Heiner Müller
intervistato da Fritz M. Raddatz (1991)

 

IL MALE È IL FUTURO

 

Heiner Müller

 


R.: Heiner Müller, semplificando molto si potrebbe forse affermare che questa Guerra del Golfo rappresenti anche un conflitto tra l'accelerazione (americana) e il rallentamento (arabo) ovvero, mettendo da parte per un attimo la tirannia di Saddam Hussein, tra la tecnica del futuro e le liste di guerra del passato. In questa sede tuttavia non vogliamo discutere di guerra, quanto del conflitto dei tempi. Il futuro finora è stato colonizzato dall'utopia. Con il fallimento del socialismo si è chiusa anche quest'epoca?

Se ora tramonta il punto di fuga utopico, ciò non ha solo conseguenze negative, perché svalorizzando il presente per una finzione di futuro, l'utopia richiede all'individuo sacrifici e rinunce. L'utopia va sempre a danno della vita autentica. La vera questione è se il futuro sia ancora qualitativamente immaginabile. Nelle strutture fluttuanti di oggi quel che conta non è l'esistenza dell'individuo, quanto il suo funzionamento. Questo processo sfocia direttamente nella presa del potere da parte dei computer.
A partire da queste premesse la mortalità, la memoria, la storia, tutto ciò che costituisce il soggetto e ne disturba il buon funzionamento, viene sovraccaricato di utopia. Nel film di fantascienza Blade Runner i computer scioperano perché vogliono essere mortali. Chi non può morire non può nemmeno vivere. Di fronte alla funzionalizzazione totale del soggetto da parte della tecnologia, acquista un nuovo significato l'ingenua affermazione di Jean Paul: "la memoria è l'unico paradiso da cui nessuno ci può scacciare".

R.: La memoria come ultimo bastione del soggetto?

Queste sono le condizioni. Oggi non ne va più del tramonto di qualsivoglia classe o stile di vita, quanto del tramonto del soggetto stesso. La tendenza è che le persone non parlano piú col loro armadio, ovvero con gli oggetti del ricordo, come Gaev nel Giardino dei ciliegi di Čehov, bensí col televisore, che ha una risposta a tutto, che può ricordare tutto. Ciò è letale perché il soggetto viene prima scalzato e poi inghiottito. L'unico antidoto a questo processo è l'arte. Fare arte non è che un modo di parlare con se stessi. Chi non riesce parlare con se stesso non può nemmeno realizzare qualcosa. Se invece si fa qualcosa, non c'è piú motivo di occuparsi del vecchio. Si può finire di scrivere un testo solo se si ha già in testa il prossimo. Un bambino partorisce l'altro. È un codice genetico. I materiali sono relativamente casuali. Mentre il ritmo della scrittura, della pittura, della musica o di qualunque altra cosa è una questione corporea assolutamente soggettiva, una comunicazione esclusiva con il proprio codice genetico. Quel che infine si coagula intorno a queste molecole è un'oggettiva casualità.

R.: Anche la psicoanalisi, cercando di portare alla luce il dimenticato, il rimosso, per stabilizzare l'identità, conferisce al ricordo una funzione centrale.

Dimenticare è controrivoluzionario. La tecnologia tutta spinge verso l'annientamento del ricordo. Ma la psicoanalisi è il contrario dell'arte. L'arte può essere definita come una fuga dall'autoanalisi. Se io so cosa sono, non ho piú alcun motivo di esistere, di continuare a scrivere o di fare qualunque altra cosa. La psicoanalisi non comunica col codice, bensí lo violenta, lo piega fino a quando l'interessato non ritorna a funzionare nel consorzio funzionale della società. La psicoanalisi simula nel vivente il processo di morte.
A cose normali la vita appare nella sua totalità solo negli ultimi secondi di vita, nel famoso film un attimo prima di morire. Solo in quel momento uno sa chi è. Si tratta del primo chiaro sguardo verso il proprio codice genetico; in quel momento si acquista coscienza che si è compiuta la missione e si può andare via. L'arte è il tentativo di trattenere il tempo fino a quel momento, di fermarlo. L'impulso della conoscenza è un impulso necrofilo, l'arte è il tentativo di narcotizzare quell'impulso, di costruire contro di esso delle barriere.

