IL RIFIUTO

Woody Allen

 

Quando Boris Ivanovič aprì la lettera e ne lesse il contenuto, lui e la moglie Anna sbiancarono. Il figlio di tre anni Miša era stato rifiutato dalla migliore scuola materna di tutta Manhattan.
“Non può essere” disse Boris Ivanovič, provato.
“No, no – ci dev’essere un errore” convenne la moglie.
“Dopo tutto è un bambino sveglio, piacevole ed estroverso, dotato di buone abilità verbali e con una predisposizione per i pastelli e per Mr Potato Head.”
Boris Ivanovič aveva smesso di ascoltare ed era perso nei suoi pensieri. Come faceva a guardare in faccia i suoi colleghi alla Bear Stearns ora che il piccolo Miša non era riuscito a entrare in una prestigiosa scuola per l’infanzia? Sentiva già la voce derisoria di Siminov: “Lei queste cose non le capisce. Gli agganci contano. Il denaro deve passare di mano. È proprio uno zoticone, Boris Ivanovič.”
“No, no – non si tratta di questo,” si sentì ribattere Boris Ivanovič. “Me li sono unti ben bene tutti quanti, dalle maestre ai lavavetri, ma il ragazzino non ce l’ha fatta lo stesso.”
“Il colloquio gli è andato bene?” avrebbe chiesto Siminov.
“Sì,” avrebbe risposto Boris, “anche se ha avuto qualche difficoltà a mettere le costruzioni una sull’altra – ”
“Scarsa dimestichezza con le costruzioni,” pigolò Siminov con quel suo fare sprezzante.
“Questo significa seri problemi emotivi. Chi vorrebbe un idiota che non sa fare un castello?”
Ma perché dovrei discutere di tutto questo con Siminov, pensò Boris Ivanovič. Forse non ne sa niente.

Eppure, quando il lunedì seguente Boris Ivanovič arrivò in ufficio, fu subito chiaro che tutti sapevano. C’era una lepre morta sulla sua scrivania. Entrò Siminov, con una faccia da temporale. “Lo capisce, no?” disse Siminov, “il ragazzo non sarà mai ammesso in nessuna università decente. E di sicuro non nell’Ivy League.”
“Per così poco, Dmitri Siminov? La scuola materna influirà sulla sua istruzione superiore?”
“Non voglio fare nomi,” disse Siminov, “ma molti anni fa un noto alto funzionario di una banca d’investimento non riuscì a far entrare il figlio in un asilo di chiara fama. A quanto pare lo scandalo ebbe a che fare con la capacità del bambino di usare i colori a dita. Ad ogni modo, essendo stato rifiutato dalla scuola scelta dai suoi genitori, il ragazzo fu costretto a – a – .”
“A cosa? Me lo dica, Dmitri Siminov.”
“Beh, diciamo solo che quando ebbe compiuti i cinque anni fu costretto a frequentare – una scuola pubblica.”
“Allora Dio non esiste,” disse Boris Ivanovič.
“A diciott’anni tutti i suoi ex compagni entrarono a Yale o Stanford,” continuò Siminov, “mentre questo povero disgraziato, non avendo mai ottenuto le necessarie credenziali in una scuola materna – diciamo – del dovuto prestigio, fu ammesso soltanto alla scuola per barbieri.”
“Costretto a spuntar basette” esclamò Boris Ivanovič, immaginando il povero Miša in camice bianco a far la barba ai ricchi.
“Non avendo alcuna vera esperienza in materia di decorazione di tortine e vasca della sabbia, il bambino era del tutto impreparato ad affrontare le difficoltà che la vita gli riservava”, continuò Siminov. “Alla fine fu impiegato in lavori umili, e per mantenersi il vizio dell’alcol finì per rubacchiare al proprio datore di lavoro. Ben presto divenne un ubriacone senza speranze. E naturalmente i piccoli furti condussero a furti veri e propri e culminarono nell’omicidio della padrona di casa e nel suo squartamento. Prima di essere impiccato, il ragazzo diede la colpa di tutto al fatto di non essere riuscito a entrare nell’asilo giusto.”

