BREVE STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Claudio Marazzini
La cultura umanistica produsse alcuni tipi di scrittura letteraria in cui latino e volgare entrarono in simbiosi, o almeno in un rapporto stretto, a volte a scopo comico, più raramente con intento serio. Una simile mescolanza di codici colpisce il lettore moderno, anche perché ricorda la coesistenza di latino e volgare che si trova in certe scritture pratiche o in certe prediche quattrocentesche: si può dire insomma che nel secolo dell’Umanesimo e nel primo Cinquecento gli esperimenti di mistilinguismo tra latino e volgare furono frequenti e portarono a un livello d’arte quella che era in fondo una pratica comune. In questi esperimenti letterari, però, la contaminazione è volontaria e studiata, non casuale; non nasce da ignoranza del volgare o dalla difficoltà di trovare espressioni e parole toscane; è anzi controllata in maniera sapiente da autori che potrebbero certo scrivere diversamente. Esistono due forme di contaminazione “colta” tra volgare e latino: il ‘macaronico’ e il ‘polifilesco’. La loro esistenza tocca in maniera marginale lo sviluppo della lingua italiana, in quanto si tratta più che altro di esperimenti propri del periodo umanistico.
Con il termine ‘macaronico’ si designa un linguaggio (e un genere poetico) comico nato a Padova alla fine del Quattrocento. Tale linguaggio è caratterizzato dalla latinizzazione parodica di parole del volgare, oppure dalla deformazione dialettale di parole latine, con forte tensione espressionistica tra le due componenti poste a coesistere, quasi anzi a cozzare violentemente tra loro. Una di queste componenti, quella dialettale, è bassa, corporea, plebea, l’altra (la latina, che si esprime anche nella metrica) è aulica. Di qui nasce un contrasto che permette particolari effetti d’arte. Dal punto di vista dell’invenzione linguistica, il ‘macaronico’ consiste nella formazione di parole miste. A una parola volgare può essere applicata una desinenza latina: cercabat ‘cercava’ (‘cercare’ + -abat imperfetto latino), ficavit ‘ficcò’ (‘ficcare’ + -avit perfetto latino), putannarum ‘delle puttane’ (‘puttana’ + -arum genitivo plurale latino); in altri casi parole esistenti sia in latino sia in volgare, come casa (che in latino significa ‘capanna’); parole latine vengono legate in costrutti sintattici tipicamente volgari: propter non perdere tempus ‘per non perdere tempo’. Si danno casi di termini dialettali latinizzati, e il sistema flessionale del latino viene soppiantato largamente dall’uso delle preposizioni, per cui si troverà Regina de Franza, factam de ferro ecc. Il risultato è un latino che sembra pieno di ‘errori’. Si noti però che l’‘errore’ non è dovuto a imperizia. L’autore macaronico è anzi un ottimo latinista, che tuttavia gioca con l’idioma dei classici. Si tratta dunque di una scelta volontaria dello scrittore, a scopo comico, realizzata mediante una tecnica che si può definire di ‘abbassamento’ del tono, attraverso molti espedienti, quelli di cui già abbiamo parlato e altri ancora, ivi compresa l’utilizzazione rovesciata della retorica, che si ha ad esempio quando in un contesto del genere vengono calate citazioni di autori classici, o quando vengono introdotti paragoni tra elementi di per sé incommensurabili (cose grandi e nobili accostate a cose piccole e ridicole), o quando entrano in gioco elementi repellenti (corollario delle figure umane ‘macaroniche’ sono ad esempio i pidocchi, gli occhi cisposi, il moccio che cola dal naso, ecc)., ridicoli, osceni. La poesia macaronica (il cui nome deriva da un cibo, il maccarone, cioè un tipo di gnocco: come si vede, si tratta di un’origine vistosamente ‘corporea’, parodica rispetto alla natura ‘eterea’ della poesia) è, come abbiamo detto, il risultato di un gioco umanistico, un divertimento di gente colta. Non a caso l’origine di questo linguaggio conduce all’ambiente dell’università padovana, laboratorio fervido per esperimenti di questo tipo.
Bisogna distinguere tra il ‘macaronico’ e il ‘polifilesco’, quest’ultimo detto anche ‘pedantesco’ (e, con riferimento a realizzazioni cinquecentesche, ‘fidenziano’, dal titolo dei Cantici di Fidenzio del vicentino Camillo Scroffa). Un’interessantissima quanto eccezionale prova del linguaggio prosastico pedantesco si ha nell’Hypnerotomachia Poliphili (= ‘Guerra d’amore in sogno dell’amatore di Polia’), romanzo anonimo pubblicato nel 1499 a Venezia in una splendida edizione illustrata, di qualità grafica tale da far ritenere questo libro il più bello tra quelli prodotti dall’Umanesimo italiano.
Nell’Italia settentrionale, nella seconda metà del Quattrocento, troviamo alcuni predicatori (come Bernardino da Feltre) che si esprimono con un linguaggio in cui il latino e il volgare si mescolano in modo tale da ricordare il linguaggio macaronico. La mescolanza tra latino e volgare non è certo una novità della predica quattrocentesca, ma viene direttamente ereditata dalla tradizione medievale. Già nella predica medievale, infatti, il latino non solo serviva come punto di partenza, con il riferimento a qualche versetto della Bibbia, ma ricorreva sovente più volte nel corpo della predica stessa, come citazione delle Scritture o dei padri della Chiesa. I sermoni mescidati, tuttavia, portano all’estremo limite questa commistione. Le espressioni e frasi latine si trovano a convivere con una robusta dialettalità, così vigorosa e corposa da far pensare che in essa ci sia a volte un certo gusto per il comico. Si può citare a questo proposito il seguente esempio di Bernardino da Feltre
Pauperes in mundo ab omnibus sono scazati e refutati etc. Item in magnis curtibus, si gallina vadit in pallatium vel cameram domini: Dond’è venuta questa gallina? caza, caza, etc. O povera galinetta, quottidie facit ovum et è scazata etc.
Come già abbiamo detto, nel Quattrocento le scritture mostrano frequentissimamente la compresenza di latino e volgare, e possono avere al loro interno un gran numero di latinismi. Ciò accade ovviamente anche in testi che non hanno intenti d’arte, ma rispondono semplicemente a scopi pratici, come le epistole, le relazioni, i diari, i libri di famiglia e persino i ricettari. Il latinismo nel contesto di un documento volgare è spesso legato a una consuetudine. In una lettera, ad esempio, accade frequentemente che siano in latino le formule iniziali e finali, con cui ci si rivolge al destinatario e con cui si prende commiato. Anche nelle lettere quattrocentesche, oltre alle formule iniziali e finali citate, sono frequenti inserimenti occasionali di frasi e parole latine. Molte di esse sono semplicemente formule correnti, così comuni che la loro latinità passa in pratica inavvertita agli occhi dei lettori del tempo: cum ‘con’, maxime ‘massimamente’, quondam ‘un tempo’, non solum ‘non solo’, insuper ‘in aggiunta’, ultra ‘oltre’, autem ‘d’altra parte’ ecc. In tutti i tipi di testi quattrocenteschi si riscontrano naturalmente molti latinismi grafici e lessicali, inevitabili se si pensa all’uso comune che ancora si faceva del latino e alla dimestichezza che tutte le persone colte avevano con questa lingua.
(Brano tratto dal saggio Breve Storia Della Lingua Italiana, Capitolo IV, Il Mulino editrice, Bologna, 2004)
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