LA
FORZA DEL RACCONTO Pier
Vittorio Tondelli spiegava così il suo concetto personale della letteratura
emotiva: “La mia letteratura è emotiva, le mie storie sono emotive;
l’unico spazio che ha il testo per durare è quello emozionale; se
dopo due pagine il lettore non avverte il crescendo e si chiede: ‘Che cosa
sto leggendo?’, quello che non capisce niente mica è lui, è
lo scrittore. Dopo due righe, il lettore deve essere schiavizzato, incapace di
liberarsi dalla pagina, deve trovarsi coinvolto fino al parossismo, deve sudare
e prendere cazzotti, e ridere, e guaire, e provare estremo godimento. Questa è
letteratura. La letteratura emotiva è letteratura di potenza. La letteratura
emotiva è quella più intimamente connessa alla lingua; la letteratura
emotiva esprime le intensità intime ed emozionali del linguaggio. La letteratura
emotiva è il “sound” del linguaggio parlato, è codice
sonoro, è catena fonica. La letteratura che commuove, letteratura legata
al linguaggio, unica letteratura che dura, la scrittura emotiva, la scrittura
parlata, il sound del linguaggio parlato, l’emozione del linguaggio parlato.
Il testo diventa una questione di ritmo: finché c’è swing,
non finisce. Per questo il racconto è il miglior tempo della narrazione
emotiva, la quale finisce quando è ora di finire: non una battuta in più,
che poi il lettore si fiacca; invece il lettore deve essere sempre tenuto sotto
shock, deve bere il racconto tutto intero e d’un fiato; se si arresta è
come un Manhattan che, se si lascia lì dieci secondi, svapora e non sa
più di niente. Il racconto dunque non il romanzo. Il romanzo è
morto; il romanzo monolitico alla fine rompe! Non c’è più
tempo per dedicare giorni e giorni alla letteratura, bisogna che il testo sia
digeribile in poco tempo: mezz’ora, un’ora, sull’autobus, in
metrò, in barca, al caffè: un racconto e via! Questa è
la letteratura emotiva, questa è la scrittura emotiva: sorseggiatene due
parole e non vi lascerà fino alla fine! È un ritmo, un crescendo,
una discesa agli inferi, una rampata in vetta; è sempre un movimento; la
scrittura emotiva è un viaggio; la scrittura emotiva è spigolosa,
è forte, è densa, si tocca con il corpo, ci si fa all’amore,
entra dentro, ti prende, ti penetra, ti suona, canta: ecco la forza della letteratura.”
TIC E PARALISI
Paul Theroux, sul suo recente libro L’infermiera Wolf e il dottor Sacks,
afferma che “per uno che viene da fuori, la città di New York sembra
popolata da persone sull’orlo di una crisi di nervi (...) C’erano
sempre persone che parlavano da sole, con grande serietà e ad alta voce,
proferendo delle minacce. C’erano sempre persone che si rifugiavano negli
androni, o si piegavano in due dal ridere – cosa ci sarà stato di
tanto buffo? Oppure che stavano accovacciate davanti ai negozi mormorando ‘Blee-blee’.
C’erano persone che sbraitavano, e altre in cerca di guai, persone con tic
e paralisi (...) C’era quasi sempre qualcuno con l’aria disperata...”.
NOBEL:
CENTO CONTRO UNO Una
regola d’oro: non scommetere mai sulle scelte letterarie dell’Accademia
svedese! – ha scritto Pierre Assouline su La République
des Livres. Dopo averle seguite per un lungo tempo ci rendiamo conto che
non solo loro fanno quello che vogliono e se ne fregano delle pressioni, ma anche
che loro sono così ossesionati dal segreto che sembra che ci tengano proprio
a contrariare tutti i pronostici. Così il giornale Libération
ha pensato di consultare i bookmakers di Londra Ladbrokes, che scomettono su qualunque
cosa, e ha creduto di aver capito che il poeta Adonis era il nome più gettonato
per il Nobel dell’anno scorso. È già da qualche tempo che
lui è presente nella lista dei “papabili” insieme a Michel
Tournier, Philip Roth, Tahar ben Jelloun e alcuni altri. Ma che! Ha vinto l’austriaca
Elfreide Jelinek, che non è mai stata citata come candidata al Nobel, e
alla quale nessuno pensava, anche perché il suo discorso, la sua prosa
e le sue prese di posizione sono considerate di una violenza estrema per la buona
società viennese. Al punto di essere chiamata “fascista di sinistra”!
Ma non interessa, il comitato Nobel dell’Accademia ha sorpreso tutti come
mai prima.
IL CUGINO BOB Chi
l’avrebbe detto: Balzac è lo scrittore favorito di Bob Dylan! Questa
è una delle rivelazioni presenti nel primo volume delle sue “Cronache”,
le memorie del cantante che sono state pubblicate a New York dalla Simon &
Schuster. “Lui è il mio romanziere-feticcio” ha scritto, ciò
che è rincuorante in un tempo in cui sembra essere di moda, almeno negli
anfiteatri delle università francesi, lasciar trapelare un certo disprezzo
per il troppo prolifico e forse troppo poco cultore dello stile autore della Commedia
umana. Quando Dylan tornerà in Europa la prossima volta, dovremmo
chiedere a Mister Tambourine Man del “cugino Pons” o di “papà
Goriot”.
