, una lingua franca con la quale poter andare in giro, senza difficoltà, senza compromettersi.
Che cosa offrivano poi i linguaggi scientifici conosciuti all’università? Contrariamente a quello che è successo a Theweleit, si presentavano come altri codici chiusi, con i quali i colleghi maschi giocavano più facilmente, ma per lei rimanevano come vocaboli di una lingua straniera: si imparavano con fatica e poi rimaneva l’insicurezza se fossero davvero adatti ad esprimere ciò che lei intendeva. Il linguaggio del marxismo e quello della psicoanalisi in parte avevano perso l’immediatezza dirompente che ebbero per la generazione di Theweleit. In breve: accanto alla lingua ufficiale esisteva sì un linguaggio critico, ma non era il linguaggio necessario per lei e molte delle sue amiche. Inoltre era proprio la lingua scritta che causava più difficoltà di espressione, perché si facevano più forti gli elementi di costruzione, di astrazione dalla propria esperienza. Quello che differenzia l’esperienza di Eva da quella di Theweleit oltre al fatto storico e generazionale, è il fatto di essere donna, di avere un altro rapporto con la lingua. La lingua sembra più vicina in quanto legata al sentire, ma allo stesso tempo più lontana, perché minacciata dal silenzio, dal non poter dire la propria esperienza.
Se ho capito bene la sua esperienza, direi che non si trattava per Eva della perdita di quelle parole che una volta potevano attagliarsi alla realtà, come racconta la Wolf, ma neanche di un rifiuto della madrelingua, sopportabile solamente se arricchita con altre lingue. Parlerei piuttosto, come fa lei, di estraneità nella madrelingua, una situazione dove rimane forte il legame con questa prima lingua, ma il legame a prima vista diventa più problematico, meno immediato.
Ed è qui che avviene la seconda emigrazione: tramite un’altra lingua, l’italiano, è stato possibile per lei riacquistare una capacità comunicativa sepolta. Il linguaggio necessario di Eva è stata una lingua straniera, tramite la quale ha potuto riesprimere certi concetti che nella sua madrelingua hanno uno status difficile (per es. concetti banditi come Autorität). Non ha scelta una nuova lingua madre, come proponeva Florian Coulmas per il soggetto cosmopolita e poliglotta, perché non si può emigrare dalla madrelingua. Il senso di mancanza, però, che appariva a volte nella madrelingua, è venuto meno tramite l’esperienza di un’altra lingua, che offre la possibilità di dire qualcosa altrimenti rimasto legato a un vissuto, ma non detto, che può vincolare negativamente. Questa ritrovata comunicabilità fu possibile perché legata ad una nuova esperienza, come era successo per la generazione di Theweleit con l’inglese. Sia per lui che per lei questo legame non era possibile nella stessa lingua di partenza, e cioè nel tedesco, perché, mentre si tende a raffigurare la lingua in primo luogo come un codice astratto e quindi fruibile da tutti i parlanti nativi potenzialmente allo stesso modo, in realtà l’uso che ne fa una comunità di parlanti in determinate situazioni storiche sembra vincolare l’individuo di più che le possibilità virtualmente presenti a tutti i livelli di espressione. Il motivo sta nel fatto che oltre all’uso e alla struttura della lingua esiste la necessità di una mediazione, un atto di significato scambiabile e negoziabile nella comunità dei parlanti, un atto simbolico. In situazioni in cui questo non sembra possibile sopravviene un blocco, le parole vengono risucchiate, e l’individuo tende a ricadere nel silenzio.

Bisogna dire che l’adesione alla nuova lingua non rappresenta la soluzione perfetta, anche in essa c’è una estraneità – se pure di tipo diverso. Tale adesione non garantisce una nuova situazione senza incidenti linguistici, e cioè senza interferenze, parole non adatte, discorsi bislacchi. Ma gli scarti rendono più visibili le possibilità dell’espressione, fanno accrescere la sensibilità per i passaggi linguistici, i luoghi che si distinguono, lo spazio del gioco linguistico che diventa più ampio: senza nostalgia verso la pienezza della lingua dell’infanzia, ma anche senza l’illusione di potersi progettare in un plurilinguismo idealizzato, una competenza linguistica pura, assoluta, staccata dalla realtà che supera tutte le difficoltà.
Ingeborg Bachmann si è avvicinata a quest’area di transizione tra le lingue. Nel suo racconto Simultan (1972; trad. it. Simultaneo, in: Tre sentieri per il lago e altri racconti, Milano, Adelphi, 1980) parla di un’interprete, una traduttrice simultanea e descrive il potenziale espressivo che comporta anche il rischio di non riuscire nella resa, di ricadere nella sensazione di incompetenza. Non riuscendo a tradurre una frase di cui sente di aver compreso il senso, si rende conto del suo limite, se si vuole a prima vista professionale:

“Non sono abbastanza brava, non riesco in tutto, sono ancora lontana dal riuscire in tutto. Non sarebbe mai stata capace di tradurre quella frase in nessun’altra lingua, sebbene fosse convinta di sapere il significato di ciascuna di quelle parole e come andavano usate, e tuttavia non sapeva di quale sostanza quella frase fosse fatta in realtà. Non riusciva in tutto, appunto” (Ingeborg Bachmann, Simultaneo, cit., p. 44).

E in un altro momento sente il pericolo del meccanismo di equiparare le parole senza valutarle:

“Era proprio uno strano meccanismo il suo, viveva senza un solo pensiero in testa, immersa nelle frasi degli altri che immediatamente doveva ripetere come una sonnambula, ma con suoni diversi: di ‘machen’ sapeva fare to make, faire, fare, hacer e delat’, era capace di girare ogni parola come su un rullo per ben sei volte, soltanto non doveva pensare che machen significava veramente machen, faire faire, fare fare, delat’ delat’, questo avrebbe reso la sua testa inservibile e lei doveva stare molto attenta a non venire un giorno travolta da quella valanga di parole” (Ingeborg Bachmann, Simultaneo, cit., p. 23).

La sensazione di perdere il controllo è una delle sensazioni più frequenti nei racconti sul processo di apprendimento da parte di chi studia un’altra lingua, e quindi non legata solo alla traduzione. La scelta di parlare di una traduttrice fa intravedere anche una possibilità di uscita – almeno temporanea – da queste difficoltà: senza parlarne expressis verbis, la Bachmann inserisce un accenno a tale possibilità nell’autoriflessione della protagonista sul suo lavoro d’interprete, come ulteriore livello d’indagine su se stessa.