R.: Già nel tempio di Delfi compariva l'iscrizione "riconosci te stesso"; come dire, un invito ad agire razionalmente con l'oracolo. Forse anche un verdetto contro l'arte...

W.H. Auden traccia una differenza tra i "maker" e i "doer of things". Con "maker" intende gli artisti, con "doer" i politici, gli scienziati, i manager... tra questi due gruppi vige un reciproco disprezzo. Si tratta di due posizioni fondamentalmente incompatibili tra loro. Il "doer" deve comprendere la natura delle cose, il loro reale meccanismo di funzionamento, per poterle dominare, mentre di ciò il "maker" sostanzialmente se ne frega. I collegamenti tra i diversi elementi strutturali diventano sempre piú complessi, sono caricati di energia che non si può incanalare. L'artista gioca con questi elementi strutturali, ricompone le particelle di realtà, rovescia in parte la realtà. Ciò può essere controllato sempre meno dalla società, ed ecco perché cresce costantemente l'avversione verso gli artisti. L'arte è un pericolo per l'esistente.
Giocare con la realtà è un'attività sovversiva, perché la realtà viene disgregata. Contro quest'attività agisce il mercato dell'arte, trasformando le opere d'arte in beni culturali per sterilizzarle, renderle inoffensive, immetterle nella circolazione del mercato. Le opere d'arte hanno invece bisogno di quiete per esercitare le loro potenzialità distruttive.
Lo stesso accade al teatro attraverso i festival, che sono controllati dai "doer". La funzione del festival è quella di strappare alle messe in scena ciò che costituisce la loro aura, la loro efficacia. Finché un'opera d'arte - sia essa una pièce, un quadro o un libro - circola, essa non può penetrare la realtà, ovvero le percezioni della realtà. I "maker" in cuor loro sanno che la realtà è solo una finzione, e vivono nel terrore viscerale che queste percezioni illusorie della realtà vengano intaccate. Lo staus quo in cui si vive, o in cui si crede di dover vivere, viene difeso con ogni mezzo.
Le opere d'arte non funzionano, bensí agiscono rimuovendo la forza di gravità del vecchio. Quel che viene percepito come realtà è solo il tramandato, l'arte invece si muove fondamentalmente nella sfera del non-tramandato.

R.: Ma noi tuttavia recepiamo l'arte come un momento della storia.

Si tratta di separare la letteratura dalle biblioteche, le opere d'arte dai musei, la scrittura dalla lettura. Chi vuol negare che un dramma di Shakespeare sia piú attuale di un testo di questo secolo?
La tendenza alla musealizzazione dell'arte deriva dal fatto che noi tutti viviamo in un museo. Questa è l'esperienza fondamentale di ogni uomo, ed essa offre il metro con cui l'uomo percepisce la realtà. Ogni bambino cresce inevitabilmente insieme ad oggetti, per esempio i mobili, piú vecchi di lui. Le cose di cui viviamo e in cui viviamo sono sempre piú vecchie di noi. La moda gratta solo in superficie, non agisce al cuore, dove domina la gravità del vecchio. Dobbiamo acquistare coscienza di quest'esperienza fondamentale per potercela scrollare di dosso. Anche la storia, ovvero la nostra percezione della storia, non è niente di concluso, bensí deve essere costantemente tenuta in movimento.
Esiste una tesi secondo la quale Lenin era un dadaista e la Rivoluzione d'Ottobre una performance dadaista. Anche se si tratta di un'assoluta scemenza, il principio resta fondamentalmente corretto. Si tratta di un tentativo di portar fuori la storia dai musei. Solo fuori dal museo la storia parla, i morti ci rivolgono la parola. Portare la storia e l'arte fuori dai musei significa strapparle alla morte e costruire il discorso dei vivi. È possibile vivere solo attraverso la produzione di sempre nuovi punti di vista sul vecchio, tutto il resto rende zombie.

R.: L'aspetto inattraente della DDR era la polvere che giaceva nell'aria, l'antiquatezza. Ogni nuova moda, ogni nuova musica, ogni innovazione tecnica, dalla fotocopiatrice al walkman, veniva avvertita come una provocazione da soffocare.