FUORI
DAL MONDO Jonathan Safran Foer,
uno dei più promettenti scrittori statunitensi di oggi, autore dei romanzi
Everything Is Illuminated, e Extremely Loud & Incredibly Close
ha scritto recentemente sul The New York Times che “non posso leggere
quasi nessuno dei miei eroi letterari – Ovidio, Kafka, Rilke, Schultz, Grass,
Garcia Márquez, Amichai – nelle loro lingue originali. E i libri
che più mi hanno ispirato nell’anno scorso – Garden, Ashes
di Danilo Kis, The Noodle Maker di Ma Jian, Blindness di José
Saramago, Sayonara, Gangsters di Genichiro Takahashi e My Name Is
Red, di Orhan Pamuk – sono stati scritti in serbocroato, cinese, portoghese,
giapponese e turco, rispettivamente. Forse è solo una coincidenza. Ma non
mi risulta che io sia entrato in stretta sintonia con questi libri perché
sono stranieri. È proprio l’opposto. Io li amo per le loro capacità
di descrivere ciò che mi è familiare e presente nel mio universo
personale. Ed è successo che queste descrizioni siano state fatte con parole
che io non sono in grado di capire. Dobbiamo vergognarci che meno del 3%
dei libri pubblicati negli Stati uniti ogni anno siano stati tradotti da una lingua
straniera, in paragone con percentuali molto più generose (dal 25% al 45%)
in praticamente tutti gli altri paesi del mondo. E quasi tutto il nostro 3% consiste
in ritraduzioni dei classici, quindi il numero reale di nuove voci arrivate dall’estero
è molto più basso. Noi focalizziamo praticamente tutta la nostra
attenzione politica e militare nel Medio Oriente, ma quanti di noi può
affermare di aver letto un singolo libro di letteratura Araba in traduzione? Per
un cittadino come me, è spaventoso vedersi di fronte un futuro nel quale
i rapporti con quelli con cui dovremo convivere saranno solo diplomatici, non
umani. È attraverso l’arte, dopotutto, che la cultura esprime la
sua umanità. Come scrittore, so che se non sarò un partecipante
del dialogo tra le culture – come uno che parla ma non ascolta – io
sarò meno scrittore. Come accade con la scienza, l’arte dipende dagli
esperimenti fatti dagli altri. I grandi passi in avanti sono stati fatti non tanto
dagli individui ma dagli ambienti (non è a caso che le innovazioni tendono
ad arrivare in gruppo). Così non ci sono dubbi che questo sia un momento
terribile per essere uno scrittore statunitense. O anche per essere un lettore
statunitense. Spesso penso ai libri che io non leggerò mai e che avrebbero
potuto cambiare la mia vita. (Ci dovrebbe essere una parola per definire questa
connessione mancata. Forse un’altra lingua possiede una tale parola...)
E chi non vorrebbe avere più eroi? Chi non vorrebbe essere il più
ispirato possibile?
SUI
LIMITI DEL PERDONO Ivan Karamazov,
nel romanzo di Dostoevskij, di fronte all’episodio di un bambino fatto sbranare
dai cani del padrone, come punizione per avere involontariamente offeso la zampa
di un cane, così commenta: “non voglio... che la madre s’abbracci
col carnefice che ha fatto sbranare suo figlio dai cani!... Non voglio l’armonia:
per amore stesso dell’umanità, non la voglio. Voglio che si rimanga,
piuttosto, con le sofferenze invendicate. Preferisco, io, rimanere nel mio stato
di invendicata sofferenza e d’implacato scontento”.
RICORDARE
PER SEMPRE E
per chiudere le Dicas di questa edizione, un mini-racconto di Andrea Bocconi:
Bambini, solo bambini “C'era un grande silenzio soffice, in
cui si avanzava a fatica. La Dea dai mille seni aspettava, lei non poteva fare
neanche un passo; dovevano essere loro a trovarla. I bambini arrivavano a
gruppetti. Non lasciavano mai solo chi si era perso, per questo ci mettevano tanto.
Un brusio di lacrime li guidava. Man mano che arrivavano si addormentavano
sui suoi seni. La Dea cresceva perché i bambini erano tanti, erano troppi.
La tenerezza si mescolava a un'ira feroce, che le faceva rotear gli occhi e le
mille braccia. I bambini di lei non avevano paura; nessun altro osava avvicinarsi,
solo ai piccoli offriva rifugio. Ai grandi sarebbe stato impedito di dimenticare,
per molte vite a venire: negli occhi il sangue nelle orecchie le grida nella testa
i pensieri freddi nel petto le paure rabbiose. Le lingue, secche. Ricordare
per sempre forse non sarebbe bastato. Anche la Dea sentiva un desiderio di
dormire, mentre l'ultimo dei bambini morti si attaccava al suo seno.”
Copertina.
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