Perdita di parole, rifiuto della madrelingua ed estraneità, quello che unisce le tre situazioni descritte è la minaccia del silenzio causata dalla mancanza di un linguaggio capace di raccontare le proprie esperienze non solo in una descrizione piana, ma includendo la tensione di vita che in esse è racchiusa. Indubbiamente è pensabile qualcosa di simile anche per altre lingue, ma sembra che ci sia una specifica impasse legata ad un quadro socio-storico particolare del tedesco. Sono state tante le violenze – la lingua della dittatura del Terzo Reich, della esclusione reciproca delle due Germanie, della guerra fredda, della dimenticanza e della rimozione, l’esplosione di una nuova situazione dominata dalla lingua dell’economia – troppe le situazioni in cui gli individui non hanno più potuto o voluto affidarsi ad un uso fiducioso del tedesco. Ci sono tracce di alcune di queste situazioni anche in altre lingue – per esempio in italiano – ma per il tedesco questa tematica risuona come amplificata in uno spazio da cui si vorrebbe uscire.
Ne dà testimonianza anche Renate Siebert, sociologa di origine tedesca ed autrice di importanti studi come per es. Ledonne, la mafia (Milano, Il Saggiatore, 1994), che insegna oggi sociologia presso l’Università della Calabria e descrive la sua esperienza così: “Quando ero all’estero cercavo di nascondere le mie origini, cercavo di parlare in altre lingue oppure stavo in silenzio. Avevo paura” (Renate Siebert, “A proposito di memoria e responsabilità”, in: Il Mulino, XLV.1, 1996, p. 58-63).
Renate Siebert appartiene alla generazione del Sessantotto, cui i genitori non hanno trasmesso una memoria viva del periodo nazista. Un silenzio che esplode a livello emotivo, perché dove non è possibile la comunicazione il sapere di una situazione porta ad un distacco, ad una sfiducia nella capacità di comunicazione, ad un rifiuto del tedesco.

Wolf, Siebert, Theweleit e Eva Schwartz appartengono a tre generazioni distinte, in cui la problematica del rapporto con la lingua è però ugualmente centrale. Per lungo tempo nella discussione pubblica del dopoguerra si parlava del passato nazista in modo piuttosto indifferenziato, senza distinguere bene la situazione di chi era agente, chi vittima e chi passivo, osservatore. La mancanza di comunicazione su questo argomento – e non solo – già così palese nelle famiglie e tra le generazioni, ha creato in seguito una sete di informazioni, soprattutto storiche, su ciò che è avvenuto. Ma mancano ancora le mediazioni a livello dei singoli, la libertà di parlare dell’esperienza, anche del vuoto fra le generazioni, del rifiuto della memoria personale che ha portato, come mostrano le parole di Theweleit e Siebert, piuttosto ad una tradizione negativa. Non succede quindi a caso che, se si è riusciti a raccontare il proprio sapere individuale, questo avviene preferibilmente nella lingua scritta, in una comunicazione non diretta, come se si saltasse il naturale trasformarsi del sapere in parola e dopo in scrittura.
Infatti, non si tratta di questioni, tante volte dibattute e recentemente ancora di più, di diversità di lessico tra generazioni o tra le (due) parti del paese; e non si tratta neanche di questioni analoghe formulate dalla linguistica o sociolinguistica per analizzare l’uso diverso che si fa di linguaggi coesistenti in una comunità di parlanti. Tutte queste domande non colgono il nesso che sta a monte, perché la loro prospettiva esclude proprio la comunicazione in questione, proponendo formulazioni che già di per sé tagliano fuori una visione che non permette un’analisi basata quasi esclusivamente su un metodo e materiale empirico. Infatti, sebbene si tratti di quattro esperienze diverse per luoghi, età e formazione delle persone coinvolte, la mancanza di linguaggio mi sembra che traspaia nei quattro esempi nel tentativo di dare voce ad esperienze dove si tocca il dolore. Lasciar emergere il dolore qui significa fargli assumere un corpo acustico tale che possa essere sentito anche da altri. Questo può avvenire in vari modi, nei racconti, anche nell’ironia, ma mai solo nella presentazione di materiale documentario, lasciando parlare i fatti, lasciando ad altri il compito del dire il vero, e cioè lasciando agli altri il compito di mettere i fatti in relazione per poter vedere e sentire ciò che non è visibile in superficie.

2. Avere fiducia nella lingua
È possibile sentirsi estranei alla madrelingua ed avere nello stesso tempo fiducia nella lingua?
Cercherò di dare una risposta a questa domanda con un esempio: significative per la sensazione di inadeguatezza delle proprie capacità espressive sono situazioni in cui le contraddizioni e sofferenze nel reale hanno portato quasi al totale rifiuto della lingua madre da cui risultava l’impossibilità di comunicare.
Prenderò spunto da testi di donne ebree di madrelingua tedesca, emigrate a causa della Shoah. La violenza dei fatti sugli individui e la collettività ha generato molte testimonianze in forma di riflessione autobiografica, interviste e rielaborazione letterarie. Colpisce comunque il fatto che tantissime donne abbiano parlato di quest’esperienza, donne che non erano scrittrici o giornaliste ecc., ma che comunque hanno sentito il bisogno di dire ciò che era successo loro.
Una delle esperienze più importanti è l’uscita dalla madrelingua (perlopiù il tedesco) e la situazione linguistica successiva. Non a caso gran parte di questi testi vengono pubblicati negli anni Ottanta e Novanta, quando si è formato un pubblico capace di ascoltare la loro voce. E non a caso le autobiografie e i testi pubblicati negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta spesso cadevano in un vuoto, perché era ancora in atto un forte processo di rimozione. Il recupero politico del passato iniziato in Germania dopo il Sessantotto – come hanno descritto Renate Siebert e Klaus Theweleit – ha sicuramente reso possibile anche un riavvicinamento agli anni del nazismo e della Shoah. Ma si trattava in primo luogo di una necessaria rielaborazione storico-politica, un approccio razionale e razionalizzante, che confrontava con fatti, le cifre, le foto che parlavano da sé, provocando in alcuni uno shock che portava ad una rimozione ancora più forte, in altri invece un senso di colpa che faceva sì che – lontano dai fatti storici in questione – il rapporto con l’essere tedesco, la cultura tedesca come un insieme di elementi vari, risultasse fortemente disturbato. Questo atteggiamento si può trovare soprattutto in rapporto alla lingua madre, oggi molto volentieri sostituita quando è possibile, nei contesti adatti, dall’inglese, in quanto lingua internazionale, funzionale e neutra, priva di concetti e parole difficili (come la stessa parola Muttersprache) rimaste nel tedesco odierno come tracce della lingua del Herrenmensch (uomo dominatore).
I testi autobiografici sulla Shoah sono serviti a trovare le parole per una situazione, un fatto che – non espresso – agisce come chiusura.

