FACCE
BIANCHE A MILANO
Anna
Maria Ortese
Le
grandi partenze incominciarono i primi di luglio. Già si
respirava male nella città, che per la sua posizione
in pianura, raramente è visitata dal vento; una cintura
d’aria calda, una massa di vapore appena più scuro
dell’aria (per la presenza della fuliggine) la circondava
come un muro, chiaramente visibile dal di fuori, la copriva
come un letto, e sembrava impossibile che là dentro
si potesse respirare come in tutti gli altri luoghi del mondo.
Cittadini dei quartieri belli, inquilini delle case alte, con
triplici servizi e verande che nelle sere celesti toccano la
luna, squisitamente ornate di lampade e tavolini. già manifestavano
la pena fisica del respiro che manca, e rimanevano aggrappati
per ore al telefono comunicando agli amici la data della loro
partenza, la località fissata, purtroppo, solo un mese
prima. La Riviera non sembrava azzurra abbastanza né fresca
come avrebbe potuto essere l’orizzonte di una crociera:
le Alpi promettevano luce e bellezza in giusta misura, la Svizzera
rimaneva nel sogno di tutti come una grazia maggiore. Tuttavia,
stringendo il suo assedio, di ora in ora, l’estate, anche
Ventimiglia, Sanremo, Portofino, Alassio sembravano meno che
niente, e le Alpi, le stazioni di Cortina e di Bardonecchia,
consumate da infanzie e giovinezze protette, sicure, interminabili,
promettevano un discreto piacere.
Si
infittirono le partenze; andarono via gli industriali con la
euforica splendente famiglia;
e mercanti e i professionisti benestanti, con le mogli dal viso
teso, le figlie vagamente rapaci e sicure di sé. Partirono
le personalità, gli uomini importanti, nascondendo dietro
un sorriso stanco e un’alzata di spalle la loro infantile
felicità: e con essi, scontenti, pensando dolorosamente
a una meta più bella, le loro mogli, le figlie, le amiche
del giorno o del secolo. In un secondo tempo, mentre i rotocalchi
cominciavano a dare commosse notizie della loro apparizione su
questa o su quella spiaggia, in questa o quella stazione montana,
con indiscrezioni talora avventate, sui divertimenti e i piaceri
fanciulleschi con cui quelle personalità della vita cittadina
cercavano di rendere meno fastidioso il soggiorno estivo, cominciò la
partenza delle classi lavoratrici, uomini e donne impiegati nelle
fabbriche, gli uffici di Milano, dediti alle attività più assillanti
e modeste, che dopo undici mesi di asfissia lasciavano i luoghi
del lavoro e marciavano verso la pianura, le basse montagne,
il mare. Uomini e donne senza età, la faccia impallidita
delle veglie per lo “straordinario” che avrebbe permesso
la vacanza, partivano con sessanta o settantamila lire per montagne
e le spiagge minori: per Rimini o Comacchio o [...] del Trentino;
per quindici, venti giorni di vacanza che dovevano restituirli,
fra due o tre settimane, in condizioni fisiche tali da garantire
alla fabbrica o all’ufficio un sicuro e leale sfruttamento.
Partivano come liberi vitelli, cavalli, muli, sul binario di
una economia strettissima, ma con un bagaglio di preoccupazioni
immediate e spesso angoscioso e, per modo di dire, il biglietto
di ritorno già in tasca: il ritorno all’ufficio,
la fabbrica, l’officina.
Via costoro sui lunghi treni: fioriti di braccia e di mani, e
sui motoscooter avventati e violenti, che, spesso, ai lati della
strada, smarriscono il loro carico nell’eternità,
loro notizie non erano diffuse dai rotocalchi e le terze pagine
dei giornali, né dalla televisione e la radio: in cartoline
da pochi soldi, con un monumento e una piazza, le portava il
postino ai familiari rimasti: “Saluti. Stiamo bene.”
