UN’INTERVISTA CON STUART HALL


Heloisa Buarque de Holanda e Liv Sovik

Stuart Hall è oggi, in Brasile, uno dei nomi più riconosciuti della cultura accademica. Tra i promotori della polemica “post-disciplina” degli studi culturali, Hall ha diretto lo storico Centro di Birmingham nel suo periodo più caldo e produttivo. Giamaicano, dal 1951 vive in Inghilterra, dove è noto come intellettuale impegnato nei dibattiti sugli aspetti politico-culturali della globalizzazione, sulla politica nazionale e i movimenti antirazzisti. Ha pubblicato due libri in Brasile: “A identidade cultural na pós-modernidade” (“L’identità culturale nella post-modernità”) e “Da diáspora” (“Sulla diaspora”). In quest’intervista, Hall parla dell’impatto della sua condizione di immigrante sulla sua produzione intellettuale e sulle prospettive dell’impegno intellettuale oggi, e discute come sia possibile elaborare criticamente la globalizzazione.

-Lei ha lasciato la Giamaica quando era ancora uno studente, e oggi è uno degli intellettuali più importanti dell’Inghilterra. Suppongo che questo trasferimento dalla colonia alla metropoli abbia segnato il suo pensiero e la sua attuazione.
-In realtà questa per me è una storia critica. Tutto ciò che è avvenuto quando ho preso la decisione di non tornare più in Giamaica, ha determinato il mio destino e certamente anche le mie preoccupazioni intellettuali. Ho lasciato la Giamaica dieci anni prima della sua indipendenza. Tutta la mia formazione è dunque avvenuta in un contesto coloniale. La mia storia era quella di un ragazzino che si trasferisce dalla colonia verso il centro della metropoli, verso il luogo dei colonizzatori: un’esperienza diversa dal contesto degli anni Settanta, Ottanta e Novanta, dalla lotta dei neri contro il razzismo in Gran Bretagna. Ormai vivo in Inghilterra da più di cinquant’anni, ho sposato un’inglese, i miei figli sono nati in Inghilterra, e oggi vedo un paese diverso. Quella di oggi è un’Inghilterra multiculturale, ma il mio rapporto con lei è lo stesso. Conosco l’Inghilterra e gli inglesi come il palmo della mia mano, ma non mi considererò mai un inglese. Per quanto riguarda la Giamaica, è il mio paese perduto, in cui ormai non mi sento più a casa. La Giamaica è ciò che avrei potuto essere stato, è ciò che sarebbe potuto accadere. Se la Giamaica fosse stata una società nera quando sono partito, non sarei mai rimasto in Inghilterra. Sarei tornato a casa. Non mi sento a casa in nessuno dei due Paesi, e questo, suppongo, a causa della mia enfasi nei riguardi del concetto di in betweenness. È per questo che mi interesso al fenomeno delle diaspore, alle ibridazioni, a ciò che si definisce “casa”, verso cui non si ritorna mai effettivamente.

-Quale potrebbe essere il parallelo tra la diaspora giamaicana e quella afro-brasiliana?
-Ci ho pensato molto. In realtà, intendo una doppia diaspora, un’esperienza di doppia subordinazione. La prima relativa alla schiavitù intellettuale, la seconda relativa all’esperienza, nella grande città, della discriminazione razzista e coloniale. E si tratta di due forme ben distinte di subordinazione. Questa duplice esperienza ci rende esperti in allontanamenti “diasporici”. Dobbiamo adattarci infinitamente a culture più potenti. Impariamo qualcosa con la prima esperienza, che ci è utile per la seconda che avviene negli anni successivi e per quella che sta avvenendo adesso nel contesto della globalizzazione, e così via all’infinito.

-Lei è stato assistente di Richard Hoggart quando fu fondato il “Center for Contemporary Cultural Studies” a Birmingham, e quando, poco dopo, ne è diventato direttore. Come si sente essendo stato praticamente il “fondatore” degli studi culturali, disciplina oggi così polemica?
-Quando abbiamo creato il Centro, gli studi culturali non esistevano e non era tra i nostri progetti crearli. Cercavamo soltanto di aprire un’area di ricerca e di studi critici. Penso che gli studi culturali appartengano ad un’area polemica perché questa disciplina è sempre attenta a ciò viene fatto nelle altre e a ciò che si può dedurre da quelle a livello culturale. Non mi sento il padre degli studi culturali, io non ho creato il Centro. Abbiamo lavorato con figure quali Edward P. Thompson, Richard Hoggart e Raymond Williams, più anziani di me, più studiosi della cultura di me…Gli studi culturali non sono nati da soli. Sono sorti in relazione ad altri movimenti dell’epoca, come le politiche culturali, il femminismo, gli studi multiculturali, soprattutto gli studi post-coloniali, insomma, una gamma di nuovi lavori critici sulle scienze umane.

