LA
DOPPIA ASSENZA
Il
nuovo libro di Abdelmalek Sayad
Stefano Liberti
Diceva
Jacques Derrida, all'epoca delle prime lotte dei sans papier
in Francia, che il migrante è come una chiave: elemento
esterno al dentro, può al massimo guardare dalla toppa
la società in cui vorrebbe introdursi, mentre ha ormai
abbandonato l'agevole tasca in cui era rimasto accudito. Con la
metafora della chiave, Derida rappresentava l'emigrato-immigrato
come sospeso in un limbo (quello della porta che non si apre)
e portatore di una profonda e doppia rottura: straniero due volte,
nel suo paese d'origine e in quello d'adozione, non appartiene
a nessun luogo. Apolide non per scelta ma per imposizione, è
una figura evanescente, la cui presenza nei paesi di immigrazione
viene misurata semplicemente nei termini di una tetra contabilità
(benefici economici determinati dalla presenza di un lavoratore
privo di diritti da una parte, e rischi insiti nella presenza
di un rappresentante di una cultura "diversa" dall'altra).
E se in potenza, aggiungeva
il filosofo francese, la chiave è un ponte, elemento di
raccordo capace di mettere in comunicazione due spazi altrimenti
chiusi e non comunicanti, in atto diventa invece nelle nostre
società falsamente aperte segno scomodo di una presenza
ingombrante, testimoni di un'incapacità permanente.
Eravamo nel 1997. Derrida parlava di quell'accoglienza che la
Francia, paese storicamente d'immigrazione, non sembrava più
in grado di garantire. Pur intuendo il disagio di una duplice
inadeguatezza, le sue riflessioni partivano comunque da un assunto
imprescindibile: l'emigrato-immigrato-chiave era giunto alla soglia
della porta e doveva essere aiutato a spogliarsi della sua condizione
di emigrante.
Spinto dalla necessità politica del momento, Derrida finiva
per ignorare nel suo discorso l'altra faccia della medaglia: quella
della società d'origine che, avendo subito le rotture determinate
dalla partenza in massa dei suoi membri, reagiva rifiutandoli,
stigmatizzandone l'assenza come tradimento. Ignorava quindi Derrida,
e con lui buona parte del pensiero europeo più progressista,
la doppia connotazione negativa del limbo di cui sopra: l'immigrato-emigrato
non solo non è accettato nel paese d'immigrazione, ma è
anche respinto dal paese d'emigrazione e condannato a un'impossibile
schizofrenia mentale tra due mondi ugualmente ostili. Da questa
univocità di riflessione risultava una innegabile sfasatura,
che segnava e ancora segna buona parte degli studi e delle rappresentazioni
del fenomeno: tanto abbondante è la letteratura sull'immigrazione,
tanti insufficiente, se non totalmente manchevole, quella sull'emigrazione.
A questa sfasatura, a questa univocità forzosa pone in
parte rimedio oggi la pubblicazione di questa corposa raccolta
di saggi di Abdelmalek Sayad da parte delle edizioni Raffaello
Cortina, che fin dal titolo - La doppia assenza - si propone
di analizzare il fenomeno migratorio nella sua interezza: "dalle
illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato",
come recita la felice espressione scelta a sottotitolo dell'opera.
Algerino emigrato in Francia e mai naturalizzatosi, Sayad ha lavorato
vent'anni come sociologo delle migrazioni, sperimentando anche
sulla propria pelle la violenza di uno stato che considera l'immigrato
un intruso (o un "clandestino", come ama ripetere oggi
la grancassa mediatica), e che gli domanda continue perfezioni
di fedeltà. Centinaia di interviste, un instancabile e
quasi maniacale lavoro sul campo lo portano a comporre un mosaico
ricchissimo di un fenomeno di grande interesse, di cui era in
qualche modo parte in causa: quello dell'immigrazione algerina
in Francia degli anni sessanta e settanta. Fenomeno particolare,
se si vuole, ma che assume una valenza paradigmatica, giacché
presenta tutti gli aspetti del cas d'école: è
una migrazione di massa da una società prevalentemente
rurale verso una società urbana e industriale; è
diretta conseguenza della colonizzazione; avviene verso uno dei
più rigidi stati-nazione della Terra, patria e culla di
quell' "imperialismo dell'universale" di cui parlava
Pierre Bourdieu.
Nella sua analisi Sayad parte da una premessa imprescindibile:
quella cioè che "ogni studio dei fenomeni migratori
che dimentichi le condizioni di origine degli emigrati si condanna
a offrire del fenomeno migratorio solo una visione al contempo
parziale ed etnocentrica: da una parte, come se la sua esistenza
cominciasse nel momento in cui arriva in Francia, è l'immigrante
- e lui solo - e non l'emigrante a essere preso in considerazione;
dall'altra parte, la problematica, esplicita e implicita, è
sempre quella dell'adattamento alla società 'd'accoglienza'".
nella prima delle due facce del fenomeno, quella dell'emigrazione,
il sociologo algerino analizza i fenomeni di rottura operati dalla
partenza in massa dei giovani dai villaggi berberi della Kabilia.
