I SUPERSTITI

(Da leggere ascoltando Angela Ro-Ro)

Caio Fernando Abreu

 

A Jane Araújo, la Magra

Sri Lanka, chissà? dice lei, bruna e felina, ed io rispondo perché no? Ma lei continua imperterrita: almeno da là potrai mandare cartoline così gli altri penseranno accidenti! com’è che è andato a finire proprio lì a Sri Lanka, che tipo strano quello, no?, e gli venga nostalgia di te, non è quello che vuoi? una certa nostalgia: a Sri Lanka, giocando a Rimbaud, che poi così lontano non è arrivato, perché tutti si struggano pensando però era così carino, e noi non abbiamo saputo dargli la sufficiente dose di attenzione per farlo restare qui con noi, tra palme e ananassi. Si fa aria senza sosta con la copertina del disco di Angela, mentre fuma ininterrottamente tracannando vodka nazionale senza ghiaccio né limone. In quanto a me, la voce si fa roca, me ne sto qui a partecipare a manifestazioni pubbliche, tra una pista e l’altra, insozzando i muri di scritte contro il nucleare, dopo una gran bella sbornia, un giorno monaca, uno puttana, un giorno Joplin, un altro Madre Teresa di Calcutta, un giorno di merda in cui mi tengo quel maledetto impiego di otto ore al giorno per poter pagare questa poltrona di vero cuoio su cui in questo istante sua signoria sta posando il suo prezioso deretano, e questo esotico tavolino al centro, in giunco indiano dove stai appoggiando i piedi scalzi affaticati da una settimana di battaglie inutili, fantasie di evasioni, orgasmi abortiti e rate scadute. Ma abbiamo tentato di tutto, dico io e lei risponde che sì, ceeeeeerto, di tutto abbiamo provato, compreso scopare, perché tutti quei libri prestati, i film visti insieme, i tanti punti di vista socio-politico-artistico-filosofico-esistenziale e bla bla bla in comune non potevano che finire in una cosa sola, a letto. Abbiamo tentato, davvero, ma è stato un fiasco. Cos’è stato, mio Dio, cos’è stato, mi ritrovavo poi a pensare mentre accendevo una sigaretta dopo l’altra, non volevo ricordare ma non mi usciva dalla mente il tuo coso moscio e le punte dei miei seni che neanche si indurivano, è la prima volta che succede, hai detto, e io a crederci, è la prima volta che succede, ho aggiunto, ma non so se tu ci hai creduto. Vorrei dire che sì, che ci avevo creduto, ma lei non si ferma, tanta attrazione mentale spirituale morale esistenziale ma niente fisica, non volevo accettare che fosse così: eravamo diversi, eccome se lo eravamo, e migliori, e di più, eravamo superiori, gli eletti, vagamente sacrali, ma alla fin fine le punte dei miei seni non si indurivano e il tuo coso non si alzava, troppa cultura ci uccide il corpo, capisci, troppi film, tropi libri, troppe parole, l’unico modo per possederti era masturbarmi, c’era la biblioteca di Alessandria ficcata in mezzo ai nostri corpi, mi penetravo fino in fondo con le dita notte dopo notte e ti supplicavo ficcalo dentro, dai, esplodiamo insieme, poi mi voltavo accasciata a piangere contro il cuscino, perché allora mi assaliva ancora il senso di colpa, la nausea, la vergogna, ma adesso è tutto a posto, il Rapporto Hite ha liberato le seghe. Non che fosse per mancanza di amore, almeno così dicevi, al contrario, era per amore in eccesso, questo almeno lo credevi? in quel fetido bar dove eravamo soliti affogare la nostra impotenza in secchi di lirismo giovanile, imbecille, ed io a dire no!, il fatto è che da buoni-intellettuali-piccolo-borghesi il tuo ruolo è uomo e il mio è donna, addirittura avremmo potuto formare una coppia incredibile, sul tipo di quell’amante di Virgnia Woolf, come si chiamava? Vita, Vita SackvilleWest e quel finocchio del marito, no, non scaldarti, carino, non ho niente contro i finocchi, passami la vodka, che? io avrei il grano per