L'unica legittimazione della DDR proveniva dall'antifascismo, dai morti, dalle vittime. Per un certo tempo fu una cosa onorevole, dopo un po' cominciò a gravare sulle spalle dei vivi. Si era arrivati a una dittatura dei morti sui vivi - con tutte le conseguenze economiche del caso, perché i morti non hanno bisogno di jeans, kiwi, walkman. Quel che la DDR produceva erano nel migliore dei casi oblazioni ai defunti. Era il diabolico in quella struttura, il suo retaggio cristiano - l'attesa del messia che viene dal regno dei morti. Ma il messia arriva sempre troppo tardi, è un fatto che bisogna sopportare ma non è sopportabile. Ci sono due tipi di civiltà: quella orientata verso i vivi e quella orientata verso i morti. Il socialismo si sente obbligato verso i morti, verso le vittime. Per questo era anche un luogo della lentezza. I morti hanno un sacco di tempo.
Da qui ha origine tutto il disastro economico. Forse si tratta di una forma di civiltà piú nobile, però quella orientata verso i vivi, quella piú triviale, è anche quella che funziona.

R.: Stupisce però che una forma di società orientata sul materialismo storico tendesse alla metafisica. Nella DDR si diceva: "L'insegnamento di Karl Marx è onnipotente perché vero". Majakovskij ha detto: "Lenin è piú vivo di qualunque essere vivente".

Ma solo se esce dal suo mausoleo. Allora il morbo è di nuovo libero di espandersi. È assolutamente indifferente a quale filosofema si rifaccia una società che prenda sul serio l'utopia - essa mobiliterà inevitabilmente energie religiose. Non esistono utopie o redenzioni senza messia, perché l'unica utopia conosciuta dal mondo è quella ebraica. Anche se esistono mille variazioni diverse, l'utopia ebraica è quella originale, l'archetipo. L'utopia nazionalsocialista e quella comunista sono due varianti della filosofia ebraica. È stato il clinch di questo secolo, lo scontro tra due teocrazie, l'una voleva salvare solo i tedeschi, l'altra tutto il mondo, era piú umana. Questo scontro è l'immagine fondamentale del secolo.
E qui risiede anche l'origine dell'antisemitismo - il padre deve essere ucciso, la struttura edipica. Un problema squisitamente europeo, perché nessun africano si pone il problema spiritual-morale di uccidere il padre o di andare a letto con la madre. Per l'africano non si tratta di una struttura secondo cui orienta la propria vita.

R.: Ma l'idea di costruire una società fondata sull'uguaglianza dei diritti e sulla giustizia sociale non è affatto teocratica o patologica, bensí in se ragionevole...

Solo come idea. Ogni società che si propone di realizzare un'utopia si muove su un altro asse temporale, su quello messianico. La Repubblica Federale si muove nel tempo empirico. Nessun partito politico proclama: "Se saliamo al potere, fra trent'anni avremo il paradiso in terra". Si sa che finché c'è crescita la società prospera, altrimenti arriva la recessione, il che importa poco a coloro che sono già saturi.
Inoltre la Repubblica Federale ha realizzato le promesse del nazionalsocialismo. Qualunque tedesco oggi può sfrecciare con una Volkswagen sulle autostrade, la spazzatura viene raccolta da stranieri privi di diritti e i bordelli sono pieni di donne africane e asiatiche.
I problemi sorgono se una società si dà alla mobilità. Gli ebrei non avevano alcun luogo, perciò si inventarono una patria, che era l'utopia - il non-luogo. In tal modo trasferirono la loro patria dall'asse spaziale a quello temporale. Il nomade si muove ciclicamente di luogo in luogo coltivando un'immagine mitica del mondo. Ma gli ebrei non avevano luoghi e perciò neanche un presente. Chi non ha un luogo non ha nemmeno un tempo proprio. Per cui ha bisogno di un altro tempo, per l'appunto il messianico. Gli ebrei non avevano un luogo per i morti, non potevano comunicare con gli antenati - da qui deriva l'idea della resurrezione.
Il tutto comporta una straordinaria capacità di astrazione, e questo spiega la congruenza di antisemitismo e antiintellettualismo. In fondo ogni intellettuale è un ebreo. Dalla prospettiva della mobilità si comprende anche l'affinità degli ebrei col denaro. Il denaro e il capitale sono anch'essi privi di luogo. Gli ebrei potevano sopravvivere solo accoppiando la loro mancanza di un luogo, l'inquietudine e il movimento, con la struttura monetaria, che è ugualmente flessibile e mobile.
Gli ebrei erano l'irrequietezza nell'orologio. Ciò semina paura dovunque ci siano organizzazioni statali, fortificazioni, punti fissi, perché si tratta di una struttura disgregante, in ultima analisi antistatale. Gli unici che nel nostro tempo mantengono ancora questa struttura mobile e antistatale sono gli zingari. Solo con la loro semplice presenza sono una provocazione. In quanto esponenti di una struttura mobile, mettono in discussione tutto ciò su cui si fonda uno stato.
La vera tragedia è la costituzione dello stato di Israele. Si tratta di una trappola, una reazione all'antisemitismo e ai pogrom. Israele ha fatto degli ebrei un popolo statale, portandoli ad abbandonare la loro struttura originaria. In fin dei conti Hitler ha trasformato gli ebrei in romani. Roma è l'archetipo dello stato e della sua struttura imperiale.