Nell’esperienza dell’emigrazione alcuni emigrati hanno continuato a parlare anche il tedesco (per es. nel privato, con amici e in famiglia), per altri invece è stato possibile solo un rifiuto totale. Comunque, ad un certo punto della vita per alcuni il recupero del passato, di cui la lingua è un elemento cardine, si è presentato come necessità. In tanti casi la questione della lingua testimonia del fatto che in tutto il processo di emigrazione e adattamento è rimasto un resto incommensurabile che fortemente si fa sentire come volontà di recupero della lingua madre. Per anni e anni era forse stato trasformato in un iperattivismo, in un agire per istituzioni sociali oppure semplicemente in un comportamento in cui l’agire era predominante rispetto al desiderio di comunicazione, che esplodeva a volte provocato da qualcosa che a prima vista appariva come un incidente, qualcosa che non andava più.

Vorrei ora esaminare più da vicino l’esempio di tre donne ebree di lingua tedesca, Ursula Hirschmann, Charlotte Wolff e Ruth Klüger, donne molto diverse fra loro e con vite diversissime: la Wolff, psicoterapeuta abitante a Londra, la Hirschmann, molto impegnata nel movimento europeista accanto al marito Altiero Spinelli, vissuta in Italia, e la Klüger, nata a Vienna ed emigrata negli USA, dove oggi insegna letteratura tedesca presso un’università californiana.

Per Ursula Hirschmann l’impulso a raccontare della sua vita nasce dal desiderio di entrare in regioni più profonde di se stessa, dando di volta in volta parola ad un’immagine che si presenta “importante, piena di significato da scoprire, urgente: poi man mano si dissolve, diventa debole e insignificante e non ho più la forza di formarla” (Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, Bologna, Il Mulino, 1993, p. 17).
La sfida in questa scoperta di se stessa è la relazione con la lingua, in cui Hirschmann riesce o non riesce ad afferrare qualcosa che giace nell’ombra del non-detto, che può chiarirsi oppure rinchiudere l’energia che deriva da questa relazione. Hirschmann, che dal 1935 ha vissuto in Italia, scopre in questa situazione la forza inerente alla sua lingua materna:

“[...] l’unica mia forza elementare, che però diventa a poco a poco più debole, è la mia capacità di dire nella mia lingua materna tedesca quel che vedo e sento. Prima che essa sia completamente inaridita, voglio fissare le immagini. Perché? Per chi? Io stessa non lo so. Forse sarà più chiaro alla fine” (Ursula Hirschmann, Noi senzapatria, cit.).

Quello che Hirschmann delinea in modo esplicito è l’esperienza di parlare un’altra lingua – nel caso della Hirschmann l’italiano – che viene sentita come lingua di copertura. Parlo di copertura, perché la lingua straniera copre la libertà di muoversi nella lingua, intesa come forza elementare che conferisce la capacità di uscire dalle forme linguistiche pre-date dai cliché linguistici, imitate e spesso avvertite come svuotate di significato quando si vuole comunicare l’intensità, i colori di un’esperienza. Diventando italiana Hirschmann sperimenta una forma d’assimilazione in cui apparentemente continua a parlare una lingua e ad avere un comportamento, modi di fare diversi da quelli delle sue amiche italiane, ma l’adattamento va più in profondità, perché copre la differenza che non trova espressione. Finché la Hirschmann non scoprirà la sua madrelingua come una forza che le conferisce la possibilità di dire la sua esperienza questa diversità sparirà nell’adattamento, appare a volte solamente inquietudine, malinconia, senso di estraneità.