Quella notte Boris Ivanovič non riuscì a dormire. Gli apparve l’irraggiungibile asilo dell’Upper East Side, con le sue classi allegre e luminose. Si figurò bambini di tre anni che, nei loro vestitini di Bonpoint, tagliavano e incollavano, e poi facevano una consolante merendina – una tazza di succo di frutta e forse un Goldfish o un Chocolate Graham. Se a Miša questo poteva essere negato, allora nella vita, nell’intera esistenza, non c’era niente che avesse un senso, niente. Si immaginò il figlio, ormai uomo fatto, in piedi davanti all’amministratore delegato di una prestigiosa ditta che metteva alla prova la competenza di Miša in materia di animali e di figure geometriche, cose di cui ci si sarebbe aspettato avesse una perfetta padronanza.
“Allora,” diceva Miša tremando, “quello è un triangolo – no, no, un ottagono. E quello è un coniglietto – oh, no, mi scusi, un canguro.”
“E come fa ‘Do You Know the Muffin Man?’” domandava l’amministratore delegato. “Tutti i vice direttori qui alla Smith Barney sono in grado di cantarla.”
“Beh, a dire il vero, signore, quella canzone non l’ho mai imparata come si deve,” ammetteva il giovane, mentre la sua domanda di lavoro finiva svolazzando nel cestino.
Nei giorni che seguirono il rifiuto, Anna Ivanovič cadde nell’apatia. Litigò con la tata accusandola di aver lavato i denti a Miša passando lo spazzolino da destra a sinistra invece che dall’alto in basso. Smise di mangiare regolarmente e si rivolse in lacrime al suo strizzacervelli. “Devo aver agito contro il volere di Dio perché si arrivasse a questo,” piagnucolò. “Devo aver peccato oltre il lecito – troppe scarpe di Prada.” Si immaginò che l’autobus per gli Hamptons cercasse di investirla, e quando, senza nessun motivo apparente, Armani le chiuse il conto, si barricò in camera e si fece l’amante. Fu difficile da nascondere a Boris Ivanovič, dal momento che dividevano la stessa camera e lui non faceva altro che chiedere chi fosse quell’uomo lì accanto.

Quando la videro davvero nera, un amico avvocato, Shamsky, chiamò Boris Ivanovič per dirgli che c’era un barlume di speranza. Gli propose di vedersi a pranzo a Le Cirque. Boris Ivanovič si presentò in incognita, visto che il ristorante gli negava l’ingresso da quando si era saputo della decisione dell’asilo.
“C’è un tizio, un certo Fjodorovič,” disse Shamsky, raccogliendo con il cucchiaino la sua porzione di crème brülée. “Ti può procurare un secondo colloquio per il tuo rampollo e in cambio tu non devi fare altro che tenerlo segretamente informato dandogli qualsiasi informazione confidenziale su certe compagnie che potrebbero fargli improvvisamente impennare o precipitare le azioni.”
“Ma questa è speculazione mobiliare,” disse Boris Ivanovič.
“Solo se segui alla lettera la legge federale,” puntualizzò Shamsky. “Santo Dio, stiamo parlando di essere ammessi a un asilo esclusivo. Sarà utile anche una donazione, ovviamente. Niente che dia nell’occhio. So che stanno cercando qualcuno che sborsi i soldi per una nuova dependance.”
In quel momento uno dei camerieri riconobbe Boris Ivanovič dietro il naso finto e la parrucca. Il personale gli si scaraventò addosso come una furia e lo trascinò fuori dalla porta.
“Ma bravo!” disse il caposala, “Pensavi di farci fessi, eh? Fuori! Ah, quanto al futuro di tuo figlio, cerchiamo sempre degli aiutocamerieri. Au revoir, tontolone.”

A casa, quella sera, Boris Ivanovič disse alla moglie che avrebbero dovuto vendere la casa di Amagansett per racimolare i soldi di una bustarella.
“Cosa? La nostra amata casa di campagna?” esclamò Anna. “Io e le mie sorelle ci siamo cresciute, in quella casa. Avevamo diritto di passo attraverso la proprietà dei vicini fino al mare. Il passo tagliava a metà il tavolo di cucina dei vicini. Mi ricordo che con la mia famiglia passavamo in mezzo a scodelle di Cheerios per andare a giocare e a fare il bagno nell’oceano.”
Per uno scherzo del destino, la mattina del secondo colloquio a Miša morì il pesciolino. Non c’era stata nessuna avvisaglia – nessuna malattia che avesse lasciato dei postumi. A dire il vero, il pesciolino, a cui era stato appena fatto un check-up completo, risultava in perfette condizioni di salute. Il bambino, ovviamente, era sconvolto. Era chiaro che al colloquio non avrebbe neanche toccato il Lego o il Lite Brite. Quando la maestra gli chiese quanti anni aveva, lui rispose secco: “Che te ne importa, secchio di lardo?” Fu scartato di nuovo.

Ormai poveri, Anna e Boris Ivanovič andarono a vivere in un ricovero per senzatetto. Là incontrarono molte altre famiglie i cui figli erano stati rifiutati da scuole d’élite. A volte con queste persone dividevano il cibo e si scambiavano racconti nostalgici di aerei privati e inverni a Mar-a-Lago. Boris Ivanovič scoprì che c’erano persone ancora più sfortunate di lui, gente semplice respinta dai consigli di condominio perché non aveva reddito sufficiente. Queste persone nascondevano tutte una sorta di religiosa bellezza, sotto i loro volti sofferenti.
“Adesso credo in qualcosa” disse un giorno Boris Ivanovič a sua moglie. “Credo che la vita abbia un senso e che alla fine tutti, ricchi e poveri, abiteremo nella Città di Dio, perché Manhattan sta diventando decisamente invivibile.”


(Il racconto è apparso su The New Yorker il 14 aprile 2003. La traduzione è di Federica e Stefania Merani.)



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