R.: Nella tradizione biblica alle origini di questo sviluppo c'è Caino. Il fratricida è stato il primo fondatore della città.

La relazione tra società mobili e sedentarie è sempre stata conflittuale. Se gli ebrei rappresentano la testa della struttura mobile, i mongoli ne furono il braccio. Dal punto di vista puramente militare, la loro supremazia era originata dall'invenzione della sella, che consentiva loro di utilizzare le armi in modo piú effettivo, nel caso concreto a due mani. Ma la cosa piú interessante era la loro mentalità di conquistatori. I mongoli non vollero mai costruire un impero, bensí solo distruggerne il maggior numero possibile. Appena Gengis-Khan prendeva una città russa, la prima cosa che faceva era uccidere tutti gli artigiani. Gli artigiani sono i vettori della stabilità, costruiscono case, fortificazioni, riparano, quindi stabilizzano. Anche dopo aver conquistato mezza Europa, la Turchia, gran parte dell'Asia, i mongoli non hanno mai fondato una città nei loro possedimenti. Inoltre seppellivano i loro morti in modo tale che non potessero piú essere localizzati. I cadaveri venivano gettati in qualche fossa e poi i mongoli vi cavalcavano sopra finché la sepoltura non era piú riconoscibile. Fino ad oggi nessuno sa dove è seppellito Gengis-Khan.
Senza morti tuttavia non si può costruire alcuno stato. La mobilità è una forma di esistenza. La stabilità è un ideale, un programma. A scuola il giorno piú bello è quello dell'escursione, la gita scolastica è non-lezione, è sorpresa. Nella stabilità devono essere digerite tutte le esperienze della mobilità. Ciò avvelena l'esistenza, e da qui nascono le esplosioni.

R.: Il problema fondamentale del prossimo secolo sarà l'immigrazione dei popoli dal terzo al primo mondo.