Charlotte Wolff, dopo aver lavorato da medica e psicoterapeuta a Berlino, emigra nel 1933 prima a Parigi e in seguito alla occupazione tedesca della Francia a Londra. Più decisamente delle altre rifiutò la sua madrelingua, come scrive nella sua autobiografia (Charlotte Wolff, Hindsight, London, Quartet, 1980). Questo testo, scritto in inglese, viene in seguito tradotto in tedesco ed è proprio il rapporto con la sua traduttrice Christel Buschmann a cambiare Charlotte Wolff: la Wolff riesce – con difficoltà e non senza periodi di forte conflitto e di silenzio – a superare il rifiuto fortissimo per la sua prima lingua, e anche per le persone che la parlano, per i tedeschi, incominciando ad avere molti contatti soprattutto negli anni Settanta con il movimento lesbico a Berlino. Wolff scrive a proposito di Buschmann: “Senza saperlo, lei mi preparava la strada per un nuovo avvicinamento ai tedeschi, e faceva sì che successivamente andassi due volte a Berlino” (Charlotte Wolff, Hindsight, cit. p. 230; traduzione mia). Questa riconciliazione fu possibile, perché Buschmann rappresentava di fatto un’altra faccia della Germania: Buschmann faceva parte dei giovani che avevano incominciato a recuperare un pezzo della storia tedesca, creando così una possibile comunicazione. Ma diversamente che nei casi di Siebert e Theweleit, qui non si trattava di un interesse prevalentemente storico oppure della ricerca della trasmissione della memoria famigliare. Nell’esperienza di Christel Buschmann e Charlotte Wolff agisce fortemente la simpatia spontanea e reciproca, la curiosità effettiva dell’una verso l’altra e il desiderio di voler conoscere l’altra nella sua diversità. Senza questo rapporto individuale, che era imprevedibile, la trasmissione dell’esperienza della Wolff non sarebbe stata possibile. L’amicizia tra Buschmann e Wolff si sviluppa durante il lavoro di traduzione, un lavoro che richiede attenzione da tutte e due le parti, perché le parole in due lingue non si corrispondono in un rapporto uno ad uno. Poter trasferire il testo della Wolff in lingua tedesca richiedeva dunque domande precise da parte della traduttrice, e da parte della scrittrice la capacità di accettare un testo diverso in una lingua che non voleva più parlare. L’interesse della traduttrice e la relazione con lei fanno sì che Wolff stessa non solo veda un’altra faccia della Germania, ma che allo stesso tempo possa accettare una parte della sua stessa vita. E non si tratta soltanto di una parte della sua vita, ma anche del recupero di una possibilità di comunicare nella sua madrelingua, di entrare in un difficile rapporto di scambio con l’ambiente berlinese. Le domande insistenti da parte delle donne berlinesi costringono Charlotte Wolff a confrontarsi con la nuova realtà, e a ripensare le sue opinioni. E questo confronto difficile e conflittuale le restituisce una parte della sua vita: “Berlino era ridiventata un luogo nella mia mappa emozionale. E ciò mi ha dato una nuova vita” (Charlotte Wolff, Hindsight, cit. p. 245). Infatti la Wolff sente questo ritorno come recupero di una dimensione affettiva, che prima per lei non esisteva né nei confronti del suo passato né della sua madrelingua e ancora meno nei confronti della Germania in generale.
Vorrei chiamare questo episodio una mediazione di ritorno distinguendolo dall’assimilazione o dall’estraniamento, le forme più consuete nei processi di emigrazione che sfociano nello sradicamento. La mediazione di ritorno invece può portare ad un radicamento che consiste innanzitutto in un collegamento dei momenti della vita, in cui il passato non rimane rinchiuso, le esperienze fatte nel passato non rappresentano un vissuto negativo, lontane dagli impulsi vitali che ne possono derivare. Avvicinare in una vita il passato al presente tramite la lingua può quindi rappresentare un ritorno verso se stessi, può dare la possibilità di attingere ad emozioni, pensieri, sensazioni vitali che non rimanevano altro che delle ombre in noi. Questo può succedere in qualsiasi lingua – anche una lingua straniera: ma il fatto che nel caso specifico della Wolff questo succeda attraverso il riavvicinamento alla madrelingua rappresenta un salto simbolico che in seguito aprirà la Wolff ad altre esperienze esistenziali. Parlo in questo contesto di salto simbolico, perché l’esperienza della Wolff nasce da una difficoltà, da un rifiuto completo della sua madrelingua, che è stata sostituita dall’inglese. Non mancavano dunque alla Wolff le parole in quanto elementi necessari per la comunicazione con gli altri – infatti aveva scritto la sua autobiografia in inglese. L’elemento nuovo, il guadagno simbolico nella sua esperienza di riavvicinamento al tedesco è l’accettazione della sua origine.
Esistono ormai più vie per collegare il passato con il tempo presente, ma uno dei problemi in questo processo può essere causato dal divario tra storia collettiva e storia personale. Nell’insegnamento soprattutto ci possiamo rendere conto quanto la presentazione di dati del passato del proprio paese oppure di un altro, la presentazione della storia ufficiale, possa rimanere estranea alla comprensione degli studenti quando manca una mediazione tramite una voce individuale. Ma non si tratta solo di un problema degli studenti: ricordo la proposta di Christa Wolf a Jürgen Habermas di raccontarsi le proprie vite perché altrimenti si perde la comprensione di come la vita dell’individuo sia stata intrecciata con i conflitti e lo sviluppo del suo tempo.
Mentre i processi di sradicamento come l’assimilazione e l’estraniamento sono noti storicamente come processi di massa, la mediazione di ritorno si distingue perché sembra che ogni volta si tratti di un processo individuale, anche se non si tratta di una situazione creata singolarmente, perché non dipende dalla volontà di una persona soltanto (cfr. anche l’esempio E. Schwartz). L’esempio di Wolff e Buschmann insegna che solo quando c’è una domanda, un desiderio di sapere e di scambio da parte di un altro individuo, si crea la possibilità di interazione, di conflitto, di comunicazione e di scambio. Questa forma della mediazione di ritorno rappresenta forse l’unica alternativa in una situazione in cui i tentativi sociali e politici di integrazione non riescono ad evitare la trappola della contrapposizione tra assimilazione e estraneità, in cui si vive in esilio.

Ruth Klüger, nata a Vienna nel 1931, viene internata da bambina prima a Theresienstadt e dopo a Auschwitz. È tra i pochissimi bambini che sopravvivono ai Lager, grazie soprattutto al rapporto con la madre, rimasta sempre accanto a lei, e agli altri rapporti che nascono lì nei lager stessi. Dopo un breve periodo in Germania emigra con la madre negli Stati Uniti dove oggi insegna letteratura tedesca.
Klüger racconta la sua infanzia e adolescenza nella sua autobiografia Weiter leben (1992; trad. it. Vivere ancora, Torino, Einaudi, 1995) ricostruendo i fatti non sempre in modo lineare, ma basandosi piuttosto sui rapporti con la madre o le amiche, in cui la lingua madre gioca un ruolo importantissimo. Infatti, la bambina non percepisce gli eventi politici nella loro dimensione fattuale, ma come un lento disfarsi dei rapporti umani, caratterizzato da cambiamenti incisivi nella lingua che lei sente e parla. Sono le voci, il tono in cui si parla, si comunica, che le fanno sentire come le persone non le parlino più come prima, pur mantenendo la piacevolezza della cadenza viennese che diventa ingannevole. Piano piano non è più tanto nella comunicazione parlata che vive l’amore per la madrelingua, questo piacere le viene restituito dalla lingua scritta, dai testi che legge. Dai testi percepisce un senso di ordine e di gioia che nel mondo reale ormai non esistono più, ma che tramite il piacere della lettura le conferiscono la fiducia di continuare ad affidarsi alla sua madrelingua.
Questo rapporto di fiducia si rivela come un’ancora di salvezza anche nei Lager, dove parlare il tedesco come madrelingua è quasi una colpa e rende più difficili i rapporti con altri. Lì, nella rete delle relazioni di amicizia, il tedesco è la lingua sbagliata, perché irrigidita nella lingua dei comandi e degli ordini, nelle grida, nelle minacce. Sembra che per la bambina si disfi la dimensione di significato trasmessa tramite le parole tedesche che sente, sempre gli stessi comandi, lo stesso tono disumano:

“Gli uomini che ci avevano fatto scendere dal vagone col loro ‘fuori, fuori’, e che ora ci spingevano avanti, erano come cani rabbiosi e ululanti. Io ero felice di stare e di camminare in mezzo al nostro mucchio.
Quel tono carico d’odio, che scaccia, come essere umano, colui al quale si rivolge con parole o grida, e che al contempo lo inchioda come un oggetto, avrei continuato a sentirlo nelle settimane seguenti, e avrei continuato a torcermi dinanzi a lui. Era un tono che intendeva unicamente intimorire e stordire. Di solito non si nota quanto riguardo ci sia nel normale tono colloquiale, anche nell’irritazione, nel litigio e persino nella collera. Si litiga con i propri simili, mentre noi non eravamo neanche avversari. Il comportamento dell’autorità ad Auschwitz mirava sempre al disconoscimento, al rifiuto dell’esistenza del prigioniero, del suo diritto a esserci. Primo Levi l’ha descritto nel suo libro
Se questo è un uomo. Ma lui arrivò ad Auschwitz col sentimento di sé di un europeo adulto e compiuto, con una salda patria spirituale nel razionalismo, e una salda patria geografica in Italia. Per un bambino era diverso, perché a me, nei pochi anni della mia esistenza cosciente, era stata tolta pezzo dopo pezzo la legittimazione a vivere, sicché Birkenau non mancava per me di una certa logica. Era come se, col fatto di essere in vita, si fosse sconfinato in un territorio straniero, e chi ti rivolge la parola ti fa sapere che la tua esistenza non è gradita” (Ruth Klüger, Vivere ancora, cit., p. 107-108).

