I NOSTRI TEMPI

( – brano del saggio storico Il secolo breve – )

Eric Hobsbawm

 

L’accrescersi delle brutalità nei nostri tempi non si dovette tanto allo scatenamento del potenziale di crudeltà e di violenza latente nell’essere umano, che la guerra naturalmente legittima, sebbene questa componente affiorasse dopo la prima guerra mondiale tra un certo genere di veterani ex combattenti che militarono nelle squadre di picchiatori e di assassini e nei corpi paramilitari dell’ultradestra nazionalista: perché mai uomini che avevano ucciso e avevano visti i loro amici uccisi e mutilati avrebbero dovuto esitare a uccidere e brutalizzare i nemici della giusta causa?
Una ragione rilevante della crescita della barbarie fu piuttosto l’inedita democratizzazione della guerra. I conflitti generali si trasformarono in “guerre di popolo” sia perché i civili e la vita civile diventarono obiettivi diretti e talvolta principali della strategia militare, sia perché nelle guerre democratiche, così come nella politica democratica, gli avversari sono naturalmente demonizzati allo scopo di renderli odiosi o almeno disprezzabili. Le guerre condotte in entrambi gli schieramenti da professionisti o da specialisti, soprattutto se costoro appartengono a strati sociali affini, non escludono il reciproco rispetto e l’accettazione di regole perfino cavalleresche. La violenza ha le sue regole. Questa condotta era ancora evidente tra i piloti da combattimento in entrambe le guerre mondiali, come attesta il film pacifista di Jean Renoir sulla prima guerra mondiale, La grande illusione. I professionisti della politica e della diplomazia, quando non vengono intralciati dalle esigenze della stampa e dalle necessità elettorali, possono dichiarare la guerra o negoziare la pace senza malanimo verso la controparte, con l’attitudine di pugili che si stringono la mano prima di scendere sul ring e che vanno a bere insieme dopo il combattimento. Ma le guerre totali del nostro secolo furono molto lontane dagli schemi della politica bismarckiana o di quella settecentesca. Nessuna guerra in cui si fa appello a sentimenti nazionali di massa può avere carattere limitato come lo avevano le guerre aristocratiche. Bisogna poi dire che nella seconda guerra mondiale la natura del regime hitleriano e il comportamento dei tedeschi (compreso l’esercito che non era nazista) nell’Europa orientale furono tali da giustificare in buona parte la loro demonizzazione.
Un’altra ragione fu la nuova conduzione impersonale della guerra, in base alla quale uccidere e ferire diventavano conseguenze remote del premere un pulsante o del muovere una leva. La tecnologia rendeva invisibili le sue vittime, mentre ciò non accadeva quando si sventravano i nemici con la baionetta o li si inquadrava nel mirino del fucile. Di fronte ai cannoni in postazione sul fronte occidentale non c’erano uomini, ma cifre statistiche, cifre puramente ipotetiche, come dimostrò il conteggio delle vittime nemiche durante la guerra del Vietnam. Laggiù, al suolo sotto i bombardieri, non c’erano persone che stavano per essere bruciate o maciullate, ma obiettivi. Giovanotti gentili, ai quali non sarebbe certamente piaciuto affondare la baionetta nel ventre di una giovane donna incinta di qualche villaggio, potevano assai più facilmente sganciare tonnellate di esplosivo su Londra o su Berlino, o bombe atomiche su Nagasaki e Hiroshima. Coscienziosi burocrati tedeschi che avrebbero certo trovato ripugnante condurre in prima persona al mattatoio gli ebrei affamati, potevano studiare con un senso assai tenue del proprio coinvolgimento personale gli orari ferroviari che regolavano l’afflusso costante dei treni della morte ai campi di sterminio polacchi. Le più grandi crudeltà del nostro secolo sono state le crudeltà impersonali delle decisioni prese da lontano, nella routine del sistema operativo, soprattutto quando potevano essere giustificate come necessità operative sia pure incresciose.
