LA VECCHIA SINGER
( – brano del romanzo L’amore molesto – )
Elena Ferrante
(...) “Voi donne vi deprimete troppo facilmente” sbottò dimenticandosi subito, con quel “troppo facilmente”, ciò che mi aveva appena ricordato: che avevamo seppellito da poco mia madre e avevo qualche buona ragione per essere depressa.
D'altra parte depressa non ero affatto. Mi sentivo invece come se mi fossi lasciata in un posto e non fossi più in grado di ritrovarmi: affannata, cioè, coi movimenti troppo veloci e scarsamente coordinati, la fretta di chi fruga dappertutto e non ha tempo da perdere. Pensai che una camomilla mi avrebbe fatto bene e spinsi zio Filippo nel primo bar che incontrammo in via Scarlatti, mentre lui attaccava a parlare della moglie, che appunto era sempre triste: dura, gran lavoratrice, attenta, ordinata ma triste. Il luogo chiuso però mi fece l'effetto di un batuffolo d'ovatta in bocca. L'odore intenso del caffè e le voci troppo alte di clienti e baristi mi ricacciarono verso l'uscita, mentre mio zio già strillava, con la mano alla tasca interna della giacca: “Pago io!”. Mi sedetti a un tavolo sul marciapiede, tra stridor di freni, odore di pioggia imminente e di benzina, autobus stracolmi a passo d'uomo e gente che passava in fretta urtando contro il tavolino. “Pago io” ripeté zio Filippo più fiaccamente, anche se non avevamo nemmeno ordinato e dubitavo che sarebbe mai comparso un cameriere. Poi si sistemò ben bene sulla sedia e cominciò a lodarsi: “Io sono sempre stato un carattere energico. Senza soldi? Senza soldi. Senza braccio? Senza braccio. Senza femmine? Senza femmine. L'essenziale è la bocca e le gambe: per parlare quando ti pare e per andare dove ti pare. Ho ragione o no?”.
“Sì”.
“Anche tua madre è così. Noi siamo una razza che non si avvilisce. Quand'era piccola, si faceva male continuamente ma non piangeva: nostra madre ci aveva insegnato a soffiare sulla ferita e a ripetere: poi mi passa. Anche quando lavorava e si pungeva con l'ago, le era rimasta questa abitudine di dire: poi mi passa. Una volta l'ago della Singer le bucò l'unghia dell'indice, uscì dall'altra parte, risalì e entrò di nuovo, tre o quattro volte. Beh, bloccò il pedale, poi lo riavviò appena appena per estrarre l'ago, si fasciò il dito e riprese a lavorare. Io non l'ho mai vista triste”.
Fu tutto quello che sentii. Mi pareva di affondare con la nuca nella vetrina alle mie spalle. Anche la parete rossa dell'Upim di fronte sembrava colore fresco, appena strizzato. Lasciai che i rumori di via Scarlatti diventassero così forti da coprirgli la voce. Gli vidi le labbra che si muovevano, di profilo, senza suono: mi sembrarono di gomma, mosse con due dita dall'interno. Aveva settant'anni e nessun motivo per essere soddisfatto di sé, ma si studiava di esserlo e forse lo era davvero quando avviava quella chiacchiera senza sosta che i movimenti impercettibili delle labbra articolavano velocemente. Per un attimo pensai con orrore a maschi e femmine come organismi viventi, e mi immaginai un lavoro di bulino che ci levigasse come sagome d'avorio, riducendoci senza fori e senza escrescenze, tutti identici e privi di identità, nessun gioco di tratti somatici, niente calibratura delle piccole differenze.
Quel dito ferito di mia madre, forato dall'ago quando non aveva nemmeno dieci anni, mi era noto più delle mie dita proprio grazie a quel dettaglio. Era viola e alla lunetta l'unghia pareva sprofondare. Avevo desiderato a lungo di leccarlo e succhiarlo, più dei suoi capezzoli. Forse me l'aveva lasciato fare quando ero ancora molto piccola, senza sottrarsi. Sul polpastrello c'era una cicatrice bianca: la ferita s'era infettata, gliel'avevano incisa. Io ci sentivo intorno l'odore della sua vecchia Singer, con quella forma d'animale elegante mezzo cane mezzo gatto, l'odore della corda di cuoio screpolato che trasmetteva il movimento del pedale dal volano grande a quello piccolo, l'ago che andava su e giù dal muso, il filo che correva per le nari e le orecchie, il rocchetto che ruotava sul perno conficcato nella groppa. Ci sentivo il sapore dell'olio che serviva a ingrassarla, la pasta nera del grasso misto a polvere che grattavo via con l'unghia e mangiavo di nascosto. Progettavo di bucarmi anch'io l'unghia, per farle capire che era rischioso negarmi quello che non avevo.
Erano troppe le storie delle sue infinite, minuscole diversità che la rendevano irraggiungibile, e che tutte insieme la facevano diventare un essere desiderato, nel mondo esterno, almeno quanto la desideravo io. C'era stato un tempo in cui mi ero immaginata di staccarle quel dito eccezionale con un morso, perché non riuscivo a trovare il coraggio di offrire il mio alla bocca della Singer. Ciò che di lei non mi era stato concesso volevo cancellarglielo dal corpo. Così niente più si sarebbe perso o disperso lontano da me, perché finalmente tutto era già stato perduto. (...)
(Tratto dal romanzo L’amore molesto, E/O, Roma, 1999)
Elena Ferrante è vissuta a lungo a Napoli e poi in Grecia. L’amore molesto ha ricevuto vari premi ed è stato tradotto in molti paesi. Ha pubblicato anche I giorni dell’abbandono e La frantumaglia.
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