Allo stesso tempo, la bambina non ha un’altra lingua a disposizione, per cui cerca di salvare l’unica dimensione rimasta per cogliere l’essenza dei messaggi che sente, nelle lingue degli altri nel Lager, lingue che lei non capiva. Si affida a distinguere i toni in cui le parole vengono pronunciate: riconosce accanto alla suadente cadenza viennese che rimane tra lei e la madre anche le voci di altri, di cui lei intuisce nel flusso sonoro cambiamenti preoccupanti o tranquillizzanti, sulla cui base decide come comportarsi. La bambina acquisisce in questa situazione estrema, di pericolo, una capacità straordinaria di distinguere i toni incrementando di molto non solo la sua capacità di percezione uditiva, ma andando ben oltre alla sola percezione uditiva, in quanto intuisce un altro livello di significato linguistico. Si comporta quindi come succede nelle lingue tonali in cui variazioni di tono su una medesima stringa di fonemi permettono di opporre due (o più) parole di significato diverso.
Ma affidarsi alle variazioni tonali e di intonazione come elementi che costituiscono senso non è l’unica conquista linguistica che la bambina fa in una situazione che comunque è terribilmente caratterizzata dalla impossibilità di comunicazione, dal disfarsi della capacità espressiva.
In questa situazione la piccola Ruth incomincia a scrivere e recitare poesie: recitare poesie le dà la forza di distrarsi dalla percezione dei fatti terribili. Il testo scritto, sia letto che scritto da lei, è come una forma di vita nascosta che diventa l’unica che le porta gioia.

“Davanti alle mie vecchie poesie da bambina, l’invito a lasciar stare le interpretazioni, e a dedicarsi solo ai documenti, perde per me ogni valore. Chi si espone alla nuda esperienza, senza rime e senza pensieri, corre il rischio di perdere la ragione (...). Io non ho perso la ragione, ho composto rime. Neanche gli altri, naturalmente, quelli che stanno davanti a documenti bidimensionali, perdono la ragione, perché non vengono messi di fronte all’accaduto, ma a sue pallide riproduzioni, lontane da ogni maturità. Chi vuole comprendere i sentimenti e i pensieri degli altri, ha bisogno di interpretazioni dell’accadere. L’accadere da solo non basta”
(Ruth Klüger, Vivere ancora, cit., p. 123).

Scrivere poesie invece diventa il modo migliore per esprimere le proprie emozioni, in una situazione dove non era più possibile una comunicazione normale con nessuno. Scrivere poesie sembrava una maniera di togliere da questa insopportabile lingua dei padroni la sua dimensione paradossale, essendo per lei comunque l’unica lingua a disposizione. La forza della scrittura si rivela in questo elemento, che rende possibile il legame con la lingua materna, quando essa come lingua parlata non crea più un legame con la realtà. Soprattutto perché – come la Klüger sottolinea – è difficile trovare le parole per esprimere le sue esperienze estreme, la comunicazione le sembra fatta per qualcos’altro. Così la scrittura rivela la sua forza: toglie la lingua dall’ancoraggio ad una realtà terribile, che sfugge alla comunicazione con gli altri, ma non la fa finire muta, senza parole. Nella lingua scritta si crea una continuità nella stringa delle parole che nella lingua parlata non è altrettanto presente e che in momenti di difficoltà può aiutare a mettere ordine nel susseguirsi di impressioni, associazioni, pensieri diversi e contrastanti. Le costrizioni della sintassi possono diventare un legame con la lingua stessa in quanto rappresentano un limite nella difficoltosa messa in parola dell’esperienza. È uno dei pochi momenti in cui mettere insieme le parole – la forma stessa della stringa di parole – assume un valore magico e diventa più importante del contenuto stesso: “Quando il tempo è dolore, non si può far nulla di meglio che farlo passare, e ogni poesia diventa una formula magica” (Ruth Klüger, Vivere ancora, cit., p. 118).
Infatti, quando Ruth Klüger negli anni Sessanta riprende gli studi e ritorna a leggere e scrivere nella sua prima lingua, le sembra di sentire fisicamente i colpi dei suoi ricordi causati dalla lingua tedesca.
Sono gli anni dove riscopre la sua creatività nella madrelingua, fino al momento della stesura dell’autobiografia che rivolge espressamente agli amici tedeschi. Tutti questi elementi conducono a pensare che il continuum nella vita per Ruth Klüger viene dato tramite la madrelingua come possibilità simbolica che include le tracce del passato nella propria lingua senza escludere la creatività.

La percezione della madrelingua come forza elementare, la traduzione nella madrelingua come mediazione di ritorno e la creazione della continuità in una vita tramite la lingua, questi mi sembrano gli elementi che rendono i testi di Ursula Hirschmann, Charlotte Wolff e Ruth Klüger diversi da altri in cui si manifesta il parlare del singolo dall’interno della propria esperienza (penso soprattutto a Primo Levi, Elie Wiesel e Jean Améry). Sono autobiografie in cui il ricordo non si ferma alla ricostruzione dei fatti, ma scruta fino in fondo per arrivare ad una dimensione per cui valga la pena andare avanti. Le tre scrittrici si sono affidate alla dimensione linguistica – soprattutto alla scrittura – e hanno trovato che quella che appariva la schiacciante dimensione dei fatti poteva essere fronteggiata o addirittura rovesciata in un nuovo legame con la realtà.
Un altro aspetto a mio parere è decisivo: è vero che gli scritti autobiografici spesso soddisfano un desiderio di recupero e di legame nella propria vita. Ma non si tratta nei casi citati di un legame nostalgico con la madrelingua come ha osservato Elisabeth Jankowski, descrivendo l’attaccamento nostalgico alla madrelingua come ostacolo per un processo di apprendimento di una lingua straniera e apertura per una rimessa in gioco dei legami materni anche nella lingua straniera (Elisabeth Jankowski, “Ascoltare la madre”, in: Eva-Maria Thüne, a cura di, All’inzio di tutto la lingua materna, Torino, Rosenberg & Sellier, 1998, p. 11-38). Nel caso delle donne emigrate siamo di fronte proprio al fenomeno opposto, essendo loro espulse dal luogo della madrelingua ed essendo la loro lingua materna almeno esteriormente anche la lingua della Germania nazista (situazione paradossale). Il recupero della madrelingua non parte quindi da un sentimentalismo verso il passato, ma colma un vuoto che altrimenti scaccia anche l’esperienza della nuova cultura, in quanto viene vissuta come imposizione più o meno sofferta. Diverso dalla prospettiva dell’apprendimento come processo psicolinguistico si presenta quindi l’apprendimento di un’altra lingua nelle sue coordinate storiche, dove la contingenza dei fatti può ostacolare questo processo e rendere il bi- o plurilinguismo un continuo elemento di urto per se stessi, soprattutto quando il rapporto con la madrelingua venga vissuto in modo problematico. Nel caso delle tre scrittrici citate si tratta piuttosto della restituzione della madrelingua.