È così che il mondo si abituò all’espulsione di interi popoli dai loro territori e all’uccisione su vasta scala, fenomeni così poco consueti in passato che dovettero essere coniate nuove parole per significarli: “apolide” o “genocidio”. La prima guerra mondiale portò all’uccisione di un numero imprecisato di armeni da parte dei turchi – la cifra più ricorrente è di un milione e mezzo –, un fatto che può essere considerato il primo tentativo moderno di eliminare un’intera popolazione. A questo episodio succedette molti anni dopo l’assai più nota strage nazista di circa cinque milioni di ebrei (il numero è controverso). La prima guerra mondiale e la rivoluzione russa costrinsero milioni di persone a spostarsi come profughi e lo stesso effetto si ebbe a seguito degli “scambi di popolazione” tra gli stati. Un totale di 1,3 milioni di greci vennero rimpatriati in Grazia per lo più dalla Turchia; 450.000 turchi furono spostati nel loro stato che li reclamava; 200.000 bulgari si spostarono nel territorio ridotto della nazione che portava il loro nome; un milione e mezzo o forse due milioni di russi, a seguito della rivoluzione o della guerra civile dopo la sconfitta dei bianchi, si trovarono senza casa. Fu soprattutto per costoro, più che per i 320.000 armeni che cercarono di sfuggire al genocidio, che venne inventato un nuovo documento il quale, in un mondo sempre più burocratizzato, doveva servire per coloro che non avevano esistenza legale in alcun paese: il cosiddetto passaporto Nansen della Società delle Nazioni, così chiamato dal nome del grande esploratore artico norvegese che si costruì una seconda carriera come amico dei senza amici. A una stima approssimativa negli anni tra il 1914 e il 1922 si ebbero dai quattro ai cinque milioni di profughi.
Questa prima ondata di relitti umani fu di assai poco conto rispetto a quella che seguì la seconda guerra mondiale, dove i profughi vennero forse in Europa 40,5 milioni di persone sradicate dalla propria terra natale, esclusi i lavoratori non tedeschi impiegati in Germania e i tedeschi che fuggivano dinanzi all’avanzare dell’Armata rossa. Circa tredici milioni di tedeschi furono espulsi dalle regioni della Germania annesse dalla Polonia e dall’URSS, dalla Cecoslovacchia e dalle zone dell’Europa sudorientale dove essi si erano sistemati da tempo. Essi furono accolti dalla nuova Repubblica Federale di Germania, che offrì una patria e una cittadinanza a tutti i tedeschi che vi rientravano, così come il nuovo stato di Israele offrì un “diritto di ritorno” a ogni ebreo. Solo in un’epoca come la nostra, in cui sono possibili i voli di massa, offerte simili da parte degli stati potevano venire seriamente formulate. Degli 11.322.700 “deportati” di varie nazionalità trovati in Germania nel 1945 dagli eserciti vittoriosi, dieci milioni tornarono subito in patria, ma una metà di questi vi fu costretta contro la propria volontà.
Questi furono soltanto i profughi dell’Europa. La decolonizzazione dell’India nel 1947 ne creò quindici milioni, costretti ad attraversare le nuove frontiere fra l’India e il Pakistan (in entrambe le direzioni), senza contare i due milioni uccisi nella guerra civile che seguì. La guerra di Corea, un altro derivato della seconda guerra mondiale, produsse forse cinque milioni di profughi coreani. Dopo la costituzione dello stato di Israele, altra conseguenza della guerra, circa 1,3 milioni di palestinesi furono presi in carico dall’UNWRA (United Nations Relief and Work Agency), l’agenzia delle Nazioni Unite per gli aiuti e l’occupazione; di contro, all’inizio degli anni ’60 gli ebrei emigrati in Israele, per lo più come profughi da altri paesi, ammontavano a un milione e duecentomila. In breve, la catastrofe umana complessiva scatenata dalla seconda guerra mondiale è quasi certamente la più grande mai avvenuta nella storia. Uno dei suoi aspetti più tragici è che l’umanità ha imparato a vivere in un mondo in cui lo sterminio, la tortura e l’esilio di massa sono diventati esperienza quotidiane di cui non ci accorgiamo più.
Guardando indietro ai trentun anni che vanno dall’assassinio dell’arciduca d’Austria a Sarajevo fino alla resa incondizionata del Giappone, si deve considerarli come un’epoca di strage rovinosa, paragonabile alla Guerra dei Trent’anni nella storia tedesca del Seicento. E Sarajevo – la prima Sarajevo – segnò indubbiamente l’inizio di un’epoca di catastrofe e di crisi nella situazione internazionale. (...)

(Tratto dal saggio storico Il secolo breve, Bur, Milano, 2000, traduzione di Brunello Lotti)