Per i familiari rimasti, spesso la madre vecchia, il padre che
fuma la pipa seduto fuori della bottega, in periferia; per le
figlie che non ancora guadagnano, né hanno un amico o
un fidanzato; per il figlio ancora disoccupato o i ragazzi del
figlio disoccupato: silenzio.
E la cintura d’afa che si vede da vari chilometro di distanza,
circondare come un cattivo sogno la città.
Abbiamo visto le famiglie di questi e di quelli che non sono
mai partiti strette nella cintura dell’afa.
Gente di chiusa dignità, come tutto il Nord, non sollevare
un lamento, avvezza com’è a ritenersi sola responsabile
della propria vita, fortunosa o sciagurata che sia.
La moglie del custode del mio stabile lavora, da forse trent’anni, è molto
malata e non è partita. Non è partito suo marito,
né è partita la loro figlia maggiore di dieci anni,
una ragazzina bionda che tutte le sere sostituisce sua madre
nella pulizia delle scale. Sei piani, tre di una scala e tre
dell’altra, sono molti per una ragazzina dalle spalle strette
e la nuca delicata come un fiore; ma gli occhi grandi e seri,
pieni di una fredda luce celeste, non si irritano né implorano.
Si irritano per la polvere, questo sì, si circondano di
un anello rosso, ma rimangono attenti e pensierosi. Stretta a
una scopa gigantesca, infinitamente più grande di lei,
passandosi qualche volta la mano tenera e sporca sulla fronte,
la ragazzina milanese sembra impegnata soltanto ad ammucchiare
su ogni gradino, in ordine, la polvere, ad evitare col piede
i grandi scarafaggi neri che annaspano rovesciati sul marmo.
Qualche volta incontrandola, l’ho salutata e non mi ha
risposto. Ho capito il perché di tanti silenzi della piccola
gente di Milano, di tanti mancati saluti e risposte: c’è una
tensione innaturale per le forze di una creatura sola.
Anche la giovane commessa della tavola calda, dove vado qualche
volta, non è partita. Ha consumato le ferie in una camera
ammobiliata di Corso Ticinese. Non la vedevo più, al banco,
pensavo che fosse fuori, ed ecco l’ho incontrata per caso
in Piazza del Duomo: robusta e tranquilla come sempre, ma con
la faccia stranamente bianca e negli occhi una luce inquieta,
di patimento: gli affari, al fidanzato, non vanno troppo bene,
la casa, che dovevano affittare quest’anno, è diventata
un sogno, sempre più si allontana. Risparmiare, ecco la
parola d’ordine, oggi, risparmiare. “Infine, presto
si guasterà il tempo”, dice levando gli occhi inquieti
al di sopra delle case vuote, al cielo greve.
“
Presto verrà settembre!”, mi dice in tono tranquillo
la guardia notturna del grande negozio di pellicce, in centro.
Sorride sgradevolmente, il sorriso rapido stanco degli uomini
che non aspettano più niente. “Nel negozio”,
dice “c’è fresco abbastanza e durante il giorno
dormo. Perciò il problema del caldo per me non esiste”.
Ma esiste per i due figli e la moglie, che, non sanno dove andare,
legati alla catena di mille lire giornaliere (venti sono per
il fitto in coabitazione) e tutto questo è scritto con
rigo nero negli occhi celesti dell’uomo. Mi saluta, e riprende
a passeggiare su e giù, avanti e indietro, innanzi al
tesoro che gli è affidato; su e giù, pronto ad
abbaiare, se qualche ombra, nella notte di luglio, scivoli troppo
accosto alle grandi vetrine luminose.