comprare vodka? non ho niente contro le lesbiche, non ho niente contro i decadenti in generale, non ho niente contro ogni cosa che suoni come un tentativo. Le chiedo una sigaretta e lei mi sbatte il pacchetto in faccia come chi ti lancia un mattone, sono troppo angustiata, amico mio, parolina antica questa, l’angustia, due decadi di convivenza quotidiana, ma continuo, continuo, ho una cosa che m stringe qui nel petto come a soffocare, una sete, un peso, non venir qui con questa storia dell’abbiamo-tradito-tutti-i-nostri-ideali, mai avuto un cazzo di ideale, volevo solo salvarmi la pelle, vedi una cosa più individualista, elitaria, capitalista, volevo solo essere felice, una pecora, grassa, alienata e completamente felice. Avrebbe anche potuto funzionare tra noi due, oppure no, in fondo tu allora non ti eri ancora deciso a dare il culo, nemmeno io a leccar fighe, e che teneri i nostri libricini di Marx, e poi Marcuse, Reich, poi Castaneda, e Laing sotto il braccio, quei sogni colonizzati in testoline idiote, borse di studio alla Sorbonne, tè con Simone e Jean-Paul negli anni ’50, a Parigi; nei ’60 a Londra ad ascoltare here comes the sun here comes the sun, little darling; nei ’70 a New York a ballare disco music allo Studio 54; e negli ’80 qui a masticare questa porcheria senza riuscire né a ingoiarla né a sputarla, né a dimenticare questo sapore acido in bocca. Ho già letto tutto, caro mio, ho già tentato con macrobiotica psicanalisi droghe agopuntura suicidio yoga danza nuoto jogging astrologia pattinaggio marxismo candomblé bar gay ecologia, mi è rimasto sempre questo nodo al petto, e adesso che faccio? non per imitare Pessoa, ma in ogni angolo della stanza ho un’immagine di Budda, una di mamma Oxum, l’altra di Gesù Bambino, un poster di Freud, a volte accendo una candela, prego, brucio incenso, faccio un bagno di ruta, getto sale grosso negli angoli, non ti sto chiedendo una soluzione, tu te ne vai a goderti gli indigeni a Sri Lanka e poi mi mandi una cartolina per raccontarmi qualcosa del tipo ieri sera, in riva al fiume, ci sarà pure un fiume laggiù, un fiume fangoso, pieno di giunchi ombrosi, ebbene ieri in riva al fiume, senza aver previsto niente, d’un tratto, per caso, ho incontrato un ragazzo dalla pelle olivastra e gli occhi a mandorla che. Cosa? chiaro che dev’esserci una specie di dignità in tutto questo, la questione è dove, non in questa fosca città, non in questo pianeta putrido e povero, dentro di me? Non venirmi qui con queste autoprese di coscienza redentrici, so già tutto su di me, ho ingoiato più di cinquanta barbiturici, ho fatto sei anni di psicanalisi, sono già uscita di testa dalle tante cliniche che ho girato, ricordi? Mi portavi mele argentie e fotoromanzi italiani, Rossana Galli, Franco Andrei, Michela Roc, Sandro Moretti, io ti guardavo imbottita di sedativi e sbavavo singhiozzando, ho perso l’allegria, mi sono rabbuiata, mi hanno rubato la speranza, mentre tu, solitario e positivo, mi stringevi la spalla con la mano, virile nonostante tutto, ripetendo reagisci!, amica, reagisci, la causa ha bisogno di questa tua testolina privilegiata, del tuo potenziale creativo, della tua lucidità libertaria e bla bla bla. Per me le persone si trasformavano in cadaveri in decomposizione, la mia pelle era triste e sporca, le notti interminabili, nessuno mi toccava, ma io ho reagito, sono ritornata in me, e dov’è finita la causa, dov’è finita la lotta, dov’è finito il potenziale creativo? Uccido, non uccido, stordisco la mia sete con le lesbichette del Ferro’s Bar o mi sbronzo da sola il sabato aspettando che suoni il telefono, che non suona mai, ascoltando samba e blues con caipirinha alla vodka, in questo appartamento che pago col sudore del potenziale creativo