-Lei ha cominciato la sua attività critica nella letteratura, in polemica con il canone letterario, poi si è aperto verso studi generali sulla cultura e ora vediamo un interesse verso le arti visive. Come è avvenuto questo spostamento di interessi?
-Sono diventato studente di letteratura perché volevo essere uno scrittore. A Oxford, dove mi sono formato, odiavo il clima di dilettantismo che là imperava, e divenni un critico letterario ferocissimo nei confronti della linea canonica di F.R Leavis. Fu in quella circostanza che cominciai a lavorare sul rapporto tra il testo letterario e il contesto storico e sociale. Nello stesso tempo ero già un modernista. Ciò che mi stimolava come scrittore era leggere T.S. Eliot ed Ezra Pound, ascoltare Stravinski, vedere Paul Klee, Ricasso, e ad Oxford dovevo studiare la lingua anglosassone del Medioevo e in letteratura fortunatamente, arrivavo fino al XIX secolo. Fu a quel punto che, leggendo F.R. Leavis, il new criticism americano, e affrontando Raymond Williams e la critica sociale, cominciai a capire che lo studio della letteratura richiedeva soprattutto la comprensione di un contesto storico e culturale più ampio. Cominciai anche a frequentare giovani autori caraibici che erano arrivati a Londra, come ad esempio George Lamming e V.S. Naipaul. Quando cominciai la specializzazione, pensai: quello che devo fare è capire la differenza tra la cultura caraibica, da dove proviene, e quest’altra cultura che produce testi magnifici che sono studiati isolatamente, all’interno di un canone. Questo mi ricondusse indietro ai Ciraibi. Gli studi culturali, pertanto, sono cominciati con il mio interesse per le culture diasporiche dei Carabi. È stato lì che sono passato dalla letteratura alla cultura. Cominciai a studiare i media e a scrivere su immagine e ideologia. È stato il mio interesse per l’immagine che mi ha portato al mio attuale interesse per le arti visive. E più recentemente ho cominciato a lavorare sul primato del visivo nel discorso del razzismo, perché, sebbene la sua struttura di base non lo sia, la sua apparenza immediata è una questione visiva, ciò che si può vedere.

- In questo momento a Rio è in corso un dibattito sulla correttezza o meno dell’istituzione di una franchigia dei musei Guggenheim. Come vede questa espansione “imperialista” dei musei nel mondo?
- Curatori di Mosca, L’Havana e altri luoghi, stanno discutendo la relazione tra i Paesi in via di sviluppo e questo circuito milionario in cui il lavoro artistico è valorizzato, riprodotto, acquista un valore commerciale enorme nel mercato dell’arte e diventa produttore di reputazioni artistiche nei centri più prestigiosi nel mondo. Questa democratizzazione dell’arte e del fare artistico è, certamente, abbastanza positiva e progressista, ma il tipo di rapporto che l’espressione “tempo libero” stimola, è molto passivo. I musei sono diventati parte di un circuito fashion. Non propongono sfide attraverso grandi contestazioni. Ben vengano i musei! Tuttavia, se spettacolarizzano il passato, tradiscono la loro missione contemporanea.

-Parliamo ora un poco a proposito del suo nuovo libro pubblicato in Brasile, Da Diáspora: identidades e mediações culturais (La diaspora: identità e mediazioni culturali), che si è esaurito in quattro mesi, un record per una pubblicazione accademica. In precedenza lei aveva già un best seller in Brasile, A identidade cultural na pós-modernidade (L’identità culturale nella post-modernità). Come considera il successo dei suoi testi in Brasile?
- Innanzitutto questo successo è tanto inaspettato quanto incredibile. Sono molto felice di ciò. Ci ho pensato, e forse questo successo è dovuto al fatto che il Brasile ha un rapporto con le culture europee molto simile a quello con i Caraibi. E questo è il tema soggiacente a quasi tutte le mie opere. È ciò di cui parlo quando tratto di ibridazione, di “creolizzazione”, di diaspora. Credo che, in Brasile, le persone si sentano molto toccate da questa tematica.

- Lei non si dichiara mai l’autore delle opere che pubblica. Sono sempre stati altri che hanno preso l’iniziativa di raccogliere insieme i saggi e di pubblicarli. Perché?
- Perché io non scrivo libri. Scrivo saggi. E non scrivo mai pensando alla pubblicazione. I miei scritti nascono in funzione di situazioni concrete, sono sempre interventi. Cercano sempre di ri-direzionare una certa situazione. Allora, generalmente scrivo e pubblico per riviste legate a movimenti sociali, culturali o artistici legati ai temi che tratto. Soltanto molto dopo questi finiscono per essere riediti o tradotti e trasmessi a circuiti più vasti. D’altra parte, non sono specializzato su alcun argomento. Sebbene presentino un interesse comune, i miei scritti affrontano temi molto diversi. Non ho scritto, ad esempio, una teoria su Chris Ofili per il suo catalogo. Ho scritto sull’arte africana. Poi, a partire dalla mia partecipazione al programma del “Documenta de Kassel”, ho scritto sulla creolizzazione. Ho appena scritto su Tony Blair e il New Labour per la rivista Soundings, perché voglio intervenire sulla situazione dell’Inghilterra di oggi. È in questo modo che avverto l’atto di scrivere e di pubblicare. E questo, all’inizio, non porta al libro…

- Che ruolo deve avere l’intellettuale di oggi?
- Questo sì che richiederebbe un libro. Credo che essere intellettuali oggi corrisponda al dire la verità per il potere. È pensare alle conseguenze del potere, a quello che il potere non vuol trattare, a quello che costituisce l’inconscio del potere. Questi sono gli intellettuali critici. I veri intellettuali o sono allineati col potere, nel tentativo di aprirgli il cammino nel mondo, o hanno un rapporto critico col potere e devono metterlo alla prova, interrogarlo, e soprattutto, esporre le proprie conseguenze spropositate o incoscienti.