Né minore
amarezza e minore dolore c’era negli occhi di quel distinto
statale che tre giorni fa, nel deserto di Porta Venezia, accompagnava
il figliolo di pochi anni, ugualmente distinto e disperato,
a comprare un gelato dal lattaio. Il bimbo aveva la faccia
da uomo di quelli che sono nati nelle ristrettezze, le fate,
nascendo, gli hanno toccato la fronte con le dita bagnate nell’acqua
benedetta degli statali: una faccia dura e bianca, senza senso,
dove solo la bocca si manifestava per un tremito delicato,
e gli occhi opachi guardavano dove potevano, dove arrivavano:
fino al muro della casa di fronte, dove erano allineate tre
o quattro botteghe, fino a un magro albero. Avevano avuto una
conversazione abbastanza penosa, padre e figlio, si leggeva
negli occhi crucciati e incattiviti del figlio, in quelli tristi
del padre, e ne potevo immaginare le parole: Noi non partiamo
mai... mai. – Te l’ho promesso, sarà per
l’anno prossimo, Luigino! – Ma almeno una domenica,
partiamo! – Sì, domenica prossima, Luigino!”
Ma questo, le farfalle della notte non lo dicono assolutamente
più. Molte hanno fatto carriera, e si sono trasformate,
o stanno per trasformarsi in distinte signore con pelliccia,
gioielli, macchina, conto in banca e un bonario marito. Le più sprovvedute,
le inabili, quelle costituzionalmente incapaci di riflettere
sono tutte qui, battono Milano sotto la luce antica delle lampade,
tra la Rinascente e San Babila; o rincasano a testa bassa, singhiozzando
internamente, per le vie dignitose e segrete e poco illuminate
intorno al Corso. Una di queste, impegnata tutto un inverno su
un tratto di strada dietro il Palazzo di Giustizia, con l’estate è in
ferie: l’ho trovata con dei vecchi parenti e un ragazzino
che la chiamava zia, seduta al mio solito caffè, intenta
a prendere una bibita. Magra e quieta come una gatta stanca,
con una gonna di lana e un golfino, i capelli sbiaditi increspati
da una cattiva permanente, sembrava proprio l’impiegata
ideale. Sulla sua piccola faccia distrutta dalla vita, due occhi
niente belli, ma in quel momento acuti e penetranti, guardavano
dritto intorno con un’espressione indefinibile, tra la
curiosità, il disprezzo e la comprensione. E un sorriso,
in quel riposo, le cresceva poco alla volta sulla triste faccia;
un piede magro, sotto il tavolo, si liberava dai tacchi troppo
alti. Riposare, riposare! Non importa se non esiste più niente!
Un attimo, riposare.
“
Mica si sta male, a Milano, ora!”, ha detto con un soffio
di voce, con un’asprezza che si scioglieva, a quei vecchi,
al bambino estatico: garbatamente.
Le ferie per una quantità di gente, non sono esistite.
Ragazze, bambini, vecchi, uomini e donne, giovanissimi e adulti,
molte facce bianche hanno aspettato, nascoste dietro la cortina
decente di una finestra, il disperdersi quotidiano dell’afa
nel refrigerio notturno, hanno spiato con una disperazione animale,
nel soffio improvviso quanto raro del vento, nell’improvvisa
quanto meravigliosa frescura che seguiva o precedeva un temporale,
crescere o diminuire il messaggio delle spiagge, dei monti [...]
il rogo d’estate nei primi annuvolamenti d’autunno.
Per questi cittadini l’estate non era l’estate, la
stagione del riposo, del ritorno alla natura, a un più libero
respiro, a un semplice passo di gioia, ma un duro tempo di pena;
e Milano non era la grande Milano ma una delle tante tappe del
loro viaggio umano di italiani, di poveri.
Per questi cittadini, per qualche ragione misteriosa, l’inverno
sarà invece un autentico inverno; e dovranno, come lupi
(essendo, come i lupi, fuori d’ogni legge), difendersi
da ogni durezza e pericolo, che per essi le montagne, il mare,
il cielo, la natura tutta, che per altri è madre tenerissima,
verserà in gran copia, forse per provarne la resistenza,
forse chissà, d’accordo con i proprietari della
terra, per trarne qualche sottilissimo divertimento.
(Pubblicato
originalmente sul giornale L’Unità del 23 agosto
1956)
(Illustrazione di Juan Mildenberger, per gentile concessione dell'Autore.)
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