del sedere che per otto ore al giorno dò a quella fottuta multinazionale. Ma io, tento di dire, e lei m’interrompe placida, chiaro che non è colpa tua, amico, siamo caduti nella stessa trappola per topi, l’unica differenza è che tu pensi di poter fuggire mentre io voglio crogiolarmi nel dolore di questo ferro conficcato nel fondo della mia gola riarsa, passami una sigaretta, no, non sono disperata, non più di quanto non lo sia sempre stata, non sono né sballata né fuori, sono pienamente lucida e so perfettamente che non ho alcuna via d’uscita, non darti pena, quando te ne sarai andato mi farò un bel bagno freddo, poi latte caldo con miele di eucalipto e ginseng, mi metto a letto e dormo, poi mi sveglio e faccio una settimana a banshà e riso integrale, completamente santa, completamene pura, completamente pulita, poi prendo un’altra sbronza, sniffo cinque grammi, sbatto con l’auto contro un angolo di strada o chiamo il telefono amico alle quatto del mattino e la dò a bere a un idiota qualsiasi frignando cose del tipo ho-tanto-bisogno-di-una-ragione-per-vivere-e-so-che-questa-ragione-sta-solo-dentro-di-me-bla-bla-bla, finché il sole si dipingerà dietro quegli edifici, non prenderò decisioni drastiche che non sia il continuare, vi é cosa più distruttiva che insistere senza fede alcuna? Passa lentamente la mano sulla mia testa, sul mio cuore, avevo tanto amore un giorno, si arresta e implora, di tanto ne ho bisogno ora, di tanto amore, me l’hanno negato, allora stendo le dita e lei si fa subito piccola contro il mio petto, chiedendomi se é proprio tanto brutta e così puttana e tanto vecchia e completamente fatta, prima non avevo questi cerchi intorno agli occhi, e questi solchi intorno alla bocca, e questo fare da zoccolona stanca, e io le ripeto che no, che è bella così, scarmigliata e viva, mi chiede di mettere un disco e scelgo il Notturno numero due in mi bemolle di Chopin, voglio lasciarla così, mentre dorme al buio, su questo divano, accanto ai papaveri quasi appassiti, cullata dalla musica remota del piano come fosse una ninna nanna, ma lei si contrae con violenza e mi chiede di mettere un’altra volta Angela, allora cambio disco, amore mio grande amore, ci dirigiamo intontiti verso il bagno dove le sostengo la testa sopra la tazza mentre vomita, e senza volerlo vomito anch’io, nel medesimo istante, noi due abbracciati, le bocche amare, rimasugli acidi sulle lingue, lei preme lo scarico e inizia a spingermi verso la porta chiedendomi di andare via, mi fa uscire sul corridoio dicendomi non dimenticarti di mandare una cartolina da Sri Lanka, il fiume fangoso, la pelle olivastra, che ti succeda qualcosa di bello, ti auguro una fede enorme, in una cosa qualsiasi, non importa cosa, come quella fede che avevamo un giorno, augurami anche tu una cosa bella, una cosa meravigliosa qualsiasi, non importa cosa, come quella fede che avevamo un giorno, che mi faccia credere di nuovo in tutto, che ci faccia credere di nuovo in tutti, che mi allontani dalla bocca questo sapore marcio di fallimento, di sconfitta senza dignità, è inutile, amico, ci siamo persi in pieno viaggio, una carta geografica non l’abbiamo mai avuta, nessuno ormai ci dà un passaggio e si sta già facendo buio. La chiave gira nella toppa. Mi devo appoggiare alla parete per non cadere. Dall’altra parte del muro, mischiata al pianoforte e alla voce roca di Angela, anche se me ne andassi strisciando fino a Leblon, la sento ripetere che va tutto bene, tutto continua bene, tutto benissimo, tutto bene. Axé, axé, axé! esclamo con insistenza finché arriva l’ascensore. Axé, odara, forza e bellezza!


(Tratto da Molto lontano da Marienbad, di Caio Fernando Abreu, edizioni Zanzibar, Milano 1995. Traduzione di Bruno Persico)