- Come si può, oggi, articolare esperienza e conoscenza?
- Non credo affatto nell’obiettività della conoscenza. Non credo che l’obiettivo della conoscenza sia la vittoria della “nostra parte”. Gli intellettuali critici devono essere intellettuali migliori rispetto agli intellettuali tradizionali, devono mettere alla prova il proprio sapere, le proprie argomentazioni, la propria posizione, per far fronte alle critiche che fatalmente arriveranno e che possono distruggere l’efficacia del loro lavoro. Il lavoro intellettuale, per affrontare i tempi nuovi, deve essere critico, resistente, di qualità, e produrre nuova conoscenza.

- Che cose può esser fatto in queste circostanze instabili? Quali strumenti sono ancora validi per il critico di cultura nel quadro della globalizzazione?
- Ritengo che la globalizzazione ponga questioni urgenti. Tornano a galla questioni che le teorie della moda avevano scartato, come l’economia, il capitale, il capitalismo, le Forze Armate, le armi di distruzione di massa, la religione, il suicidio, i fondamentalismi, identità chiuse. Questioni come queste tornano in scena e la globalizzazione le raggruppa nella misura in cui genera le articolazioni del potere egemonico.

- Lei si vede come teorico, critico di cultura o intellettuale militante?
- Non sono un teorico perché non ho la testa per questo e neanche mi interessa fare teoria. Faccio un lavoro intellettuale teoricamente informato. Il mio obiettivo è usare la teoria per analizzare le congiunture. Non mi sento nemmeno un intellettuale militante. Sono un intellettuale attivista nel senso che ho sempre voluto che il mio lavoro sottolineasse una differenza, registrasse e condividesse dibattiti, contribuisse a cambiare una congiuntura, cambiasse gli orientamenti degli interessi o delle forze politiche. In questo senso sono un attivista. Sono anche un critico di cultura, ma questo appare molto lontano dal campo di battaglia. Non sono mai stato così coinvolto come adesso, quando penso all’attuale congiuntura mondiale. Personalmente sono molto turbato da ciò. Grido alla televisione, protesto per radio, davanti alle telecamere. Non voglio che il dibattito continui come è stato sinora. Vedo che le disuguaglianze tra il Primo e il Terzo mondo, tra il Nord e il Sud, si stanno soavemente assimilando, e voglio gridare. Non sono un politico, non sono un giornalista; dipendo dal mio lavoro intellettuale perché la mia critica diventi politicamente attiva.

- Il suo lavoro sulle diaspore sta in qualche modo contribuendo alla sua critica sulle disuguaglianze nel quadro della globalizzazione?
- C’è una globalizzazione dall’alto verso il basso, neoliberale, e una globalizzazione dal basso verso l’alto. In generale si dice che coloro che si oppongono alla globalizzazione dall’alto verso il basso, siano “anti-globalizzazione”. Non sono contrario alla globalizzazione per se. L’interdipendenza tra le nazioni è vitale, è una fonte di enorme creatività, così come di difficoltà e di problemi. Un punto di grande interesse che vedo come conseguenza dell’accettazione della globalizzazione di carattere neoliberale, è la nascita di movimenti di dislocamenti laterali. Oggi il mondo è pieno di persone in movimento che si ribellano alle guerre civili, alla fame, alle malattie, alla xenofobia, alla povertà. Questo è un tipo di globalizzazione informale, illegale. Questa forma di globalizzazione laterale non è una questione di potere. Questa è un contro-potere. Per il potere, non ha senso che un pachistano si trasferisca a Los Angeles dove devono dargli 50$ al giorno. Se lui resterà lì, riceverà 2$ per lo stesso lavoro. La migrazione che ha dato luogo a questa mescolanza di culture in tutto il mondo, ha creato città multiculturali, ha creato nuove diaspore nel resto del mondo. In tal modo la diaspora diviene un concetto critico nel contesto politico della globalizzazione. Dà conto di come sia possibile che una cultura sopravviva, stabilisca rapporti, non si rivolga a difese fondamentaliste né si perda diventando un simulacro e un complice dell’Occidente. In questo senso le diaspore sono uno straordinario laboratorio culturale in cui si sperimentano i tentativi di sopravvivenza e le contronegozziazioni
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(Pubblicato sul Suplemento Idéias del Jornal do Brasil, Gennaio 2004. Traduzione dal Portoghese di Sara Favilla)





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