3. Cosa può fare una lingua straniera
Una lingua straniera può restituire una possibilità di comunicazione che nella madrelingua non esiste più, o non esiste nella stessa dimensione, cioè con la stessa espressività, rende possibile la ricerca conscia di dire senza perdersi nella convenzionalità del linguaggio, con lo stesso piacere ludico. Questo ha a che fare con le nuove relazioni in cui si impara e si sperimenta la nuova lingua, che possono essere rapporti scelti e non di costrizione o di necessità, come si è visto nel caso di Eva Schwartz, che tuttavia non rappresenta un caso isolato. Per quanto riguarda la situazione di cambio di lingua per motivi di emigrazione esistono per es. molte testimonianze su come, nelle donne soprattutto, agisca fortemente un loro sapere e un particolare uso della lingua. Mi riferisco ad alcune ricerche sulla competenza linguistica delle donne emigrate, che mettono in evidenza due aspetti importanti: spesso sono le donne a conservare il dialetto della loro regione di origine e a vivere una situazione plurilingue, perché usano contemporaneamente il dialetto, la lingua madre in senso largo (lingua standard) e la lingua straniera. Il secondo aspetto riguarda l’acquisizione e l’uso della lingua straniera, dove le donne fanno progressi soprattutto cercando di comunicare in relazioni, imparando la lingua straniera in contatto con altre persone vicine a loro, cercando di incontrarle nella loro vita quotidiana, con il risultato di uscire così più velocemente e facilmente dall’isolamento e dall’esclusione sociale tramite un uso non strumentale della lingua. In entrambe le situazioni il desiderio di comunicare delle donne fa sì che nel migliore dei casi le donne riescano a creare passaggi, mediazioni necessarie, aggiungendo così qualcosa al sapere sulla realtà della loro vita che viene legato a esperienze precedenti e non necessariamente tagliato fuori. L’energia di questo desiderio diventa promotrice del collegamento fra le varie lingue, spesso creando anche delle forme di mescolanza dei codici con nuove forme impure di linguaggio. E spesso in una situazione di contatto linguistico, di impurità linguistica, possono nascere linguaggi e usi linguistici diversi dal modello della lingua standard e proprio per questo sono oggetto di critica linguistico-politica.
Esistono tanti progetti filosofici e linguistici per trovare una lingua perfetta che sembrano dimenticare l’origine delle stesse lingue europee, e cioè il fatto che coloro che si trovavano ai margini della cultura e lingua ufficiali iniziarono a parlare una molteplicità di nuovi volgari. Queste critiche comunque non possono far tacere quello che si potrebbe chiamare il desiderio espressivo, di volersi parlare anche in situazioni di opacità dell’agire, dove gli avvenimenti sembrano chiudere le possibilità di comunicazione e comprensione.

Ma una lingua straniera può suscitare ancora di più: Alice Kaplan, nel suo testo autobiografico French Lessons (1993), parla del fascino che la lingua francese ha esercitato su lei, perché trasmetteva una nozione segreta, un sapere non esplicitato nella sua madrelingua, l’inglese-americano. È soprattutto il suono, sono le parole del francese che fanno risuonare in lei qualcosa e questa reazione diventa la prima traccia per entrare in un contatto profondo con l’altra lingua. Questa risonanza richiama il passato della sua famiglia, che alla fine dell’Ottocento era emigrata negli USA; nella lingua parlata in famiglia erano rimaste parole e intere frasi dello yiddish usate quasi sotto la soglia della coscienza dai genitori, e di preferenza per esprimere piaceri o dispiaceri (“oy - vey ist mir”, “gut in Himmel”, ecc.). Quando la Kaplan comincia a andare a scuola fa una strana esperienza:

“Quelle parole suonavano troppo bizzarre, perché le usassi al Northrop Collegiate, la scuola privata per ragazze dove ero andata fin dall’asilo. Mi facevano sentire strana, soprattutto
oy. Oy era nella stessa categoria delle parolacce, appagante e brutta. Mi piaceva dirla tra me e me. ‘Dove avrai imparato a dire così’, mi rimproverava scherzando mia madre quando costellavo una frase di oy. (...) Eravamo così americani. (...) Parlavamo americano (...). Non sono capace di riprodurre questa lingua, ma so esattamente cosa intendo con questo. Era americano più per le cose di cui si parlava che non come suonava. Sebbene sia stupefacente pensare che in una sola generazione una lingua fosse potuta diventare così spontanea, così familiare, così normale, senza il benché minimo indizio della sua relativa novità: i miei genitori erano, in definitiva, i primi delle loro famiglie ad essere nati in America (...).
Mia madre continua a correggere la grammatica del mio inglese, scritto e parlato:
to whom non to who; effective non affective; non si dice he did well, ma he is good. Corregge quando uso troppe volte very. È contro lo spreco nel linguaggio: le sue frasi sono brevi e brusche, però piene di allusioni e della promessa che si sta dicendo più di quanto non venga percepito dall’orecchio. Ora io scrivo nello stile ‘staccato’ del Midwest che lei mi ha insegnato (Alice Kaplan, French Lessons, Chicago, UP, p. 5-7; traduzioni mie).

Alice Kaplan ha imparato due lingue: un americano in cui non erano estranee parole di un’altra lingua lontana, ma importante per esprimersi, e un secondo codice, insegnato sempre dalla madre, ma in modo intenzionale, per essere in regola con il mondo pubblico, dove certe parole – e soprattutto quelle di un’altra lingua, e poi di una lingua ‘strana’ come lo yiddish – dovevano essere bandite. La madre è quindi sia la prima mediatrice della lingua materna, con tutti i suoi segreti impliciti, sia la prima rappresentante della norma: per amore della figlia le insegna a conformarsi ad un uso linguistico che cancella la differenza. Ma è la figlia stessa a custodire il tesoro della sua prima lingua: lo ritrova in una lingua straniera, il francese, che ricollega alla sua prima lingua e all’inglese-americano. E imparare il francese era per lei una necessità, non semplicemente un’altra lingua in più. La Kaplan si rende conto di questa necessità, pensando a sua nonna:

“Le lingue del suo passato – il russo della scuola in Lituania, lo yiddish di casa, l’ebraico della sinagoga venivano su come viscerali (...). Ogni lingua emergeva nei suoi tratti distintivi: l’ebraico suonava incantatore, rituale; lo yiddish colloquiale, emozionale (...). Non avevo mai sentita mia nonna dire più di una o due frasi in lingua straniera finché non andò fuori di testa. Si era tenute strette dentro di sé tutte quelle vite passate, finché alla fine non vennero fuori tutte mescolate (...).
Ora insegno francese. Penso a mia nonna, che respingeva e allontanava da sé i brutti ricordi. La nonna aveva un surplus di ricordi, ma non c’era collegamento tra un ricordo e il successivo.
Il n’y avait pas de suite dans ses idées: Non c’era un nesso tra le sue idee. Perché quella frase in francese, che mi viene così dal nulla? mi vola nella mente, nessun’altra frase la segue. Mi chiedo perché io abbia cambiato lingua – perché all’improvviso io abbia avvertito la necessità di pensare in francese. Non è come i passaggi da una lingua all’altra di mia nonna, ma suona comunque disturbato, come i suoi. Il francese, per me, non è solo il raggiungimento di un traguardo, è una necessità” (Alice Kaplan, French Lessons, cit., p. 12-14).

Sentire in una lingua straniera qualcosa che sembra mancare nella propria madrelingua? Ho l’impressione che qualcosa di simile possa valere anche per le studentesse nella facoltà di lingue. Per tanto tempo ho cercato di capire meglio che cosa le spinga a scegliere una lingua straniera come oggetto di studio, facendo domande riguardo alla loro motivazione: spesso le risposte erano molto vaghe. La risposta più frequente era: “Mi interessano le lingue” accompagnata con un gesto della mano in alto, come se cercassero qualcosa lì nell’aria, un movimento in più come da una danza. Riflettendo sul significato di questo loro gesto mi è sembrato come l’espressione di qualcuno che vorrebbe allargare i propri limiti, ma in modo leggero, non in modo agonistico. Come se sentissero anche loro la madrelingua come una veste stretta che vorrebbero togliersi, se pure per gioco. Mettersi un altro vestito può cambiare la nostra silhouette e infatti con questo gioco ci divertiamo.
Ma cosa rende la nostra madrelingua una veste stretta?
Una delle istituzioni maggiormente implicata nel livellamento ad uno standard linguistico è la scuola, dove di solito avviene il primo contatto fra la madrelingua in senso stretto e l’apprendimento di uno standard linguistico della madrelingua. Avvengono delle esclusioni riguardo ai dialetti, per esempio, e la violenza di questo processo viene vissuta da parte di alunni e alunne come estraniamento dalla (o espropriazione della) propria competenza linguistica. D’altra parte, maestre e insegnanti spesso non sono preparati a creare mediazioni sufficienti tra dialetto e lingua standard per garantire il passaggio, indicare un legame o a limite fornire una traduzione. Questa esperienza ci fa vedere come l’ideale dello standard linguistico venga capovolto e si trasformi nel suo contrario: si realizza infatti soltanto con esclusioni e tagli che toccano in profondità la competenza linguistica dell’individuo.
L’ingresso dalla scuola all’università è un altro passaggio in cui alcune delle difficoltà finora menzionate ritornano, a volte come aggravate dall’uso di linguaggi tecnici, scientifici o accademici, in cui tutto quello che sembra espressione vitale nella lingua parlata viene come risucchiato in un’elaborazione astratta presentata senza mediazioni. I motivi per questa situazione possono essere di diversa natura: la preponderanza della cultura della lingua scritta incide di più rispetto all’uso della lingua parlata più presente nella scuola; non sempre è trasparente il punto di partenza del/la docente, l’interesse conoscitivo necessario e utile come traccia per la comprensione di testi e risultati, e altrettanto rari sono i tentativi di capire il punto di partenza di studenti e studentesse necessario per creare le mediazioni di cui sopra.
Queste difficoltà vengono sentite maggiormente dalle studentesse che da un lato sono più disposte ad investire nella parte della lingua legata all’affettività, dall’altro lato fanno più fatica a vedere lo spazio simbolico che conferisce loro il rapporto con la lingua. Infatti, spesso sentono la lingua come un legame di costrizione tra parole e realtà, in cui il significato attribuito ad una parola è uno soltanto e non viene percepita la possibilità che sta nella negoziazione del senso in contesti comunicativi con altre e altri.
Da questa situazione si sviluppa nell’apprendimento delle lingue straniere una sorta di sapere linguistico che chiamerei quantitativo e che consiste nel voler soprattutto conoscere le parole, nel senso dei vocaboli. Parlo di sapere linguistico quantitativo, perché si basa sull’illusione che per tutto esista una parola già pronta per essere usata nel momento giusto, basta averla imparata. Senz’altro non si può imparare una lingua straniera senza conoscerne il lessico. Ma le parole non servono semplicemente per nominare oggetti concreti; quindi, le parole non sono pre-date, ma vengono apprese in un dialogo che si basa sulla nostra volontà di comunicare, anche con i pochi mezzi a disposizione. Ogni insegnante conosce senz’altro esempi stupefacenti di studenti che si esprimono in modo nuovo, molto personale in situazioni in cui i mezzi linguistici a disposizione sono piuttosto limitati. Sembra che sia il limite stesso a renderli più creativi.

Esiste un particolare piacere femminile ad imparare le lingue straniere. È un piacere che nasce anche da una sofferenza, dalla veste stretta che può essere la propria lingua, quando viene coperta da una lingua neutra, linguaggi imparati a memoria senza legame con la propria esperienza. Tante donne in queste situazioni facilmente finiscono con il non-parlare, nell’espressione extralinguistica che non ha più a che fare con la lingua appresa, per es. nell’agire in quanto compensazione oppure nel soffrire (un vuoto simbolico) fisico e psichico. Sembra che in questi momenti la libertà possibile esista solo al di fuori della lingua oppure soltanto nella ricerca di un linguaggio diverso, come a volte si trova nell’espressione artistica.