Finché esisteva un secondo mondo, c'era ancora speranza per il terzo. Ora questa speranza non c'è piú. Il vero colpo di genio di Hitler è stato quello di capire che l'Europa avrebbe potuto sopravvivere solo nella mobilità. L'Europa è sempre stato un centro da cui ci si è mossi, ma il centro stesso non si è mai spostato di un passo.
La vera funzione della Rivoluzione d'Ottobre consisteva nel muovere il mondo contro l'Europa. Il prezzo da pagare è stato il congelamento dell'idea di comunismo. Hitler aveva capito che questo movimento del mondo avviato dalla rivoluzione russa contro l'Europa avrebbe potuto essere arrestato solo dalla mobilità. Dalla traslazione dell'Europa in uno stato liquido. Il suo grande problema era la mancanza di carburante. Questo sarà anche il problema del futuro. Gli americani possono pure fare i salti mortali, non c'è comunque abbastanza energia.
Mentre noi continuavamo a pensare per fasi accettando lo status quo, Gorbačëv è stato il primo a riconoscere la lezione del XX secolo, decostruendo il blocco socialista e realizzando la tesi dell'abolizione dello stato da parte del socialismo in ben altri termini rispetto a quelli prospettati da Lenin. Gorbačëv aveva bisogno di quell'accelerazione per rompere la stasi della Rivoluzione d'Ottobre. In tal modo ha fatto rivivere, ovvero reso possibile, la strategia della mobilità ai tempi della bomba atomica.
La mobilità era un privilegio dell'occidente, però solo in un determinato quadro economico. Questo quadro ora è stato distrutto da Gorbačëv - usando le parole di Baudrillard: "adesso abbiamo superato l'era del muto del politico".
Gorbačëv ha concluso la Guerra Fredda sciogliendo il conflitto est/ovest, ovvero la concorrenza delle ideologie, in quello nord/sud. La questione ora non sono piú le idee, bensí le realtà. Gorbačëv ha riportato lo scontro tra capitalismo e socialismo al loro autentico nucleo materialistico: il conflitto tra ricco e povero. Tale conflitto acquista ora un significato e una forza storicamente mondiali.
Il rimedio che propone la fortezza Europa è assolutamente stupido. Non ne verrà fuori niente. Gli effetti della Rivoluzione d'Ottobre non possono piú essere arrestati. Fuori dalla fortezza milioni di miserabili attendono il momento di entrare. È un'illusione credere che l'Europa possa salvarsi sulla difensiva. La vittoria del capitalismo ne preannuncia la fine, non si può conquistare chi ti si getta al collo. Al massimo ti può soffocare. Il capitalismo, l'aggressore tradizionale europeo, è accerchiato dall'Asia e dall'Africa ed è con le spalle al muro d'ozono sforacchiato.
Realizzando la tesi di Lenin sull'abolizione dello stato da parte del socialismo, Gorbačëv ha liberato il socialismo dalla dittatura dei morti e ha dato il benservito al retaggio cristiano. Quel che per la coscienza borghese rappresenta il male è ora libero di svilupparsi in tutte le sue varianti, non è piú concepibile con le categorie tramandate. Secondo certe tradizioni eretiche il messia ha origine dalla tradizione del male: durante il giudizio universale qualcuno si alza e dice: "J'appelle", e colui che solleva l'obiezione non è altri che Gesú.

 

La società borghese si fonda sulla discriminazione, sull'isolamento, ma se non riesce piú a identificare il male essa non può piú isolarsi, e nemmeno autodefinirsi, perché a questo scopo avrebbe bisogno dell'altro, del regno del male. Quel regno ora si è dissolto con le proprie mani, spianando la strada al declino della società borghese. Il male è il futuro. Quel che resta della società borghese è la frase di Rimbaud: "io è l'altro". Il sogno dell'avanguardia torna d'attualità sotto forma di incubo. Non potendosi piú isolare, la coscienza borghese in quanto soggetto storico è destinata a dissolversi.

R.: Questo nuovo "ordine mondiale" può essere compreso anche sotto l'aspetto dell'emancipazione?

Solo negativamente. Perché ad emanciparsi può essere solo il singolo. Un conglomerato formato dal singolo e da altri individui non si può emancipare. Neppure i gruppi si possono emancipare. Il singolo in quanto tale può sviluppare una coscienza, nel gruppo o insieme ad altri può sviluppare solo una falsa coscienza. Ogni individuo che vive in una struttura di gruppo deve rinunciare a una parte di sé. Tutto ciò che vale per due persone è falso. Vero è ciò che vale per il singolo, per l'individuo. A cominciare dal rapporto tra uomo e donna. Solo l'idea che tra un uomo e una donna possa esserci una comunione è falsa, perché le condizioni a tal fine sono troppo diverse. Questa differenza può essere rimossa solo da una falsa coscienza.
L'amore è una metafora per la falsa coscienza. L'effettivo contenuto del comunismo è la promozione dell'individualità, e a ciò appartiene anche l'abolizione dell'amore. Il comunismo è il riconoscimento della singolarità dell'individuo. La comunione è solo una formula con cui si legittima l'invasione dell'individualità. Quel che occorre imparare, e in ciò consiste l'emancipazione, è a sopportare la solitudine.

(Traduzione di Antonello Piana)



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