Una rottura che avviene gradualmente e che è caratterizzata
da due fasi diverse, che corrispondono a una progressiva emancipazione
del soggetto migrante e a un suo parallelo isolamento e allontanamento
mentale dalla società d'origine. Inizialmente, infatti,
l'emigrato è un prescelto della comunità: "è
un contadino con l'incarico di emigrare, che si sforza di superare
la prova dell'emigrazione senza mai rinnegare se stesso in quanto
contadino" e che alla fine reintegrava la propria condizione
di origine. Ma l'emigrato che torna è un cavallo di Troia:
racconta, mentendo, delle meraviglie del mondo al di là
del mare e produce nella comunità un desiderio generalizzato
di partire, contribuisce a diffondere la mentalità calcolatrice
associata all'uso della moneta, provoca una totale destrutturazione
della società contadina. Così pian piano l'emigrazione
perde la sua caratteristica di missione affidata al gruppo e diventa
atto e progetto individuale.
"La Francia ci entra fin dentro le ossa", confessa in
una delle interviste un ex fellah di un villaggio berbero,
divenuto operaio semplice in una fabbrica della Renault. La Francia
entra dentro le ossa ed è come un cancro, una condizione
di falsa superiorità che il migrante deve difendere, a
costo di falsificare in modo patente la realtà, fino all'assurdo
di indebitarsi per mandare alla famiglia soldi che non guadagna,
L'emigrazione è comunque vissuta come una condizione provvisoria;
ma è un provvisorio condannato alla permanenza giacché
l'emigrato non può reintegrare il gruppo che ha tradito
né mai si sentirà parte della comunità dove
è andato a lavorare. Da cui la doppia assenza: l'emigrato
continua a essere presente sebbene assente nella comunità
d'origine che ha tradito e non è mai completamente presente
nella comunità che ha raggiunto.
Perché la comunità che ha raggiunto difficilmente
lo considererà al di là delle sue braccia, mera
corporeità destinata al lavoro, e guarderà con sospetto
ciascuno dei suoi atti e dei suoi gesti. Al di là della
naturalizzazione e dell'assunzione della cittadinanza, che Sayad
definisce una "dolce violenza", gli algerini rimarranno
sempre stranieri e diversi, "francesi di ramificazione, fogliame",
come rileva un giovane beur intervistato dall'autore, in
opposizione ai "francesi di ceppo" (de souche),
aberrazione semantica ormai diventata norma per indicare diversi
gradi e qualità di cittadinanza. L'escamotage è
ovvio: il modello repubblicano francese, imbellito dall'imperialismo
della virtù dei diritti umani, non può negare i
diritti ad altri esseri umani, ma può operare una sorta
di imposizione malcelata di una cittadinanza di secondo rango.
Si legga con attenzione il capitolo su "immigrazione e pensiero
di stato", in cui viene analizzato il ruolo dell'immigrante
in rapporto allo stato-nazione. Limite del progetto nazionale,
in quanto venuto dal di fuori, l'immigrato assume la forma del
capro espiatorio, misura di una diversità rispetto alla
quale la comunità in qualche modo si definisce in negativo.
L'immigrato economico, quello cioè di bassa estrazione
sociale, è sempre tenuto a un'ipercorrettezza sociale,
deve mostrare di essere animato da una volontà incrollabile
di adesione a un sistema che gli viene imposto, giacché
ha avuto la fortuna di essere accolto. Da cui le discussioni interminabili
in Francia sulle deviazione del cosiddetto modello repubblicano:
l'uso del velo a scuola, la discriminazione della donna, l'uso
politico della religione indicato come forma di integralismo e
così via. Tutte discussioni che ormai si propongono anche
da noi, sia nei modi più beceri e strillati dei proclami
leghisti sia nelle forme più surrettizie dell'imperialismo
della ragione e dei diritti umani, che spesso non è altro
che camuffata imposizione di un modello che si propone come universalmente
superiore.
È importante quindi il libro di Sayad proprio per questa
sua valenza paradigmatica, perché mostra il germe di tutte
le attuali considerazioni sull'immigrazione, anche nel nostro
paese, che il fenomeno migratorio ha cominciato a viverlo solo
da recente. Dall'identità dell'immigrato-clandestino al
lessico emergenziale della "fortezza assaltata", dalle
riflessione più o meno amene sulle presunte rotture e sfide
che i migranti imporrebbero ai sistemi culturali dei grandi stati
europei (sfide e rotture assolutamente marginali e trascurabili
se tali non fossero alimentati da un paranoico integralismo culturale),
fino al grande miraggio: l'utopia-distopia dell'integrazione.
Perché l'integrazione non è che un indeterminato
irraggiungibile, una falsa chimera, un'illusione forzosa, come
rileva argutamente una ragazza interpellata in una delle centinaia
di interviste condotte dall'autore: "Abbiamo studiato l'integrazione
in matematica, a scuola. Abbiamo imparato gli integrali, la funzione
esponenziale. È la curva asintotica che possiamo tracciare
all'infinito e che non toccherà mai l'ascissa. L'integrazione
è così, bisogna correrle dietro ma più ti
avvicini più ti ricordano che non è affatto quella."
(Tratto dalla Rivista Lo straniero n° 29, novembre
2002)
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