In alcuni casi, come in quello di Alice Kaplan, le costrizioni e mancanze sentite nella propria lingua spingono verso lo studio di una lingua straniera. Nello studio di una lingua straniera i vincoli che esistono inevitabilmente a vari livelli e spesso indipendentemente dalla nostra scelta (la relazione con l’insegnante, il contesto di apprendimento, ma anche la necessità di seguire certe regole grammaticali) sono inizialmente abbastanza ben accettati e mettono subito in evidenza la relatività di ciò che una volta veniva visto come costringente nella madrelingua. Mentre i vincoli nella madrelingua possono essere avvertiti come imposti e quindi rifiutati, la curiosità e il desiderio di imparare un’altra lingua fanno sì che i vincoli nella lingua straniera facciano percepire finalmente lo spazio simbolico del linguaggio. La percezione di questo spazio creato da una zona ‘tra le lingue’ non esclude le singole lingue, ma le potenzia, può invitare al gioco e alla comprensione di ciò che la lingua trasmette di implicito, per es. la sua dimensione storica, perché ogni parola trasmette il suo potenziale storico.
Infatti, la lingua ci trasmette implicitamente un profondo sapere sul comportamento e le tradizioni del mondo di questi parlanti. Le diversità che vengono fuori possono essere divertenti e possono aprirci una prospettiva nuova sul mondo, darci la possibilità di ridire l’esperienza sotto un nuovo punto di vista, creare nuovi legami nella percezione, valutare azioni in modo differente. Ma non sempre è così, perché spesso l’altra lingua, l’altra cultura – e in questo senso il tedesco gode di un certo ‘privilegio’ – ci confronta con qualcosa di disturbante, qualcosa che difficilmente possiamo accettare e che ci impedisce di imparare le nuove parole senza resistenza. Ho imparato per es. da una laureanda, una suora che insegnava l’italiano ad extracomunitari, che non esiste un insegnamento della lingua e cultura straniera efficace che non passi attraverso un conflitto ai vari livelli dell’insegnamento (linguistico, pragmatico, simbolico, culturale, ecc.) tra chi insegna e chi impara, perché solo il conflitto – oppure anche il malinteso – dà la possibilità di chiarire le idee, di incontrarsi. Meno conflitto c’è, meno efficace si rivela l’insegnamento, perché cade nella zona grigia dell’indifferenza.

Purtroppo nella riflessione sulla didattica delle lingue straniere questa dimensione dello spazio tra le lingue – che è uno spazio vuoto, non determinato in partenza, perché può rendere più creativi, ma può anche far emergere dei conflitti – non è sempre presente, anzi tutti gli sforzi vanno nella direzione opposta. Quasi dappertutto – non solo nelle scuole di lingua – i processi di insegnamento vengono orientati verso una commercializzazione della lingua: si offrono corsi che permettono di acquisire in tempi rapidi un ottimo prodotto (ovviamente non si tratta qui di un guadagno capitalizzabile, uso questa metafora perché mette in evidenza la concezione riduttiva dell’insegnamento). Chiunque conosca la ricerca sull’apprendimento delle lingue seconde o abbia esperienza diretta nell’insegnamento delle lingue straniere sa che i processi di apprendimento sono molto più complessi, e soprattutto che non si svolgono in modo lineare, ma sono caratterizzati da situazioni di progresso, di regresso, di stallo, causati da fattori interni ed esterni. Per superare queste difficoltà, a chi insegna e a chi impara sono necessarie molte più energie e molta più creatività di quanto di solito si voglia ammettere, banalizzando le difficoltà effettivamente esistenti oppure – in mancanza di meglio – accettando delle risposte semplicistiche.

Come si è visto, una lingua straniera può aprire ad un uso linguistico diverso, può invitare a spostare il proprio dispositivo linguistico e inevitabilmente dà la possibilità di riferirsi a se stessi e al mondo in un’altra maniera, perché una lingua straniera non è semplicemente la traduzione della madrelingua.
Se si parte dal presupposto che gli studenti hanno già un sapere linguistico che conferisce loro la capacità di cogliere significati in una lingua straniera mettendo in gioco la loro competenza semantica, pragmatica e interattiva, si può evitare di inquadrare le preconoscenze degli studenti soltanto a livello formale e di conseguenza sottovalutare le loro capacità espressive o interattive già presenti nella lingua straniera. È proprio questo il momento in cui chi impara una lingua riesce a percepire lo spazio simbolico sempre presente: quando ciò che si vuole esprimere va oltre le strutture che si hanno a disposizione e la necessità espressiva rende inventivi.
Questo spazio si esplora preferibilmente dialogando, e cioè quando si vuole rendere udibile, visibile, tangibile la propria idea ad altre e ad altri. In questo senso l’apprendimento di una lingua straniera ci confronta con una esigenza che sentiamo prima di tutto nella lingua materna.

Infine propongo un ultimo racconto, non come conclusione, ma come punto di partenza: tutti conoscono la storia della Torre di Babele, ma pochi sanno la sua interpretazione secondo il Midrash, l’insegnamento orale della Bibbia, riportata da Giacoma Limentani:

“Rinati dopo il diluvio, gli esseri umani parlano una sola lingua e usano le stesse espressioni, per cui tutti d’accordo si dicono l’un l’altro: ‘Suvvia, facciamoci una torre la cui cima arrivi in cielo’. (...) ‘Punisci questi pazzi!’, dicono gli angeli a Dio. ‘Sterminali come hai sterminato la generazione del diluvio. Non vedi che hanno perso il senso dei valori?’ Ma Dio non può né vuole punirli, perché agiscono di comune accordo e la pace è il massimo bene. Perché la loro diventi una vera pace, prova a farli ragionare dividendo le loro lingue, in modo che facendo fatica a comprendersi si interroghino l’un l’altro e così riflettano. Lingue diverse ed espressioni diverse generano idee diverse, e quindi il contraddittorio indispensabile sempre, ma soprattutto quando una meta comune sta diventando comune monomania e rischia di portare alla rovina”
(Giacoma Limentani, Il Midrash, Paoline, Milano 1996, p. 16 sgg.).


Eva-Maria Thüne è nata in Germania e vive in Italia dove insegna Lingua tedesca presso l’Università di Bologna. Le sue ricerche vertono in particolare su tematiche del tedesco come lingua straniera, sull’intercultura, su studi di genere e sull’analisi della conversazione.
Tra le sue pubblicazioni: Deutsch lehren und lernen in Italien (Unipress, Padova 1999), "La memoria bilingue è simmetrica? Analisi di testi orali in italiano e in tedesco" in Simmetria e Antisimmetria. Due spinte in conflitto nella cultura dei paesi di lingua tedesca (a cura di Luciano Zagari, ETS, Pisa 2001), "Italian" (con Gianna Marcato) in Gender across languages. The representation of men and women through language (a cura di M. Hellinger e H. Bussman, Vol. 2, Benjamins, Amsterdam 2002), Telefonare in diverse lingue. Organizzazione sequenziale, routine e rituali in telefonate di servizio, di emergenza e fàtiche (con Simona Leonardi, Francoangeli, Milano 2003)
Il saggio pubblicato è tratto dal volume a sua cura :All’inizio di tutto la lingua materna (Rosenberg & Sellier, Torino1998).



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